Una parola in quattrocento parole – violenza

La parola violenza viene dal latino violentia, a sua volta derivato da violentus.

Questo aggettivo ha la sua origine nel sostantivo vis, forza, tratto in latino dal proto-italico *wīs, e prima ancora dal proto-indo-europeo *wéyh₁s. Quest’ultimo tema si può far risalire ad un’altra parola *weyh₁-, che significa sopprimere, perseguitare.

La parola violenza rimanda ad un potere distruttivo che non contempla l’altro se non come annientamento, al contrario dell’aggressività che implica un obiettivo determinato. La violenza, dunque, è qualcosa di molto più assoluto.

Quando si parla di violenza normalmente si pensa a macro-fenomeni improvvisi, esplosioni di aggressività o catastrofi estemporanee, ma esiste anche una violenza “che avviene in modo graduale e non visibile, una violenza di distruzione ritardata che si disperde nel tempo e nello spazio, una violenza attritiva che di solito non viene considerata affatto come violenza”. Tale è la definizione che Rob Nixon dà del concetto di slow violence nel suo libro Slow Violence and the Environmentalism of the Poor.

Il concetto di slow violence può essere ben traslato dal mondo delle environmental humanities al mondo della sanità e delle health humanities dove troppo spesso avvengono episodi di micro-violenza che si ripetono nel tempo. Registrare e disinnescare simili fenomeni è estremamente difficili perché vengono sovente licenziati da chi li subisce come insignificanti sul momento, mentre sul lungo termine diventano veri e propri traumi. Un esempio può essere quello che accade nelle case di riposo per anziani, dove escluse le aggressioni fisiche e verbali che fanno notizia nei telegiornali, capita che gli ospiti subiscano vessazioni quotidiane da parte del personale (ovviamente non sempre, non ovunque e non da tutti).  

La medicina narrativa, con la sua capacità di registrare le emozioni e raccontare le esperienze, può diventare uno strumento assai sensibile nel censire episodi di micro-violenza e fenomeni di slow violence in ambito medico-sanitario. Infatti, attraverso il racconto delle persone, siano esse pazienti, medici o altre figure coinvolte nella cura, la medicina narrativa riesce a dare conto di tempi lunghi o aggressioni sommerse nel sistema, facendo emergere problemi che vanno oltre la ristabilizzazione dell’equilibrio biologico del corpo. Inoltre, la medicina narrativa può essere anche utile per lavorare sulle forme della comunicazione e traghetterla verso modi non violenti.

Così le evironmental humanities forniscono alla medicina una nuova categoria, quella della slow violence, per registare la quale le health humanities dispongono già del sismografo adatto con cui registrarla, ossia la medicina narrativa. Il macrocosmo dell’ambiente e il microcosmo della persona ancora una volta si intersecano.

Enrica Leydi

Milanese di nascita, ha conseguito la laurea triennale in Lettere Moderne presso l'Alma Mater Studiorum - Università di Bologna. Sta attualmente completando il corso di laurea magistrale in Italianistica, sempre presso la medesima università emiliana. Collabora con ISTUD da aprile 2021 in qualità di coordinatrice della rivista «Cronache di Sanità e Medicina Narrativa».

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