Robotica e relazioni di cura: intervista al Professor Sandro Spinsanti

Sandro Spinsanti

Contestualmente all’ingresso di tecnologie sempre più sofisticate nel campo della cura, si avverte l’esigenza non solo di trovare delle risposte a interrogativi etici e sociali, ma anche di comprendere le possibili evoluzioni nel mondo della cura, e che ruolo avrà in esso la medicina dell’ascolto e della narrazione.

Proponiamo un’intervista al Professor Sandro Spinsanti, che ha ricoperto la cattedra di Etica Medica presso la Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e di Bioetica presso l’Università di Firenze, nonché il ruolo di Direttore del Dipartimento di Scienze Umane dell’Ospedale Fatebenefratelli – Isola Tiberina (Roma) e del Centro Internazionale Studi Famiglia di Milano. È fondatore e direttore dell’Istituto Giano per le Medical Humanities e il Management in Sanità. Ha fondato e diretto la rivista di Medical Humanities Janus. Medicina: cultura, culture.

D. Nel contesto sanitario e di cura, i progressi compiuti nel campo della robotica e delle Intelligenze Artificiali aprono scenari stimolanti, ma al contempo pongono delle questioni etiche. Quali, secondo lei, sono le principali questioni etiche e sociali in gioco?

SS. Prima ancora che nell’ambito di cura, la robotica pone dei problemi a tutta la società. Sappiamo che noi vivremo sempre più insieme a questi strumenti, e che ci consentiranno anche una migliore qualità di vita; questo non solo nella sanità, ma in tutto l’ambito della vita sociale. Sentiamo però il bisogno di stabilire delle regole, soprattutto per la nostra sicurezza.

Il grande profeta della robotica, Isaac Asimov, nel 1942 aveva formulato le tre note leggi – di cui la prima stabilisce che il robot non può recare danno all’essere umano, e la seconda che deve obbedire a un ordine umano. Ma già nel celebre film di Stanley Kubrick, 2001: Odissea nello spazio, è rappresentato in maniera drammatica il robot che si ribella all’ordine, e di conseguenza deve essere disattivato. La “morte” del robot HAL 9000 è una delle più strazianti in tutta la filmografia di Kubrick. L’elemento inquietante in questo scenario è costituito dalla consapevolezza che l’intelligenza artificiale fa un passo ulteriore rispetto alle macchine: queste ultime, diventando intelligenti, acquisiscono una sempre maggiore autonomia; non sono più semplici strumenti, ma diventano quasi degli interlocutori.

In particolare, quello che dal punto di vista sociale inquieta molto – ed è questo uno dei temi più cari alla roboetica – è il fatto che i robot potranno, e dovranno, essere chiamati a prendere delle decisioni. L’esempio più noto è quello del robot che guida una macchina e dovrà decidere se investire o non investire un passante in certe condizioni, se investire salvando il proprio conducente o se autodistruggersi. Peraltro, ben prima dei robot, questi erano dei test di “ragionamento morale” che venivano posti in libri e in corsi di etica pratica. Ad esempio, se un treno è fuori controllo e sta per investire quattro persone, non posso fermarlo ma potrei deviarlo su un’altra linea su cui c’è una persona sola: è etico, per salvare la vita a quattro persone, sacrificarne una?

Ebbene, adesso ci troviamo ad attribuire ai robot questo tipo di ragionamenti morali sottostanti alle decisioni, e ci domandiamo con quali criteri il robot farà queste scelte: seguirà un arido algoritmo o la sua decisione sarà frutto di un ragionamento dove intervengono valori e considerazioni sociali?

La nostra fiducia nel fatto che gli esseri umani, nelle scelte etiche, si basano sull’intelligenza e sui valori è abbastanza ingenua: andando a vedere più in profondità, ci accorgiamo che le nostre scelte vengono condizionate da elementi che non hanno poco a che fare con la razionalità e i valori, ma dipendono da altre variabili.

Un libro emblematico, da questo punto di vista, è Del profumo dei croissant caldi e delle sue conseguenze sulla bontà umana, di Ruwen Ogien, che prende il via da una ricerca fatta mettendo dei mendicanti fuori dai caffè, in Francia, e guardando come si comportano i passanti riguardo al dare o non dare l’elemosina. Uno degli aspetti più inquietanti è che le persone, passando di fronte a un caffè da cui sentono uscire il profumo dei croissant caldi, sono più generose rispetto a quelle che passano davanti a un caffè che non ha il medesimo profumo. Allora, è la bontà d’animo o è addirittura – in questo caso – l’olfatto che determina le nostre scelte?

Questo ci “spoetizza” un po’ riguardo al pensare che le nostre scelte siano razionali ed etiche: ci basiamo su dei ragionamenti, obbediamo a dei valori, e pensiamo che un robot farebbe le sue scelte in maniera diversa da come le facciamo noi umani. Un po’ polemicamente, potremmo anche dire che, affidate ai robot,  le scelte potrebbero essere fatte con criteri meno grossolani di quelli che sottostanno alle nostre…

Questo per dire che lo scenario è molto ampio. La roboetica pone questi e altri interrogativi, in particolare riguardo alla paura che abbiamo che un’intelligenza artificiale sarà più intelligente di una intelligenza naturale (intesa questa come quella che ci caratterizza), e soprattutto che questo mondo degli umanoidi possa prendere il sopravvento.

Nell’ambito della nostra convivenza con i robot, laddove il futuro si manifesta più promettente, è proprio il mondo della cura. Ci proponiamo di far guidare le automobili, ma già oggi abbiamo inserito nelle relazioni di cura dei robot, che potranno svolgere diverse delle cose che fa abitualmente un professionista della cura.

D. Contestualmente al progressivo affermarsi della robotica e delle Intelligenze Artificiali nel mondo dellasanità e della cura, come e in che termini potranno essere ridefiniti il ruolo e le competenze dei professionisti sanitari, in un’ottica di umanizzazione delle cure?

SS. A livello generale, l’inserimento dei robot nella cura è molto promettente. Non per niente il paese più all’avanguardia in questo campo è il Giappone, che ha un problema di invecchiamento della popolazione e di cronicità molto spinto; ma lo avremo anche noi, anzi in parte lo abbiamo già. Ossia, persone in età avanzata e con scarsa autonomia che avranno bisogno di assistenza, a fronte di un numero sempre più limitato di persone che potranno dare questa assistenza – per la ristrettezza delle famiglie, ma anche per l’allungamento della vita, per l’aumento delle cronicità e delle disabilità.

In questo scenario, pensare che molti dei compiti che oggi vengono eseguiti dal personale di cura possano essere svolti dai robot, è rassicurante. Sono compiti che – come sanno coloro che sono stati in qualche residenza per anziani o strutture analoghe – sono estremamente pesanti e logoranti. Avere un robot che solleva un paziente risparmia enormemente la schiena dell’infermiere. Ma c’è un altro elemento molto importante: la cura è logorante anche dal punto di vista psicologico, oltre che fisico. A chi ha paura dell’inserimento robot nel contesto della cura si potrebbe chiedere se sia preferibile un infermiere che, dopo che sia stato  suonato il campanello per l’ennesima volta, si presenta al letto del malato di malumore, accusando insofferenza e stanchezza, oppure un robot che risponde subito al bisogno di assistenza.

Forse, affidare ai robot dei compiti duri di assistenza potrebbe far risparmiare o ricavare del tempo per dei rapporti più colloquiali, umani e caldi con i professionisti stessi. L’infermiere, a cui il robot ha risparmiato la dura fatica della manovra del corpo inerte del malato, potrebbe chiacchierare con il malato in maniera colloquiale e gratificante. Non si tratta di scegliere tra l’uno e l’altro, al contrario potremmo – e dovremmo – imparare a combinare quello che possono fare queste macchine e quello che invece fa soltanto l’essere umano.

Quello che un robot, per quanto sofisticato, per quanto intelligente, non potrà mai fare, è guardare negli occhi. Questo rimane un elemento fondamentale nella relazione di cura.

Riflettendo sul mondo dell’informatica, uno dei motivi di lamentela di molti pazienti è che oggi durante la visita il medico fissa per lo più lo schermo del  computer, e non guarda negli occhi il paziente. Sicuramente, quello che l’intelligenza artificiale – in questo caso il computer – ci fornisce è di enorme importanza per migliorare il livello di offerta scientifica della medicina. Basti pensare che ormai nessuna intelligenza umana può contenere la scienza medica: se non avessimo un supporto tecnologico faremmo più fatica a fare diagnosi e prescrizioni. Quello che dobbiamo però evitare è che la macchina – che sia il robot o il computer – faccia il lavoro del medico. Rimane fondamentale il ragionamento clinico, ma soprattutto è assolutamente essenziale la relazione. E lo sguardo –  l’essere guardato, il sentirsi guardato – è il primo passo in un rapporto umano.

Ho trovato in un sito internet il racconto di un medico americano, paziente lui stesso, che va da una collega specialista per un suo problema clinico; ha una visita di 12 minuti, in cui la dottoressa fissa costantemente lo schermo del computer, senza né guardarlo né visitarlo. Quando esce dalla visita, il paziente passa in segreteria perché la dottoressa gli ha prescritto un controllo, dopo ulteriori esami. Quando la segretaria gli chiede: “Quando la vuol rivedere la dottoressa?”, il primo pensiero del paziente è: “Ma quando mi ha visto?”. È un piccolo aneddoto, che però dà un’estrema concretezza al fatto che nessun computer, nessun supporto robotico, nessun umanoide potrà mai supplire al bisogno che abbiamo di una relazione che inizia col guardarsi.

Se il guardarsi sta scomparendo anche nell’interazione con gli umani, pensiamo a cosa sarà sempre di più nell’interazione con il robot.

D. Che ruolo può avere, in questo scenario, la Medicina Narrativa?

SS. La Medicina Narrativa è orientata sulla relazione.

La cura si sostanzia di due elementi. Comincio con una sentenza che ho trovato nel Museo di Storia della Medicina di Padova, nel settore dedicato alla farmaceutica.  Gli accademici di quella gloriosa scuola, che ha prima creato un orto botanico da cui ricavare i “semplici” per la cura, avevano sintetizzato il loro sapere in una sentenza: herbis non verbis medicamina fiunt, ovvero: le medicine sono costituite dalle erbe e non dalle parole. Dando per scontato che la medicina ha fatto molti progressi – dalle erbe siamo passati ai farmaci biologici di ultimissima generazione – potremmo attualizzare questa presunta saggezza in: la cura si fa con le pillole e non con le parole.

La Medicina Narrativa nasce anche come una reazione a questa forte tendenza, per dire che la cura si fa con entrambe. Non svaluta le erbe (e i farmaci), ma dice che è solo metà della cura: l’altra metà sono le parole.

In questo, la Medicina Narrativa è in buona compagnia.  Basti pensare al movimento della bioetica nei decenni precedenti e quanto ha insistito sul consenso informato, che comincia dall’informazione. Mentre la “medicina delle pillole” si può fare anche senza parole, la medicina che richiede la partecipazione, la consapevolezza, l’intervento attivo della persona non può fare a meno dell’informazione e della partecipazione del paziente alle scelte. La Medicina Narrativa si inserisce in questo filone, valorizzando l’aspetto della parola – peraltro anche in modo critico, perché se noi, prima di prendere una pillola, vogliamo essere sicuri che abbia un’efficacia provata e sia senza effetti collaterali negativi, analogamente la Medicina Narrativa ha bisogno di valutare le parole che vengono scambiate nella relazione di cura. E deve essere molto rigorosa.

Oggi, purtroppo, l’evoluzione del consenso informato ha messo quasi in ombra la modalità di informazione: non sono rari casi in cui viene buttata sul paziente, in maniera brutale, una previsione, una prognosi, magari in termini statistici, senza quel colloquio, quella conversazione, che è assolutamente essenziale. La comunicazione non è un buttare sull’altro delle informazioni, ma è un processo e richiede un accompagnamento.

È quello che il documento prodotto dall’Istituto Superiore di Sanità sulla Medicina Narrativa, frutto di una conferenza di consenso del 2014,  chiama una competenza comunicativa. La Medicina Narrativa si confronta proprio con queste esigenze, e quindi valuta in maniera critica la qualità delle parole che intercorrono tra chi eroga le cure e chi le riceve.

Per concludere: le macchine, i computer, non sono antagonisti della cura, sono anzi una delle dimensioni della cura, ma la cura è più globale. Una macchina non potrà mai sostituire il bisogno di parole: la Medicina Narrativa si fa portavoce di questa esigenza, senza svalutare i contributi che possono venire dai robot.

Alessandra Fiorencis

Laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Specializzata nel campo dell’antropologia medica, ha condotto attività di formazione a docenti, ingegneri e medici operanti in contesti sia extra-europei che cosiddetti “multiculturali”. Ha partecipato a diversi seminari e conferenze, a livello nazionale e internazionale. Ha lavorato nel campo delle migrazioni e della child protection, focalizzandosi in particolare sulla documentazione delle torture e l’accesso alla protezione internazionale, svolgendo altresì attività di advocacy in ambito sanitario e di ricerca sull’accesso alle cure delle persone migranti irregolari affette da tubercolosi. Presso l’Area Sanità di Fondazione ISTUD si occupa di ricerca, scientific editing e medical writing.

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