Medicina e autodeterminazione in bioetica: intervista a Maurizio Mori

Proponiamo un’intervista a Maurizio Mori, Professore Ordinario di Filosofia Morale e Bioetica presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Torino. È membro del Comitato Nazionale per la Bioetica e presidente di Consulta di Bioetica Onlus.

D. La tematica dell’aiuto al suicidio è una tra le più controverse del dibattito bioetico attuale in Italia. Mosso da quali istanze il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) ha emesso un parere al riguardo, e con quali finalità?

MM. Le finalità dell’emissione del parere sono dichiarate, ossia presentare una riflessione sull’aiuto al suicidio. Di supposizioni su questo tema, ne sono emerse esplicitamente due: una nettamente contraria, sia sul piano morale che su quello giuridico, e una favorevole su entrambi i piani, ovviamente entro alcune garanzie. Il risultato di questo lavoro è un parere descrittivo di posizioni, e non di prescrizione di una posizione unica. Gli elementi di precettività sono indiretti, nel senso che dipendono dalla rilevazione del dibattito in corso. Direi che anche questo aspetto è molto importante, perché su molti temi di bioetica non c’è neanche l’accordo su quali siano i termini della questione.

D. Quali sono, a suo parere, i più urgenti nodi emersi, e quali i principali punti di dissenso?

MM. L’elemento che mi pare più originale, nel parere del CNB, è un’osservazione non tematizzata, che differenzia tra il suicidio come lo intendiamo “tradizionalmente” e quello medicalmente assistito. La differenza sta in questo: nel suicidio l’interessato fa tutto da sé, e tendenzialmente in segreto; solitamente il suicidio è inaspettato, vi è la preoccupazione di non lasciar trapelare neanche la possibilità del gesto estremo, ed è visto come una sorta di “tradimento” nei confronti del gruppo sociale. Al contrario, il suicidio medicalmente assistito è – appunto – assistito, ed è socializzato: e questo cambia radicalmente. La socializzazione fa emergere i problemi, e questi, una volta emersi, diventano pubblici, possono essere affrontati e risolti – in caso siano risolvibili. Trovo che questo sia un punto importante su cui riflettere.

I principali punti di dissenso sono quelli legati a due diverse visioni del mondo, e a due diversi modi di concepire l’etica. Chi è contrario, ritiene che sia sempre vietato l’atto di togliersi la vita. A leggere tra le righe di questo parere, però, non viene affermato il valore principale della contrarietà: ci sono ragioni di tipo più estrinseco, ad esempio il dire che vi sono sempre le cure palliative, oppure il sottolineare i rischi di eventuali abusi – come quello del cosiddetto pendio scivoloso, che è totalmente errato per chi sostiene l’altra posizione. Prendiamo un esempio concreto. Quando è stato introdotto il divorzio in Italia, il periodo di separazione era di cinque anni, poi è sceso a tre, poi ancora è stato ulteriormente ridotto: il passaggio dai cinque ai tre anni non è stato inevitabile e necessario perché “il pendio era scivoloso”, al contrario è stato un passaggio su cui la società ha riflettuto, e ha visto che cinque – e successivamente tre – anni erano troppi. Allora, questa non è la scivolosità del pendio che porta inevitabilmente a fondo valle, ma una riflessione sulle esigenze sociali emergenti.

In conclusione, anche chi afferma la posizione contraria, sembra quasi lo faccia per ragioni empiriche, legate a contingenze pratiche, invece che per ragioni di principio, quasi che questi principi non siano più proponibili in pubblico – e questo è un elemento di un certo rilievo, dal punto di vista storico e culturale.

D. Quali sono, secondo lei, le questioni prioritarie riguardanti il tentativo di conciliare il principio di salvaguardia della vita e quello dell’autodeterminazione del soggetto?

MM. La “salvaguardia della vita” è un concetto che fa fatica a essere proposto nella formulazione di principio, perché il termine “vita” appare ormai generico e inadatto ad affrontare le situazioni che si verificano. Va introdotta la distinzione – che vi è già in ampia parte della letteratura corrente – tra “vita meramente biologica” e “vita meramente biografica”. La prima è il processo metabolico, la seconda è fatta da sensazioni, ricordi, aspettative, progetti, autoconsapevolezza. Nel nostro mondo, i progressi della tecnologia, alla base della rivoluzione biomedica, ci hanno portato a una separazione tra vita biologica e vita biografica. A volte vi è vita biologica senza vita biografica: è il caso del vegetativo permanente – pensiamo al dibattito su Eluana Englaro, in cui si utilizzavano espressioni come “vita che non è vita”.

Quando affrontiamo il tema della salvaguardia della vita, il problema va dunque tradotto: è la salvaguardia della vita biologica o di quella biografica? Un altro problema sotteso è che le biografie non le hanno solo gli umani, ma anche alcuni non umani – e questo apre un’altra questione, che non affrontiamo in questa sede, ma che rimane importante.

Ciò che ha valore preminente è la salvaguardia delle biografie, e in questo il rispetto dell’autodeterminazione è un fattore determinante.

C’è un altro punto da considerare: alla fine della vita, non solo si verifica la distinzione tra vita biologica e biografica, ma a volte anche una situazione infernale – ossia quella condizione in cui l’interessato rimane in uno stato di sofferenza senza possibilità di uscirne. E qui si pone il problema, se sia giusta o meno la morte volontaria.

D. Dal suo punto di vista, che sfide pone questo dibattito al curante?

MM. Anche la narrativa del curante è un problema importante. Qui si contrappongono due diverse concezioni della medicina, come prima si sono contrapposte due posizioni sul significato della sofferenza, della vita e dell’etica. In questo caso, si tratta di sapere se la medicina sia una professione necessariamente connessa alla narrativa ippocratica – che bisognerebbe vedere quanto poi corrisponde da un punto di vista storico: il giuramento di Ippocrate non afferisce a Ippocrate stesso, ma alla scuola. Io stesso, nel mio manuale di bioetica, ho attribuito a Ippocrate cose della vulgata ippocratica, e forse ci sarebbe da fare un accurato lavoro di esegesi storica – ma questo apre un altro discorso, di cui questa non è la sede.

Duemila e cinquecento anni fa, in quelle condizioni storiche, c’era il divieto di dare la morte, come per molto altro; pensiamo, anche in altre epoche storiche, al divieto di contraccezione e di interruzione di gravidanza. La questione, però, è chiedersi se la medicina debba continuare a rispettare quei criteri, quasi fosse una attività metastorica, o se invece la medicina sia una pratica inscritta nella storia stessa, e che svolge il proprio servizio in circostanze storiche.

Se la medicina è professione di servizio alla persona, trovo difficile pensare che un medico – di fronte a questioni quali quella di Fabiano Antoniani o altre, penso a Davide Trentini o Eluana Englaro – volti la faccia dall’altra parte e rifiuti il suo aiuto. Negare che si creino situazioni infernali, e dire che le cure palliative siano la soluzione, è non voler vedere la realtà: di fronte a queste situazioni, l’aiuto è un atto etico, oltre che medico.

Alessandra Fiorencis

Laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Specializzata nel campo dell’antropologia medica, ha condotto attività di formazione a docenti, ingegneri e medici operanti in contesti sia extra-europei che cosiddetti “multiculturali”. Ha partecipato a diversi seminari e conferenze, a livello nazionale e internazionale. Ha lavorato nel campo delle migrazioni e della child protection, focalizzandosi in particolare sulla documentazione delle torture e l’accesso alla protezione internazionale, svolgendo altresì attività di advocacy in ambito sanitario e di ricerca sull’accesso alle cure delle persone migranti irregolari affette da tubercolosi. Presso l’Area Sanità di Fondazione ISTUD si occupa di ricerca, scientific editing e medical writing.

Questo articolo ha un commento

  1. Enrico Antonio De Micheli

    Apprezzo sempre l’equilibrio, la lucidità non ché l’amore che, in ogni argomento di bioetica, caratterizza l’opinione di Maurizio Mori.Grazie

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