Dopo il Master in Medicina Narrativa Applicata: l’esperienza di Susanna Ponti

SUSANNA PONTI è tutor didattico del corso di laurea in Infermieristica presso Azienda ospedaliera Universitaria di Ferrara e ha partecipato al Master in Medicina Narrativa Applicata di Fondazione ISTUD di qualche anno fa.

Come è maturata e con quali aspettative la decisione di formarti alle Medical Humanities e alla medicina narrativa?

Ascoltare e leggere storie è una passione che mi accompagna sin da piccola, scrivere “la mia versione dei fatti”, qualcosa che mi ha sempre reso più facile comprendere ciò che accadeva intorno a me. Quando decisi di intraprendere la professione infermieristica, quello che più mi attraeva era la possibilità di incontrare e aiutare persone, dedicare loro il mio tempo e le mie energie per capire di cosa avevano bisogno; ero più spaventata dalla necessità di compiere atti tecnici e spesso invasivi sui loro corpi, che dalla necessità di accogliere ogni giorno la loro paura e sofferenza; ma mi sbagliavo davvero molto. La mia crescita professionale, dopo la formazione accademica, è stata guidata dalla permanenza quasi ventennale, in una unità operativa di riabilitazione, specializzata nella presa in carico di pazienti affetti da gravi cerebrolesioni acquisite. Il mondo della grave disabilità è un mondo con dinamiche interne molto complesse, sia in riferimento ai pazienti e alle loro famiglie, sia per il fatto che obbliga ogni singolo operatore sanitario ad utilizzare collaborazione, cooperazione e riconoscimento professionale, come standard di comportamento cui tendere, per garantire appropriatezza della cura. Proprio lì ho imparato, e condiviso con gli altri colleghi, che è necessario indossare “lenti speciali” per poter osservare, comprendere e accompagnare pazienti e familiari verso una nuova vita, differente da quella progettata e sino a poco tempo prima vissuta, ma pur sempre una vita degna, con il suo carico di sofferenza e frustrazioni ma anche di gioie, vittorie e riconquistate autonomie. L’esperienza e la formazione continua sul campo mi hanno permesso di acquisire strumenti per migliorare la comunicazione, l’ascolto attivo, la capacità di comprensione e la gestione delle emozioni, ma questo è accaduto in itinere, compromettendo talvolta l’efficacia dell’assistenza erogata, rendendo occasionalmente difficili i rapporti interprofessionali, esponendomi a rischio di burn out e comportando, spesso, una sofferenza emotiva personale di cui ho acquisito consapevolezza solo molto tempo dopo . Questo giustifica la ricerca di percorsi formativi, funzionali all’acquisizione di competenze relazionali, che mi migliorassero come professionista, e che potessero aiutami ad accogliere e gestire il carico di dolore con cui mi confrontavo ogni giorno. Da qui la fortunata decisione di iscrivermi al Master in Medicina Narrativa Applicata di ISTUD, ove all’acquisizione di conoscenze in merito all’argomento abbiamo, in più occasioni, applicato metodi e strumenti della medicina narrativa in un clima di continuo confronto e sperimentazione di quelle abilità relazionali fondamentali per tutte le professioni d’aiuto. 

Cosa rappresentano oggi le humanities e la medicina narrativa nel tuo lavoro di formazione dei futuri infermieri?

All’infermiere del terzo millennio è richiesto un elevato livello di conoscenze scientifiche, per rispondere, in modo sicuro e appropriato ai bisogni di salute di pazienti sempre più complessi, specie se affetti da malattie croniche e cronico degenerative. Non di meno, sono necessarie abilità tecnico-specialistiche, in grado di sostenere l’esecuzione di pratiche assistenziali articolate e che spesso si avvalgono dell’utilizzo di strumentazioni ad alta tecnologia.  Ancora, è fondamentale, poiché le organizzazioni sanitarie sono delle complesse adhocrazie professionali, che egli sia in grado di applicarsi ad adempimenti formali ed extra professionali: la frammentazione dei processi sottrae valore alla visione globale della persona assistita, limitando considerevolmente la personalizzazione della cura. Di fatto ciò è in contrasto con il mandato normativo della recente Legge 219 del 2017 e poco risponde al clima socio-culturale in cui l’infermiere, oggi, manifesta la propria professionalità e quotidianamente agisce con la propria competenza, così come espresso nel codice deontologico del 2019. A noi formatori corre l’obbligo quindi, di tenere “la barra a dritta”, con l’obiettivo di garantire la preparazione tecnico-scientifica e disciplinare dei futuri professionisti ad alti livelli, senza però tralasciare lo sviluppo di quell’intelligenza emotiva che farà di loro infermieri completi e maturi. Le humanities sono discipline che aiutano a sviluppare senso critico e capacità riflessiva, aiutano ad implementare capacità di osservazione e d’interpretazione dei fatti contribuendo a migliorare le abilità relazionali. La visione della medicina narrativa e la centralità della persona presa in cura, spinge il futuro professionista a porsi continuamente domande sulla qualità e il valore terapeutico delle relazioni che costruisce con il paziente. Infine vorrei anche dire che, come formatore, avverto l’obbligo di stimolare lo sviluppo di intelligenza emotiva da parte del futuro infermiere, perché lo guiderà a non darsi mai per scontato, a non reificare coloro di cui si occupa traendo così energia positiva per condurre una vita professionale gratificante e stimolante.

Puoi raccontare un esempio di applicazione delle humanities e della narrazione nella tua realtà?

Come docente sono profondamente convinta dell’importanza di utilizzare i linguaggi e gli strumenti delle humanities nella formazione; molto frequentemente inserisco letture di brani o la visione di sequenze filmiche che trattano di temi inerenti la disabilità, la malattia cronica, la malattia a prognosi infausta o in fase terminale durante le lezioni in aula. Attraverso la filmografia riesco ad affrontare alcuni contenuti etici della cura e stimolare la discussione su come costruire relazioni assistenziali in situazioni così emotivamente e clinicamente complesse. Spesso, la visione innesca la riflessione su stili comunicativi, sull’utilizzo della comunicazione non verbale e sull’importanza dell’ascolto dell’altro e la partecipazione degli studenti è vivace, interessata e molto proficua.

L’utilizzo della narrazione è un poco più complessa. Ancora vi sono resistenze a più livelli, nel riconoscerne la validità nell’ambito formativo infermieristico, specie nella formazione di base, dove l’acquisizione delle competenze tecnico disciplinari è centrale rispetto agli apprendimenti riferibili alle cosiddette softskills. 

Personalmente ne ho sperimentato l’utilizzo per affrontare alcune criticità organizzative nello svolgimento dei tirocini clinici degli studenti. A causa dell’emergenza pandemica, si è reso necessario modificare le modalità di svolgimento del tirocinio clinico, sospendendo le attività tutoriali in affiancamento stretto (cioè un tutor uno studente sempre insieme per tutto il tirocinio). Questo cambiamento è stato accolto dagli studenti con molte perplessità, legate alla mancanza di una figura tutoriale continua durante la pratica clinica. Essi dichiaravano di temere che l’essere affiancati quotidianamente a professionisti differenti, e spesso non formati a svolgere funzioni tutoriali, limitasse i loro apprendimenti clinici e, soprattutto, che non si sviluppasse una relazione educativa, utile alla loro crescita professionale. Ho così proposto un esercizio di scrittura riflessiva, da svolgere contestualmente al tirocinio, attraverso la redazione di un racconto/fiaba seguendo un format, precostruito secondo lo schema generale della fiaba di Propp. L’adesione al progetto era volontaria, ma una elevata percentuale vi ha partecipato con curiosità. Analizzando i personaggi del triangolo magico della favola è stato possibile cogliere i loro vissuti ed è emerso che, dopo un primo momento di sconforto e disorientamento hanno saputo, comunque, attribuire significati e acquisire competenze da questa esperienza “diversa dalle altre”.  La mancanza di una figura tutoriale li ha, per così dire, “resi più attenti” alle carenze operative e relazionali nell’agito dell’intera equipe infermieristica, una constatazione quasi dolorosa, destabilizzante. Allo stesso tempo hanno toccato con mano il carico emotivo e lavorativo di tutti i professionisti e osservato le loro strategie di adattamento, apprezzando il valore della comunicazione, dell’empatia, dell’ascolto, della condivisione. E questo mi pare un grande esito formativo.

Sempre come tutor didattico ho anche sperimentato l’utilizzo della cartella parallela, per facilitare lo sviluppo, attraverso la riflessione sull’esperienza, di abilità processuali quali ragionamento diagnostico, giudizio prognostico e decision making. Agli studenti è stato richiesto di scrivere la Cartella Parallela per un paziente (caso clinico) assistito in tirocinio e scelto da lui stesso, per interesse personale, complessità o coinvolgimento emotivo. Tale cartella si affiancava alla compilazione della cartella infermieristica ad uso didattico come ulteriore strumento assistenziale.Ciò che è emerso con forza è che gli studenti, scrivendo la cartella parallela prendonocoscienza del tempo da loro dedicato all’ascolto del paziente, e soprattutto quanto, questo ascolto, attivo, intenso e coinvolto, faciliti la relazione terapeutica, con il risultato di migliorare il coping e  l’empowerment. Tutti gli studenti si sono dichiarati molto soddisfatti dell’esperienza perché li ha aiutati a rendersi consapevoli delle proprie emozioni, di come vive il paziente lo stato di malattia e quanto questo influisca sulla sua vita quotidiana e le sue relazioni. La maggior parte di loro ha anche affermato che  “scrivere cosa succede al paziente e come lui si comporta di conseguenza”, aiuta  a vedere meglio gli esiti dell’assistenza erogata, e spesso questo consente di provare sentimenti gratificanti, di conferma della propria professionalità. Anche in questo caso mi sento di poter affermare che la riflessività in formazione è una competenza da stimolare tanto quanto la competenza tecnica, perché riflettere abitualmente sul proprio operato offre l’opportunità di scegliere criticamente quali comportamenti reiterare, quali abbandonare, quali migliorare per promuovere personalizzazione e umanizzazione delle cure.

Qual è il tuo prossimo progetto inerente alla medicina narrativa?

Ho un progetto che a causa della pandemia è rimasto nel cassetto ma spero di poterlo realizzare nel prossimo anno accademico. Coinvolgerà una RSA del comune di Ferrara sede di tirocinio clinico e un gruppo di studenti infermieri. Come formatore considero l’ambito   geriatrico – residenziale un ambiente altamente formativo, poiché offre l’opportunità di apprendere e sperimentare sul campo l’assistenza nella cronicità, nelle sue specificità e complessità, e anche per l’opportunità di far comprendere, la rete dei servizi territoriali dedicati alla cronicità, oggi più che mai problematica sanitaria di grande importanza.                    

Si tratta di un laboratorio teatrale, “Il teatro del ricordo”, la cui finalità è quella della prevenzione terziaria e della riabilitazione delle capacità relazionali della persona anziana con demenza. Gli obiettivi che vorremmo raggiungere sono essenzialmente di migliorare la qualità della vita e del tempo vissuto, restituire motivazione e autostima, stimolare l’attenzione e recuperare abilità e capacità mnesiche residue degli ospiti della RSA. Le persone con demenza hanno difficoltà a richiamare alla mente e discutere eventi attuali, ma trovano più facile parlare di eventi passati della loro vita e l’atto di recuperare i ricordi del passato diventa fonte di benessere a livello psicofisico. Rappresenta uno spazio sicuro in cui proteggersi per sfuggire al senso d’inadeguatezza, alla perdita di sé, alle difficoltà nelle attività quotidiane, all’incapacità di riuscire a interagire con gli altri e alla frustrazione di non poter conversare tranquillamente – spesso dovuta alla difficoltà d’immagazzinare nuove informazioni o all’impossibilità di riuscire a rievocare eventi recenti.

L’approccio narrativo è utile nella gestione delle demenze perché permette di entrare in relazione con i pazienti attraverso un canale privilegiato, che è appunto quello della narrazione delle loro storie di vita. Quella che ci viene raccontata è la storia come viene sentita e ancora vissuta da chi racconta, come ancora risuona dentro chi narra.

L’esplorazione nella “memoria” e le tecniche del “narrare” guideranno le prime fasi del lavoro del laboratorio, dando vita ad un evento teatrale che, componendo le zone di memoria soggettiva in un racconto comune, propone la lettura di un pezzo di Storia di Vita attraverso le metafore delle microstorie. I giochi dell’infanzia, i balli della giovinezza, l’esperienza della guerra, le feste e le tradizioni popolari, il mondo del lavoro, gli anziani nella famiglia e nella società contemporanea, saranno argomenti della prima fase del Laboratorio. Il lavoro potràproseguire nella direzione di un confronto tra generazioni: i nonni (ospiti della struttura) si fanno protagonisti di una fabulazione rivolta ai nipoti (gli studenti infermieri). Il tutto si concluderà con “Lo Spettacolo”, si tratta di una piccola rappresentazione delle storie narrate dai pazienti, raccolte e trascritte dagli studenti, e recitate, o meglio, raccontate insieme.  Ma anche questa è una storia, e per di più, non ancora accaduta… vedremo quale sarà il finale.

Questo articolo ha un commento

  1. Rossella Aiardi

    Complimenti Susanna, traspare dal tuo racconto una passione non comune per la Professione ed una continua ricerca dei “luoghi” dove l’approccio narrativo diventa, non solo significativo, ma vera e propria Cura.
    Rossella Aiardi, Infermiera.

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