I sette vizi capitali tra Humanities, malattia e sanità

I+sette+peccati+capitali+otto+dixSpesso le Humanities sono rimaste affascinate dal dibattito sui cosiddetti “vizi capitali”: questi hanno trovato posto non solo nell’epica, nella letteratura, nell’arte, nella filmografia, ma anche nella filosofia e negli universi simbolici che hanno caratterizzato – e caratterizzano tutt’ora – l’immaginario occidentale.

Come scrive Galimberti, i vizi capitali vengono citati, seppur in modo vago, da Aristotele, che li definisce “abiti del male”, derivanti dalla ripetizione di azioni che inclinano l’individuo in una certa direzione – da qui, l’importanza dell’educazione.  Mentre nel Medioevo questi vizi divengono l’immagine dell’opposizione della volontà dell’uomo alla volontà di Dio, nell’età dei Lumi la differenza tra vizi e virtù perde rilevanza, per poi ricomparire – anche se non in modo sistematico – nel pensiero kantiano: inizia a farsi strada una lettura che vede nel vizio una espressione della tipologia umana. La “Antropologia pragmatica” di Kant sarà poi alla base della costruzione dei più famosi trattati di psichiatria dell’Ottocento, disciplina allora strettamente legata con l’antropologia fisica e criminale: i vizi fuoriescono dal mondo morale per entrare in quello dell’anormale, del patologico.

Non solo la filosofia, quindi, ha continuato a interrogarsi su questi “archetipi” e sul concetto di coscienza, sulla formazione del “soggetto morale”: i vizi riecheggiano anche nel dibattito contemporaneo sui comportamenti cosiddetti “devianti” – sono questi inevitabilmente innati o sono culturalmente appresi?

In questa luce, i vizi capitali rientrano anche nel campo delle Medical Humanities, e aprono diversi interrogativi: da quelli riguardanti chi ha il potere di definizione di cosa è norma e cosa è vizio, a quelli che invece si chiedono se la soluzione sia non nella repressione, ma nell’equilibrio.

In effetti, notiamo che i vizi non sono necessariamente negativi, o meglio: solo la loro estremizzazione lo è. Allora, l’ira può diventare rabbia contro ciò che è ingiusto, la superbia l’affermazione della propria identità, l’accidia la difficoltà a far fronte al disincanto del mondo, l’invidia la sofferenza per la mancanza di riconoscimento in una società competitiva; la lussuria e la gola la capacità di riappropriarsi dei piaceri, l’avarizia la parsimonia. Lungi dall’essere meri artifici letterari, i vizi ci aiutano a porci domande riguardanti noi stessi, le nostre relazioni, la società in cui viviamo, e il potere.

Abbiamo selezionato alcune letture “immortali”, con lo scopo di attraversare tutte queste attitudini umane per riuscire a coglierne la complessità: il Proemio dell’Iliade di Omero, “La Roba” di Giovanni Verga, il Canto Terzo dell’Inferno di Dante, l’Otello di Shakespeare, “Frankenstein” di Mary Shelley.

Aggiungiamo due piccole “provocazioni”: “La casta” di Gian Antonio Stella, per indicare che la “gola” non necessariamente riguarda il cibo; e un paper riguardante gli effetti dei “vizi capitali” (ora sì, in un’accezione negativa) quando vengono praticati nel sistema sanitario e di cura.

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