Sugli stili narrativi di medici e pazienti nello scrivere di disease e illness. La Torre di Babele.

Pieter_Bruegel_the_Elder_-_The_Tower_of_Babel_Vienna_-_Google_Art_Project_-_edited[Genesi 11, 1-9] Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’Oriente, gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: “Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.

Ogni tentativo di migliorare la relazione medico-paziente e di colmare il gap di comunicazione tra le due figure deve necessariamente considerare le barriere, di vecchia data, della lingua parlata e scritta, e le influenze inconsce (come avrebbe argomentato Lacan) che stanno dietro al linguaggio e al comportamento.

Nel contesto della Medicina Narrativa, il cui obiettivo è dare voce e dignità all’intima esperienza dei pazienti, l’analisi dello stile linguistico è estremamente rilevante nell’interpretare le storie personali dei pazienti, che rappresentano il modo dell’individuo di far fronte alla malattia.

Le narrazioni dei pazienti sono cariche di emozioni, aneddoti personali, considerazioni, paure, speranze e fantasie, espresse attraverso una pletora di idiomi, espressioni e simbolismi appartenenti al bagaglio delle esperienze personali di ciascun paziente. Queste, in molti casi, sono espresse con descrizioni così pittoresche da minarne la credibilità. Infatti, le narrazioni dei pazienti sono state anche definite, da alcuni, come factions[1], combinando una parte basata su un nucleo di fatti veri, incorporati, con un’altra parte di percezione falsificata della realtà, che ha infine condotto alla creazione del concetto di faction illness narratives.

Tuttavia, poiché i pazienti sono accompagnati dall’incombente fantasma di una perenne malattia, o dalla minaccia della morte, possiamo davvero considerare credibili tutte le storie dei pazienti?

Con lo sviluppo – negli anni – della Medicina Narrativa, abbiamo assistito alla creazione di una etichetta, una sorta di regola globalmente accettata, per onorare le storie di malattia dei pazienti – qualsiasi cosa ci raccontino le storie – per salvaguardare e legittimare la loro voce.

Da un punto di vista linguistico, è interessante notare che gli stili usati nella narrazione dei pazienti ricadono dentro specifici gruppi, come quelli proposti nel 2001 da Bury [2], con la proposta di sei differenti stili narrativi: militare/eroico, tragico, incorporeo, romantico, ironico/comico, didattico.

Ad esempio, possiamo guardare alle reazioni di alcuni medici nel leggere 121 storie di pazienti affetti da Sclerosi Multipla. Le narrazioni componevano una raccolta delle esperienze dei pazienti, partendo dal momento della rottura dello stato di salute del corpo, fino alla situazione attuale; queste erano raccontate in uno stile romantico, con un aperto flusso di emozioni, di sturm und drang. Tuttavia, ho proposto di attribuire, a questa raccolta, un sottotitolo, Amor Omnia Vincit (“L’amore vince su tutto”): a differenza dei pazienti, che lo hanno trovato un titolo bello e appropriato, la maggior parte dei medici che hanno partecipato al progetto lo hanno respinto, considerandolo inappropriato.

Ancora, leggendo queste 121 narrazioni, l’amore emerge come un centro di verità sorprendente, colorato da forti emozioni: una volta comunicata la diagnosi di Sclerosi Multipla, l’affresco principale che emerge è che la famiglia natale, o la famiglia che i pazienti saranno in grado di costruire, sono un porto solido e imperituro per la loro condizione di malattia. Infatti, in un modo che non sorprende, alle domande aperte “A cosa hai dovuto rinunciare?” e “Cosa ne hai guadagnato?”, molte persone hanno risposto che hanno rinunciato a delle capacità fisiche, agli sport e al movimento, ma che hanno ottenuto amore, coniugi, mogli, figli… Famiglie solide. Amore, legami affettivi. E il più profondo segno di cambiamento nell’atteggiamento mentale che riportano, è rappresentato dal fatto che hanno acquisito capacità nel capire meglio gli altri. Un’espansione di empatia, ma non quella appresa da un manuale didattico, l’Empatia con la “E” maiuscola – quella che è possibile raggiungere solo attraverso l’esperienza diretta.

Il mio romantico titolo Amor Omnia Vincit proposto per questa raccolta di storie – che credevo rispecchiasse lo stile usato dalla maggior parte dei pazienti in queste condizioni – veniva considerato troppo sensazionale dalla comunità scientifica. Abbiamo negoziato, allora, di proporre un titolo che soddisfacesse sia i pazienti che i medici: Storie luminose. Esperienze di straordinaria quotidianità con la Sclerosi Multipla. Comunque, questo fu accettato dai medici del comitato, non dai pazienti, che erano molto contenti che questo energico sentimento d’amore venisse promosso, almeno sulla carta. Quindi, quali erano i principali dubbi da parte dei medici? Dal loro punto di vista, non ci può essere un reale “Onorare le storie di illness”[3]: non possono accettare gli stili narrativi dei pazienti, che appaiono troppo romantici, lontani dal linguaggio scientifico e dallo stile a cui sono abituati, come nella metafora della Torre di Babele.

Ora, passando a un altro aspetto, analizziamo il linguaggio corrente usato dai medici, trasversale a tutte le specializzazioni, nel contesto della Evidence-Based Medicine (EBM).

A un primo sguardo, il linguaggio, come visto con la classificazione fatta da Bury, sembra didattico: molto semplice, nessuna emozione, nessun mondo interiore, nessuna incorporeità, o spinta spirituale, e – soprattutto – nessun umorismo. Numeri, metodi, fatti, figure, e fonti. Un testo molto secco e conciso, che utilizza l’inglese come lingua veicolare, come il latino usato in passato dalla Chiesa o dal Potere Politico. Un paper scientifico dovrebbe essere facile da capire, da parte della comunità scientifica del mondo globale, in modo che i colleghi clinici possano riprodurre il sapere ottenuto nella ricerca. Nessuno spazio – o molto piccolo – per trasmettere il sapere intangibile – un piccolo posto, come denunciato recentemente nell’Economist dell’ottobre 2013 [4].

A un secondo sguardo, però, se scaviamo a fondo nel linguaggio della EBM, sotto la superficie dello stile didattico, incontriamo uno strato nascosto, costituito dallo stile militare/eroico, con alcuni segni di stile tragico: c’è sempre un’esplicita guerra tra l’arma – il trattamento usato nel gruppo A di pazienti – e il trattamento con l’arma – ossia il Golden Standard – per sconfiggere o dominare i pazienti del gruppo B. Tuttavia, il paradigma è il conflitto di un campo di battaglia: nel suo studio Illness as Metaphor, Susan Sontag [5] evidenzia chiaramente il linguaggio da crociata contro l’AIDS e il cancro, usato nei report clinici. Qui, tenterò di trasferire queste metafore, così militari, nel contesto dell’EBM.

Accanto ai numeri, le parole dell’EBM sono poche: i pazienti sono immaginati come “soldati”, arruolati come appartenenti a un’armata, e sono equipaggiati con delle armi: nell’impresa contro cosa? Il meta-obiettivo è combattere la malattia, ma l’obiettivo corrente di ogni trial è sconfiggere il gruppo opposto.

E cosa dire dell’uso del termine “coorte” negli studi epidemiologici, parola da sempre usata per definire un gruppo di soldati? E ancora, il “ritirarsi” dalla ricerca? Lo stesso termine usato per le competizioni, e nei casi di fallimento. Un linguaggio molto militare, con qualche sfumatura di linguaggio eroico, quando si riferisce ai sopravvissuti e ai casi di morte. Ancora, con dietro poche emozioni: è come l’asserzione cesariana – Veni, vidi, vici [6].

In breve, l’EBM presenta un’apparenza superficiale, insieme a un linguaggio didattico, che però ricopre un nucleo più profondo, caratterizzato da una trama eroica, e da una battaglia in cui il romanticismo o la spiritualità non trovano posto.

La restituzione [7] dello stato di salute, o di condizioni di vita stabili, è una serie continua di trial che sono battaglie, e che hanno come protagonisti difese diagnostiche e trattamenti armati per vincere la guerra finale.

Questa, probabilmente, è una delle possibili ragioni dietro una così difficile alleanza tra i linguaggi che rispecchiano l’atteggiamento mentale dei medici (molto logico e acuto, chiuso nello sguardo medico di Foucault), e il linguaggio usato dai pazienti, che riflette emozioni, speranze, amore, attaccamento, paure. Altre spiegazioni possono essere trovate in sede storica e sociologica, per cui il sistema di salute e, in particolare, le scuole di medicina si sono sviluppati nei secoli anche durante le guerre, con dentro un codice gerarchico molto rigido.

Allora, come possiamo combinare questa Torre di Babele e conciliare il linguaggio, rigettato e incompreso, del paziente con lo stile linguistico dei medici? C’è mai stato un linguaggio comune tra medici e pazienti prima della costruzione della Torre di Babele? C’è mai stata una Età dell’Oro di una comunicazione migliore? Nel libro della Genesi, viene detto che le persone usavano i mattoni, al posto delle pietre; mostrare una tecnologia è un’espansione con un prezzo da pagare: il calo della lingua delle anime, della lingua delle emozioni. Comunque, ora la tecnologia c’è, è un dato di fatto, e – nella nostra era contemporanea – non può essere negata, specialmente in medicina. L’archetipo della Torre di Babele ci ricorda dello sforzo perenne tra l’innato linguaggio emozionale e i linguaggi tecnologici, che hanno portato complessità, e – in qualche modo – coperto la relazione sociale tra gli scienziati. Nell’archetipo di Babele, c’è una tensione eroica per cambiare la situazione corrente, la negazione della semplicità di avere una lingua comune, più ampia, più inclusiva, per permettere l’alleanza tra esseri umani. Dio venne, e confuse le lingue semplicemente le culture umane, i commerci, i mestieri, stavano trasformando gli uomini [8]: più diventavano specializzati, meno erano in grado di essere capiti dalle altre comunità.

Dovremmo accettare questa Babele di stili tra medici e pazienti, questa città, questa confusa mescolanza di suoni? Non potremmo sperare in un migliore allineamento semantico, una linea che trapassa e collega le narrazioni dei pazienti e le pubblicazioni cliniche?

Di fatto, ci sono alcune narrazioni d’amore che possono suonare come un’esagerazione, nella raccolta Amor Omnia Vincit dei 121 pazienti affetti da Sclerosi Multipla: i medici si comportano con cautela di fronte a questo linguaggio, come i pazienti potrebbero improvvisamente avere una ricaduta, e cadere in una fase depressiva dove nessun amore è capace di curare la loro malattia. Questo è quello di cui i medici hanno paura, come hanno dichiarato; comunque, è la paura del medico, non del paziente. Potrebbe benissimo accadere che medici che, a una prima occhiata reagiscono impulsivamente, togliendo queste storie romantiche, un giorno trovino beneficio da questo linguaggio, aprendo il loro stile militare, eroico, a un linguaggio meno tecnico e più emozionale. In un mondo ideale, anche nelle riviste cliniche, in cui il linguaggio è per esperti, e rappresenta un criptico codice militare (gergo) solo per gli allenati professionisti del settore, dovrebbe esserci posto per altri stili di espressione, per un linguaggio più umile che sia capace di spiegare e toccare quei mondi interiori dell’essenza del vivere con una condizione cronica. D’altra parte i pazienti, giusto attraverso l’empowerment, e l’attivismo delle loro associazioni, possono imparare sempre più come diventare esperti, e capaci di trattare con la loro malattia, ma senza perdere la capacità di parlare del loro vivere quotidiano, con la spiritualità, o con l’ironia – se questa è una delle chiavi migliori di fronteggiare una malattia. È stato scientificamente provato, infatti, che il senso dell’umorismo rilascia endorfine.

Sebbene sia difficile identificare un singolo schema nelle narrazioni dei pazienti, possiamo vedere alcuni trend tra gruppi di età: persone più giovani usano uno stile molto ironico, umoristico, dove persone più adulte, che affrontano una condizione cronica, sono più preparati a usare differenti registri, e dove persone più anziane, affette dal cancro, sono più attaccati a un linguaggio disincarnato, spirituale.

Potrebbe essere trovato un equilibrio, senza insuperabili muri tra differenti stili: solo usando semplici riflessioni per capire perché alcuni stili sono usati più frequentemente in specifiche comunità della pratica e dell’essere.

La Torre di Babele è una delle metafore più belle per esprimere la possibilità e la complessità, per il genere umano, di interagire col linguaggio.

Note

[1] Shapiro J., 2011, Illness narratives: reliability, authenticity, and the empathic witness.

[2] Bury M., 2001, Illness narratives: fact or fiction?

[3] Charon R., Honoring the stories of illness

[4] The Economist, Why science goes broken, ottobre 2013

[5] Sonntag S., 1978, Illness as metaphor

[6] Caesar C.J., De bello gallico

[7] Frank A., 1995, The wounded storyteller

[8] Dante, De vulgari eloquentia, cen XIII. Un ringraziamento a Francesco Varanini per la sua interpretazione della lettura di Dante della Torre di Babele: http://www.bloom.it/vara68.htm

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

Questo articolo ha un commento

  1. Una riflessione molto interessante che induce ad altrettante interessanti domande. Sarebbe bello leggere altri articoli sull’aspetto linguistico nell’approccio terapeutico.

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