Nascere durante la pandemia

Pablo Picasso – Madre e figlio

Volentieri pubblichiamo il project work di Donata Potito, Specialista in Pediatria e Puericultura e Counsellor, e Giancarla D’Aurizio, Ims Medicina Funzionale, Mediazione Linguistica e Comunicazione Interculturale, elaborato all’interno dell’ultima edizione del Master in Medicina Narrativa Applicata

Questo progetto nasce dall’esigenza di trovare, al tempo del COVID-19, una modalità di aiutare le giovani madri nel momento del parto e successivamente nella conduzione dell’esperienza del maternage a casa, senza poter contare sull’aiuto fisico di operatori esperti,  dei familiari e soprattutto della propria madre, precluso a causa delle restrizioni dei contatti.

Nasce inoltre dalla profonda esigenza di chi, pediatra da quaranta anni e madre di figlie che avrebbero potuto vivere una simile esperienza per età, non avrebbe potuto “lavorare sul campo” perché “persona fragile” per età e patologia.

Bisognava trovare una modalità nuova ed efficace, che  potesse dare un aiuto immediato e reale.

Con l’occasione del project work nell’ambito del Master in Medicina Narrativa Applicata, si è pensato di coinvolgere alcune Pediatre di famiglia motivate, alle quali proporre la scrittura della loro esperienza di curanti in questo particolare periodo, e quella delle madri dei loro pazienti.

Inizialmente sono state coinvolte operatrici dell’area di Varese, in itinere si è aggiunta Pescara, a fotografare due realtà distanti dal punto di vista logistico e per numero di contagi, ma entrambe caratterizzate dalla stessa paura delle neomamme in tempo di pandemia, dalla solitudine, dalle aspettative disattese, dall’impossibilità della condivisione con i propri compagni, con gli altri figli e con le madri delle partorienti.

Una paura vissuta nella solitudine di non essere all’altezza nella gestione dei figli appena nati, che ha trovato conforto nel raccontarsi attraverso narrazioni scritte e orali spontanee, dove poter esprimere liberamente il periodo della nascita, lo spazio del ricovero in ospedale, il rientro a casa, lo spazio dedicato alle videochiamate, le prime uscite nella fase 2.

Narrazioni che avevano l’obiettivo di interiorizzare ed esteriorizzare tutto ciò che si era palesato in quello spazio temporale che nessuno, operatori compresi, avrebbe mai pensato di vivere.

Tutto questo da fine febbraio a fine giugno (fase 1 e fase 2).

Dalle narrazioni raccolte sono emersi dei temi comuni, in primis il contrasto tra l’evento gioioso e il dramma che invece accadeva fuori; tutto il mondo si era fermato eppure la Vita andava avanti: … Alle due di notte, mentre correvamo in ospedale, siamo stati fermati dai carabinieri, ovviamente ci hanno fatto subito procedere nella corsa, senza chiederci alcun documento, senza farci perdere tempo, ma per un istante ci hanno ricordato cosa accadeva nel mondo, mentre noi eravamo giustamente concentrati solo sul nostro piccolo mondo…

Lungo il tragitto per tornare a casa comprendo, prendo coscienza di quello che sta accadendo, il cielo piange, le strade sono deserte, le saracinesche dei negozi serrate.

La paura di ammalarsi eppure sentirsi in qualche modo protette in ospedale; la brusca presa di coscienza dei nonni di essere soggetti a rischio; la frustrazione degli operatori sanitari divisi tra la paura di riportare il virus in casa e il senso di colpa di non stare facendo abbastanza; le grandi difficoltà nello stabilire una relazione  a causa del distanziamento sociale:

… La percepita frustrazione delle ostetriche e l’altro personale (ovviamente, frustrati per la stanchezza dovuta alla mancanza del personale)…

… Rimpiango tanto di non ricordare i nomi delle due ostetriche che mi hanno seguita in sala parto. Avrei voluto tanto di salutarle e ringraziarle prima di andare a casa. Purtroppo, anche lì tutto sta nel fatto che il contatto fisico doveva essere limitato il più possibile…

… A causa del virus i medici cercavano di dimettere il più in fretta possibile…

Il personale era oberato di lavoro, e a me mancava la parte umana, quella dell’ascolto.

… Ci dicono che probabilmente nessuno ci avrebbe visitate in quanto mancavano gli anestesisti, tutti occupati in terapia intensiva…

… Io non so il nome dell’ostetrica che mi ha fatto partorire, non so niente perché è stata una cosa talmente anonima, talmente veloce…

 … Entrambi i figli, senza mettersi d’accordo tra loro, ci hanno scritto di non uscire di casa… Capiamo tristemente per la prima volta che siamo anziani e che i nostri figli avevano ragione.

La solitudine e la lontananza forzata dagli affetti più cari, l’impossibilità di consultare di persona un medico o un’ostetrica, il timore dunque di non stare facendo bene la medicazione del cordone, il bagnetto, la poppata… senza la possibilità di un confronto diretto, una visita rassicurante, solo consulti telefonici o in videochiamata che però hanno  dei forti limiti: … Mi sono rivolta ad un’ostetrica, una persona molto competente, accogliente e professionale, ma le sedute non potevano che essere tramite un video, e quando una persona ha bisogno di aiuto e sostegno un video non basta, non trasmette il necessario calore. L’ostetrica non poteva vedere come L. si attaccava, non vedeva come lo tenevo in braccio, insomma non bastava. 

Niente nonni, niente amici, niente zii, niente palloncini o regali… Be’ questo devo ammettere è stato un po’ pesante, parlo per me che ricordo il mio primo parto come una grande festa, avevo i miei genitori vicino, soprattutto l’aiuto di mia madre, mi è mancato tantissimo!

Alla nascita avevo bisogno della mia mamma. Lei soffriva tantissimo e io ho avuto delle complicazioni, che durante le videochiamate non mostravo, erano videochiamate piene di sorrisi, e poi quando riattaccavo piangevo, non volevo dare loro un peso per preoccuparli. Questa è stata la cosa più brutta. Solo noi lo abbiamo preso in braccio.

Ancora poi la delusione di non aver avuto vicino il proprio compagno durante il parto e i giorni degenza:“Ho fatto tutto il travaglio a casa da sola, con mio marito che non è riuscito a venire in sala parto con me perché le disposizioni che avevano dato erano di non far entrare il papà se non a travaglio attivo e una volta in sala parto, dunque aspettava in macchina. Il mio parto è stato talmente veloce che, il tempo di chiamarlo, di salire e firmare tutte le carte per l’accesso, di vestirsi, il bambino era già nato… La cosa che mi è dispiaciuta è che ho dovuto lasciare J. a casa tre giorni da solo perché una volta partorito, io sono entrata in reparto e lui è tornato a casa, per cui non ho potuto vivere la gioia della maternità insieme a lui e ai familiari e parenti più stretti. Avevo sempre immaginato la festa fuori dalla sala parto, tutti che mi aspettavano e invece quando sono uscita non c’era nessuno.”

Eppure c’è stato un risvolto positivo: il distanziamento ha impedito le visite (non sempre gradite) e permesso ai papà in smart-working di stare in casa nelle settimane dopo il parto. Questo ha regalato una grande intimità altrimenti impossibile in tempi ‘normali’, la tranquillità di essere tutti insieme in casa al sicuro, e anche sollievo dal gestire gli ospiti insieme alle prime ansie della maternità.

Ovviamente nessuno poteva venire a trovarci in ospedale, ma in fondo io ero molto stanca e dolorante e non avere visite aveva piccoli vantaggi.

… A casa nessuno poteva venire a trovarci, a conoscere L., coglievo il vantaggio di non essere “disturbata” nei primi giorni post parto, quando bisogna conoscersi, provare a capirsi, trovare il tempo per riposare, prendere dei ritmi.

… Il mattino ci svegliamo insieme noi 3 e facciamo colazione a letto. P. sorride sempre e chiacchiera, senza smart-working non avremmo avuto la possibilità di vivere questa esperienza.

 Conclusioni

Possiamo affermare che la narrazione ha aiutato sia le madri che gli operatori a ripercorrere l’esperienza, a rielaborare il trauma e a trovare sollievo nella condivisione dei pensieri e delle emozioni. Non solo l’effetto catartico del racconto ha permesso di avere consapevolezza del proprio ruolo di donne e di madri, ma anche di comprendere quale forza caratterizza ogni donna nel difendere il proprio figlio nella fragilità della nascita.

L. è il mio primo bambino, mi ha fatto diventare mamma, ogni istante con lui è nuovo, unico, pieno di emozioni forti che ti fanno dimenticare cosa accade nel mondo; per questo non è facile immaginare come sarebbe andata senza pandemia, tante cose sono state molto diverse da come le avevo immaginate, ma forse questo accade a gran parte delle neo mamme.

Mi sta insegnando molto questo bambino, l’essenziale sta diventando sufficiente, la gioia nei piccoli gesti.

Possiamo affermare inoltre che la maternità e i minori sono stati tra i grandi dimenticati in questo periodo surreale, loro che saranno il nostro futuro e insieme a loro anche gli operatori che lavorano nel mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, che accompagnano le famiglie in questo importante e significativo momento di vita.

Eppure in questo dramma epocale la riscoperta dell’intimità del nucleo familiare ridotto (madre-padre figlio-figli) e la forza interiore a volte venuta dall’abbraccio e dal sorriso dei figli, che, anche se quello che è stato vissuto non rispondeva alle aspettative, ha reso questi rapporti più forti e indissolubili.

L’ascolto empatico degli operatori motivati, ha permesso una crescita personale e professionale biunivoca, creando nuove modalità comunicative, organizzative e soprattutto legami più forti.

E continueremo… a seguire questi bimbi nati in un momento straordinario perché la loro storia è solo all’inizio. Chiederemo ancora la collaborazione degli operatori sanitari motivati, affinché le donne continuino le loro narrazioni, raccontandoci dei loro figli e delle loro famiglie.

Ascolteremo altri  operatori dell’infanzia, che non hanno avuto voce.

Leggeremo storie, ascolteremo voci, ci prenderemo cura di bambini speciali nati in un momento difficile, ma straordinario.

Continueremo a rassicurare madri vedendo i loro figli crescere in salute.

Come operatori continueremo a metterci in discussione, ad inventarci un nuovo modo di relazionarci con i bimbi lasciati in braccio alle mamme mascherate come noi, ma gli sguardi oltre la visiera e gli occhiali saranno sempre espressione di un amore condiviso per un’umanità, la loro, che è appena iniziata.

Una madre raccoglie in questa frase l’insegnamento che questo drammatico momento di storia ci ha dato… Una mamma al tempo del coronavirus non può molto ma può tanto, può provare a far sentire al suo piccolo sempre e comunque la gioia che prova nello stare con lui, può far vivere a lui il momento in modo differente, il suo ricordo inconscio e il suo vissuto degli eventi può dipendere da come vede il mondo attraverso me.

Essere resiliente ed insegnare a lui, già da piccolo, ad esserlo, è il mio dovere in questo momento, ma forse lui più di me, ne è già capace e me lo mostra ogni giorno.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.