Numeri e narrazioni: alcune riflessioni su “A philosopher goes to the doctor” di Dien Ho

Recensione di A philosopher goes to the doctor: A critical look at philosophical assumptions in medicine di Dien Ho, pubblicato da Routledge nel giugno 2019.

Un paradigma comune della medicina narrativa, il più diffuso, è che i medici – e i professionisti sanitari in generale – siano competenti in termini di abilità tecniche e conoscenze scientifiche, ma manchino di quelle competenze narrative che possono aiutarli a costruire relazioni più empatiche con i pazienti [1].

Oltre a creare una relazione di cura più empatica, c’è un’altra ragione per usare la medicina narrativa. Quando non comprendono i contesti in cui vivono i pazienti, le loro convinzioni, aspettative e valori, i professionisti sanitari non possono prendersi cura di loro in modo adeguato. L’impegno a mantenere un processo clinico decisionale condiviso implica che i clinici debbano rispettare i valori e i comportamenti altrui [2].

Medici, scienziati, psicologi e antropologi si sono dedicati alla ricerca e alle applicazioni cliniche della medicina narrativa. E i filosofi? Possono apportare delle ragioni per stabilire l’importanza della narrazione nella medicina moderna, non solo in termini di miglioramento della salute?

A philosopher goes to the doctor: A critical look at philosophical assumptions in medicine è un libro che fa aprire gli occhi: presenta ai lettori come vengono acquisite le conoscenze scientifiche, come vengono testate (o meno) le teorie mediche e scientifiche e, soprattutto, i limiti del metodo scientifico occidentale, in particolare l’attenzione alla ricerca di soluzioni tramite la biostatistica come richiesto dall’Evidence-Based Medicine (EBM).

La questione riguardo al modo in cui l’evidenza va a supportare le ipotesi, sostiene Ho, è aperta da secoli. L’empirista del XVIII secolo David Hume, ad esempio, mette in discussione le basi del ragionamento probabilistico; afferma che non saremo mai sicuri che domani sorgerà il sole. Il sorgere del sole sarà sempre una possibilità, con un’alta probabilità che accada, ma non è una certezza. La preoccupazione di Hume non è semplicemente come dovremmo vivere in un mondo incerto, ma ciò che giustifica epistemicamente il modo in cui ragioniamo con le probabilità. Il viaggio storico di Ho ci porta quindi al lavoro di Karl Popper, che fu probabilmente il filosofo della scienza più influente del secolo scorso. Popper affronta le preoccupazioni di Hume sulla probabilità con questa riflessione: è probabile che qualcosa sia vero fino a quando non viene falsificato. Questo è il pilastro degli studi clinici; cioè, l’ipotesi nulla – a meno che l’evidenza non mostri diversamente, il default è che non vi è alcuna differenza tra il placebo e il farmaco attivo. Sconfiggere l’ipotesi nulla diventa la base del disegno sperimentale.

Ho racconta un esempio classico in astronomia, la scoperta di Nettuno da parte di Le Verrier e Adams. Gli scienziati avevano da tempo notato che la meccanica celeste newtoniana non era riuscita a prevedere ripetutamente la posizione precisa di Urano. Secondo l’approccio della falsificabilità di Popper, la fisica newtoniana avrebbe dovuto essere respinta su base deduttiva, perché faceva false previsioni riguardo a Urano. Tuttavia, Le Verrier e Adams (e la maggior parte degli astronomi del loro tempo) non respinsero la fisica di Newton; invece, cercarono di identificare possibili ipotesi nascoste all’interno della visione astronomica ortodossa che avrebbero potuto spiegare le previsioni errate. Le Verrier e Adams ipotizzarono, indipendentemente, che potesse esistere un ottavo pianeta e che il suo campo gravitazionale disturbasse l’orbita di Urano. Usando la perturbazione delle orbite di Urano, Le Verrier e Adams calcolarono la massa e l’orbita del misterioso ottavo pianeta che fu successivamente identificato e chiamato Nettuno.

Ho sostiene che questo particolare episodio nella storia della scienza mostra che la logica della scienza non è così chiara come immaginava Popper. Un altro esempio, nella fisica, viene dal lavoro di Kuhn. Se consideriamo la fisica newtoniana, la massa è sempre conservata, ma secondo Einstein, la massa è relativistica e non è conservata. Se il significato dei termini scientifici dipende dalla teoria all’interno della quale sono espressi, allora la massa newtoniana ha un significato diverso rispetto alla massa relativistica. La lezione di Kuhn è che confrontare la massa tra diverse teorie è simile al confrontare parole sintatticamente identiche da due lingue diverse. L’incommensurabilità delle teorie dovrebbe darci una pausa, quando valutiamo la medicina; persone diverse con diverse visioni del mondo potrebbero comprendere la medicina in modo radicalmente diverso. In realtà, condurre studi clinici è molto più complesso di quanto suggerisce Popper: è quasi impossibile evitare tutti i pregiudizi. Inoltre, è piuttosto miope continuare a vedere la scienza in modi così semplicistici. Ho suggerisce che dovremmo considerare la medicina come parte della nostra pratica culturale generale.

Dovremmo smettere di condurre studi clinici? No, per niente, sollecita Ho. Ma dovremmo essere consapevoli dei limiti e dell’incertezza inerenti al metodo scientifico. Le inferenze scientifiche spesso implicano un vasto numero di considerazioni, che includono ciò che osserviamo e interpretiamo. Per garantire che le nostre inferenze siano giustificate, i ricercatori cercano di minimizzare il numero di possibili fattori di confondimento (che sono presenti in natura e cultura), con l’obiettivo di prendere un valore di 0,05 p (cioè una probabilità del 5% di falsi positivi). Questo limite è comunque arbitrario. Possiamo richiedere una soglia di certezza più elevata, ma vincoli come le limitazioni di finanziamento richiedono di scambiare la certezza con alcuni benefici non epistemici. Inoltre, data la diversità delle situazioni della vita reale, non è chiaro come possiamo tradurre le scoperte in applicazioni in modo universale. Questo è uno dei motivi per cui l’applicazione dell’EBM è così impegnativa nella pratica clinica.

L’indagine sulla nostra dipendenza dalla causalità nello spiegare perché accadono le cose (che è un obiettivo-chiave nella ricerca epidemiologica e medica) rappresenta una meravigliosa intuizione di Ho. Consideriamo un esempio concreto: se fumo e bevo alcolici, ho un rischio più elevato di sviluppare un cancro, rispettivamente ai polmoni o al colon. Il legame causale è ben definito dalla scienza, ed è una delle relazioni causali biologiche più chiare in epidemiologia. Questa catena causale, tuttavia, non include le origini delle mie dipendenze: perché fumo? Perché bevo? Mi sento felice, che grado di benessere ho? Quasi nessuno ha investito del denaro in uno studio clinico per esplorare la connessione causale tra felicità e cancro ai polmoni o al colon.

Innanzitutto, la scala della depressione è “bloccata” nelle mani degli psichiatri e degli psicologi, e non raggiunge gli oncologi. Il questionario sulla qualità della vita dei pazienti oncologici pone solo domande superficiali sull’umore: si riferisce a come la malattia influisca sulla vita del paziente, ma non esplora com’era la vita prima della malattia. Comprendere i limiti della causalità eziologica e patologica offre uno spazio alla medicina narrativa per entrare e contribuire al dialogo.

Ho sottolinea come la scienza spesso semplifichi eccessivamente l’accettazione o il rifiuto delle relazioni causali: localizzando l’efficacia terapeutica di un trattamento o il potere causale dei fattori di rischio, i ricercatori fanno numerose ipotesi su quelli che si qualificano come agenti causali plausibili. Ad esempio, non tracciamo una connessione causale tra il mio cappotto rosso e il mio benessere sulla base del fatto che credo che il cappotto mi proteggerà dal male e che il colore rosso mi darà energia. Generalmente, la medicina moderna evita di investire nella ricerca che non si allinea al paradigma medico dominante. In una democrazia liberale, tuttavia, paghiamo le tasse o le assicurazioni per avere assistenza sanitaria: dovremmo dire la nostra riguardo alla ricerca? Dovremmo chiedere agli scienziati di esplorare l’efficacia terapeutica delle vecchie “superstizioni” indagate dall’antropologia?

Ho critica – e io concordo pienamente con lui [3] – il modo in cui vengono prese le decisioni e il modo in cui il denaro viene distribuito nella sanità. Alcuni farmaci vengono coperti dall’assicurazione e dal Servizio Sanitario Nazionale, al contrario di altre pratiche mediche “alternative” o “complementari”, come lo yoga. Nel caso dello yoga, è ancora peggio, perché ci sono prove che ne dimostrano i benefici per la salute, che in questo caso potrebbero aiutare a risparmiare sulle pillole per l’ipertensione, per esempio. Comprendere i limiti e i preconcetti del metodo scientifico ci rende scienziati migliori: amplia i confini ciò che definiamo “plausibile” nella nostra ricerca della verità.

Molto interessante è anche il capitolo sulle spiegazioni in medicina: quando inferiamo un’ipotesi sulla base delle nostre osservazioni, ci impegniamo a inferire la spiegazione migliore. Queste spiegazioni sono storytelling. Hilary Putnam, un influente filosofo del secolo scorso, rafforza questo bisogno di avere delle spiegazioni: if we have no explanation, our success in sciences are reduced to miracles. Il caso di Ignác Semmelweis e di come ha concepito una storia basata sull’osservazione, nel suo ospedale, dell’aumento del rischio di morte delle donne dopo il parto rispetto a quelle partorienti in casa, è paradigmatico dell’importanza dell’uso dell’intuizione, dell’osservazione, e del pensiero logico. Semmelweis, pur senza alcun supporto tecnologico, aveva avuto un’intuizione corretta. Ma a differenza di altri scienziati, i cui contributi sono stati accettati (come l’identificazione della causa della pellagra da parte di Goldberger), Semmelweis è stato bandito dalla comunità scientifica.

Un altro esempio, questa volta contemporaneo, è rappresentato dalla neuroplasticità: un termine che, per la maggior parte del ventesimo secolo, era praticamente vietato. Secondo la teoria ortodossa delle cellule cerebrali, possediamo quantità finite di neuroni: questi neuroni sono invariati, e possono solo deteriorarsi col tempo. Al contrario, numerosi studi di diagnostica per immagini hanno dimostrato che questa visione statica dei neuroni è errata [4]: sebbene esista un deterioramento delle cellule cerebrali, ora sappiamo che esiste anche la possibilità di attivare neuroni silenziosi e costruire nuove sinapsi. La neuroplasticità sta lentamente entrando nel dibattito neurologico e della riabilitazione come una posizione accettata.

Alla fine del libro, Ho chiama a una scienza più aperta alle critiche, a un sistema medico più umile e alla chiusura del divario tra la scienza e le humanities.

Il sottotitolo del mio libro Narrative Medicine è Bridging the Gap between Evidence-Based Care and Medical Humanities. quando l’ho scritto, stavo dando per scontato che la competenza scientifica è, in qualche modo, indiscutibile. Il mio libro si era concentrato sul rafforzamento delle competenze relazionali attraverso gli strumenti classici della medicina narrativa.

Ora, grazie a libro A philosopher goes to the doctor, facciamo un passo oltre. Non solo utilizziamo il metodo narrativo perché vogliamo essere più empatici: i limiti, i pregiudizi e le interpretazioni personali mettono in dubbio il fatto che la scienza sia oggettiva, “pura” e libera da valutazioni come avevamo supposto. La narrazione non differisce dalla ricerca quantitativa da un punto di vista di “status”, e può senz’altro contribuire nella ricerca, nella pratica clinica e nella formazione.

Vorrei concludere con una metafora: numeri sono i figli e le narrazioni sono le figlie della scienza e della cura. Il maschile e il femminile secondo la teoria junghiana, o lo Ying e lo Yang. A philosopher goes to the doctor dovrebbe essere letto non solo dai medici e dai ricercatori di oggi e di domani, ma anche dagli umanisti della salute: tutti dobbiamo imparare a conoscere il potere e i confini del metodo scientifico e medico contemporaneo.

[1] Charon R, The patient-physician relationship. Narrative medicine: a model for empathy, reflection, profession, and trust. JAMA 2001 Oct 17;286(15):1897-902.

[2] Greenhalgh T, Russell J, Swinglehurst D. Narrative methods in quality improvement research. Qual Safe Health Care. 2005;14(6):443–9.

[3] Marini MG (2016). Narrative Medicine: Bridging the Gap between Evidence-Based Care and Medical Humanities. Springer.

[4] Ramachandran, VS (2011). The tell-tale brain: A neuroscientist’s quest for what makes us human. New York, NY, US: W W Norton & Co.

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

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