TROVARE LE PAROLE GIUSTE – PROJECT WORK NARRATIVO CON PAZIENTI AFFETTI DA SCLEROSI MULTIPLA di Stefania Lopatriello, Giovanna Borriello e Arianna Dell’Anna

Project work a cura di STEFANIA LOPATRIELLO, GIOVANNA BORRIELLO E ARIANNA DELL’ANNA – Master in Medicina Narrativa Applicata ISTUD X Edizione

La Sclerosi Multipla è una patologia neurologica cronico-progressiva che genera un impatto severo sulla qualità di vita del singolo e di tutta la sfera familiare fin dal momento della diagnosi. L’obiettivo del nostro lavoro è stato cercare di individuare le modalità di comunicazione da preferire e quelle da evitare al fine di limitare al massimo il trauma della scoperta della malattia. 

Allo scopo sono state raccolte le narrazioni (45 in totale) di persone con SM (età media 42aa, 35% maschi, 50% coniugato) e loro care-givers (48aa, 36% maschi, familiari conviventi). La narrazione ha seguito una traccia predefinita, ma estremamente libera. Le storie si riferiscono alla comunicazione della diagnosi, in tre gruppi differenti: persone con diagnosi entro il primo anno, entro cinque e a distanza di oltre dieci anni. 

La “parole giuste” del medico sono qualcosa di molto più “reale” nel percorso di cura di quanto si possa pensare: verba non volant sed manent! Una persona può ricordare superficialità, indifferenza, freddezza anche per decenni, nonostante un’esperienza positiva di copingcon la malattia.  

Secondo le classificazioni di Launer oltre la metà delle narrazioni dei pazienti risulta di tipo progressivo, anche se nelle narrazioni legate a forme progressive di malattia emergono più frequentemente termini o metafore che riportano a concetti come incubo, voragine e utilizzano molto parole quali angoscia, paura, morte. Le narrazioni dei caregiver seguono le stesse proporzioni tra progressione e stabilità: i partner femminili sembrano soffrire maggiormente del peso della cura, generando narrazioni di tipo stabile.  

Modello per la traccia narrativa per il paziente

La necessità di trovare le parole “giuste” nel rapporto medico paziente ha sollecitato l’esigenza di intervistare dei pazienti che svolgevano la professione medica. I medici/pazienti lavoravano e in parte lavorano in branche chirurgiche e questo ne stigmatizza un profilo di efficienza nella cura degli altri. I medici/pazienti hanno tutti dovuto modulare, se non sospendere, la loro attività chirurgica, provocando una sensazione di inutilità che, nei casi più gravi, non è stata compensata da gratificazioni di altra natura. Il rapporto dei medici/pazienti con curante risulta incostante. Ognuno di loro ha riferito di aver “capito prima” degli accertamenti di essere affetto da Sclerosi multipla “Sono andata in Ospedale facendo presente che era quella patologia”, “l’avevo capito prima della risonanza magnetica, me lo confermò mio zio radiologo, non disse nulla, annuì, piangendo, alla mia domanda”. 

Il rapporto Medico-paziente/medico pone davanti ad uno specchio. Il guardarsi chiama in campo emozioni contrastanti e nella narrazione questo conflitto appare chiaramente “non volevo fare la puntura lombare, il mio medico si è arrabbiato” ”vorrei essere curato come io curo gli altri”, “ho denunciato i colleghi perché non mi facevano la terapia”, “il mio medico è adorabile, mi piace la schiettezza”. La scissione interna tra il curare e l’aver bisogno di cure viene proiettata sul curante, che diviene complice e nemico. Il riflesso del nuovo IO, più o meno prostrato dalla patologia, non coincide con l’immagine di efficienza e solidità che dovrebbe apparire allo specchio. 

Il conflitto maggiore che lamentano 3 su 4 degli intervistati consiste proprio nel non poter esercitare la professione medica come facevano prima della patologia “Mi sono chiusa. Il giudizio degli altri è inevitabile, mi dà fastidio! Io non ho mai giudicato i miei pazienti”, “non sono efficace ed efficiente!”, “ero aggressivo, molto attento e un gran lavoratore. Dopo la diagnosi il mio primario mi ha licenziato e i miei colleghi sono spariti. Non gli importava”. Infine, la perdita delle capacità lavorative ha fatto sì che venisse meno la progettualità: “non posso programmare, tanto è inutile”, “la mancanza di autonomia è gravissima”. 

L’ultima provocazione dell’esoscheletro narrativo era “perché è arrivata la malattia”. Tutti gli intervistati hanno concluso che la SM è “arrivata” dopo un forte periodo di stress, personale o professionale, carichi di lavoro eccessivi, di riconoscimenti non avuti, di fatica per apprendere e per curare gli altri. La SM ha, come tutte le patologie autoimmuni, un legame imprescindibile con lo stress. L’esposizione cronica al cortisolo induce alterazioni, in soggetti predisposti, della risposta immunitaria.

Il silenzio che precedeva la risposta degli intervistati lancia un quesito al medico curante su quanto sia entusiasmante, ma anche faticoso e perturbante svolgere una professione sanitaria, e impone la necessità di un supporto umanistico nei confronti degli operatori. La consapevolezza che per curare gli altri è necessario mantenere una zona di tutela del proprio benessere è essenziale per tutelare il medico stesso.

ANDREA FERRARIS

Reagire alla malattia è fortemente legato ad una relazione empatica e fiduciaria con i clinici, come racconta C.: “oggi abbiamo trovato un medico molto disponibile e pronta all’ascolto di ogni nuovo disturbo che la malattia presenta. La fortuna più grande che si trova in questa condizione è la consapevolezza che ci sia qualcuno pronto ad aiutare e in certi casi a tranquillizzare quando c’è qualcosa che non va”, nonché alla capacità di attingere alle risorse personali e ad un sereno processo di accettazione della malattia, come afferma Z.: “il segreto è non pensare a se stessi più del dovuto, è importante capire come posso affrontarla, non perché è venuta”.

Per tutti, il percorso di cura più che esteriore è interiore e non inizia o termina con una malattia: lasciare o ignorare problemi esistenziali irrisolti costituisce il peggiore substrato su cui vivere e su cui possono innestarsi le patologie, che possono anche esserne la manifestazione finale, come esprime bene questa di S.: “essere forzata ad essere forte nel modo in cui gli altri volevano, prima che il corpo si ammali e l’anima urli”.

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