A partire da un haiku: suicidio e narrazione. La violenza esiziale su stessi, la violenza su chi resta e la presa di parola come strategia di coping – di Roberta Invernizzi

Laureata in Filosofia con una tesi di ricerca storica sull’utopia, nel 2017 ha frequentato il Master ISTUD in Medicina Narrativa Applicata – V Edizione; ha seguito percorsi formativi di specializzazione in materia di risorse umane, formazione e mediazione dei conflitti in contesto sanitario. Da circa 12 anni è consulente presso la Struttura Formazione della ASL di Biella per progetti di medicina narrativa/medical humanities, in particolare per attività di intervista narrativa, digital storytelling e curatela di progetti editoriali dedicati a patologie oncologiche, Parkinson, Alzheimer ed altre.


La violenza autoinflitta è solo apparentemente un evento puntiforme, un movimento, un atto che si conclude con la morte del suo autore, bucando il quotidiano delle comunità cui appartiene senza generare smagliature.

Al di là di ogni psicologismo e di ogni chiacchiera macabra e voyeuristica, vale a dire al di là di quegli approcci che restano pertinacemente legati all’esperienza suicidaria presso chi vi assiste perlopiù da lontano, ciò che più mi colpisce della violenza autoinflitta è la sua capacità di espandersi come un gas attorno alla deflagrazione. Contrariamente a quanto può apparire, forse anche nel sentire di chi la compie, non si tratta infatti di gesti, di atti autoconclusivi, racchiusi in un tragico qui ed ora che riguarda solo il suo soggetto-oggetto. La lacerazione prodotta dall’uccisione di se stessi è di quelle che può divorare, ingoiando energie e speranze in un vortice scuro di senso di colpa e rabbie che diviene spesso una trappola stretta in cui la storia individuale ristagna e rumina se stessa.

L’attraversamento di un lutto da suicidio può essere lungo e accidentato. Perché si tratta di superare, attraversandola appunto, diverse forme di violenza.

La violenza dell’inatteso. Il suicidio spesso squarcia scenari in equilibrio apparente, precario, altalenante, ma comunque in equilibrio. Il quadro che era (restava) appeso è caduto. Il suicidio investe e travolge.

La violenza del silenzio. Chi rimane si ritrova senza parole, fra discorsi interrotti che non potranno mai più essere ripresi. E anche quando la persona che si toglie la vita lascia un messaggio, dopo l’ultima di quelle parole si apre un vuoto opaco.

La violenza della definitività. Il suicidio è perentorio, irreversibile, senza ritorno, senza spazi di dialogo, confronto, negoziazione. S’impone.

La violenza dell’enigma. Gli interrogativi che nascono da un suicidio si rincorrono, s’intrecciano, si moltiplicano, attorno al nucleo incandescente del “perché?”. E non è un gioco la ricerca di tracce per trovare risposte, perché non ci sono regole ad aiutare e non c’è alcun premio che possa dirsi tale.

La violenza della passività. Chi si toglie la vita decide per sé e per tutti. Insieme, nello stesso istante, con o senza consapevolezza. Chi resta, nulla può. Contempla un’assenza e cerca di raccogliere i cocci e di ricostruirne una forma di normalità, come sola possibile azione.

La violenza dello scandalo. La scelta di togliersi la vita è profondamente perturbante, contraria a ciò che si vuole “naturale”, vale a dire l’amore o comunque il legame con la vita.

John Constable, Cloud Study: Stormy Sunset, 1821-1822, National Gallery of Arts, London.

La condizione dei cosiddetti “survivors”, chi rimane, è molto complessa e si sviluppa nel tempo in diversi modi. Ciò che accomuna è il confronto obbligato con un evento drammatico che ha sprigionato una violenza intensissima. Il rischio che s’innesti un circolo vizioso può essere prevenuto e/o gestito attraverso interventi psicoterapeutici, integrabili attraverso iniziative di auto-mutuo aiuto, e può trovare risorse attraverso progetti di narrazione che consentano di mettere in parola il proprio vissuto e rielaborarlo.

La narrazione è ormai nota per la sua efficacia come strategia di coping, come strumento e via che favorisce una relazione “nutriente” con se stessi, con i propri ricordi e vissuti, con le proprie emozioni, le paure e i desideri, la visione del passato e del futuro, la dimensione del presente.

L’esperienza condotta a Biella attraverso il progetto “Ancora vivi”, con la collaborazione del Centro Crisi attivato dal Dipartimento di Salute Mentale ASL BI, ha consentito di esplorarne la valenza nel territorio riarso di sopravvissuti al suicidio del proprio marito, della propria figlia e amica, del proprio fratello, della propria madre, della nonna. Anche di propri pazienti, nel caso di alcuni psicoterapeuti. Perfino un carabiniere ha voluto raccontare.

Abbiamo chiesto di scegliere uno o più haiku di Kobayashi Yataro, che fattosi monaco assunse il nome Issa (“tazza di tè”), un autore dall’esistenza segnata da numerose sofferenze, fra una rosa di dieci: una sorta di traccia multipla in cui il linguaggio poetico si pone con delicatezza quasi interrogante e invita alla narrazione con la sua luce discreta. Abbiamo chiesto di scrivere in modo libero, senza vincoli di spazio né di forma, a partire dalle evocazioni che emanavano in ciascuno i versi scelti. Abbiamo raccolto narrazioni in poesia e in prosa, strutturatamente ponderate e impulsivamente caotiche, dal linguaggio fattuale e descrittivo oppure metaforico e suggestivo, parole sfibrate, dolenti, furiose, sfiorite, pensose, indignate, siccitose. Abbiamo riconosciuto metafore e simboli e applicato i modelli che in medicina narrativa consentono di cogliere il colore e l’andamento delle narrazioni: Kleinman, Launer e Bury in particolare ci hanno guidato in analisi che in realtà hanno voluto essere letture immersive, condotte attraverso l’assunzione di una postura di prossimità che, per la verità, si è sviluppata spontaneamente. Testimonianze vibranti. Abbrivi di guarigione. Forse.


Questo libro è di grande valore in quanto promuove ciò che più manca nell’ambito della suicidologia, ossia l’esperienza soggettiva, la fenomenologia del suicidio e del perdere un caro per via del suicidio. Non ho dubbi che i contenuti delle storie incluse in questo volume porteranno un sapere importante a vantaggio della prevenzione del suicidio e dell’assistenza a coloro che ne sono testimoni.

Maurizio Pompili, Professore Associato di Psichiatria e Direttore della Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Università La Sapienza, Roma.

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