Dare forma alle tecnologie nella pratica. Una breve recensione di “Care at a distance” di Jeannette Pols

Il termine telecare, solitamente tradotto in italiano come telemedicina, si riferisce ai dispositivi e alle pratiche professionali nel contesto della cosiddetta assistenza remota, volti a supportare i pazienti cronici che vivono a casa.

Le forme che la telemedicina assume nelle pratiche di cura sono al centro di Care at a distance, di Jeannette Pols: attraverso una dettagliata ricerca etnografica nel contesto olandese, l’autrice analizza le modalità in cui la telemedicina cambia le relazioni di cura tra infermieri e pazienti domiciliati, e in cui, a loro volta, le pratiche locali di cura “plasmano” la tecnologia.

Secondo Pols, vi sono principalmente due posizioni in conflitto tra loro riguardo alla telemedicina, e in generale all’uso delle nuove tecnologie nel contesto di cura olandese: da una parte, coloro che vedono la telemedicina come fondamentale – dato l’aumento del numero di anziani con malattie croniche e la più bassa disponibilità di persone che possono prendersi cura di loro – e come possibilità di ridurre i costi della cura. Dall’altra, coloro che sostengono che la telemedicina e la tecnologia aumenteranno l’isolamento delle persone più anziane, che saranno così circondate da “dispositivi freddi” e deprivate del caldo contatto umano. Il dibattito è ulteriormente complicato dal fatto che la telemedicina sia disponibile in forme differenti (come webcam, dispositivi di monitoraggio o “intelligenti”) con altrettanto differenti impieghi e potenzialità, e con diversi potenziali utilizzatori (pazienti e loro famigliari, professionisti della cura e organizzazioni).

Pols sottolinea che queste posizioni creano una giustapposizione tra diversi “scenari dell’inevitabile”: gli “ottimisti” accusano i “pessimisti” di ostacolare il futuro nel mondo della sanità e della cura, a loro volta i pessimisti accusano gli ottimisti di imporre una tecnologia che porterà a trascurare il paziente.

Lo studio di Pols rappresenta un’alternativa tra gli studi che affrontano le innovazioni tecnologiche nel contesto di cura, analizzando e comparando differenti pratiche di telemedicina, pioneristiche in Olanda, tramite un approccio etnografico.

L’etnografia permette al ricercatore di porre domande aperte. Attraverso di essa, Pols analizza i nuovi dispositivi e le persone che coinvolgono come il risultato di specifiche pratiche locali. Inoltre, l’etnografia permette di rivelare quegli interessi e valori che danno forma ai dispositivi della telemedicina nella vita quotidiana, e di articolare in modo critico le teorie che plasmano la nostra visione della cura e della tecnologia (ad esempio, l’assunto che è la tecnoloiga a determinare una situazione è incorporato in entrambe le sovracitate posizioni presenti nel dibattito sulla telemedicina).

Chi sviluppa i dispositivi di telemedicina, il più delle volte, prende come riferimento persone con malattie croniche (BPCO, insufficienza cardiaca e diabete), dal momento che formano il gruppo di pazienti più significativo; inoltre, le cure palliative si stanno affermando come una nuova branca nella telemedicina olandese.

Di conseguenza, l’indagine si è focalizzata su varie pratiche di cura: un progetto di telemedicina inserito nelle cure palliative per persone affette da tumore, webcam usate per dare un supporto professionale alle persone con BPCO, infermiere che monitorano, tramite call centre, i segni vitali delle persone con grave insufficienza cardiaca.

Questa varietà di pratiche implica che i trattamenti hanno luogo in varie forme: sono diversi tra persone con differenti patologie, ma anche tra diverse configurazioni di pazienti, professionisti e device all’interno dello stesso “gruppo”. In particolare, i pazienti utilizzano e sviluppano un sapere pratico, che permette loro di vivere adattandosi e reagendo alla malttia: i pazienti assemblano e adattano un sapere che hanno ricevuto dai professionisti riguardo alla loro situazione, e arrivano a creare questo sapere pratico. Come sostiene Pols, questa diversità fa sì che la telemedicina innovativa sia un eccellente contesto in cui studiare le pratiche di cura.

Partendo da un progetto di telemedicina inserita nelle cure palliative oncologiche, Pols ha analizzato l’opposizione tra quelli che vengono considerati trattamenti “caldi” e la “fredda” tecnologia.

In generale, i primi si riferiscono alle “buone cure” per i pazienti intesi come soggetti, la seconda alla cura medica e tecnica che intende i pazienti come oggetti. Tuttavia, la ricerca di Pols ha mostrato come le metafore relative alla “temperatura” non siano particolarmente adatte per riconoscere le buone cure da quelle scadenti. Come nota l’autrice, la tecnologia, in particolare, è considerata fredda: una delle maggiori preoccupazioni è che la tecnologia possa sostituire gli esseri umani, i contatti umani, riducendo la cura a delle interazioni meccaniche con le macchine e spingendo quelli che sono già privi di contatti sociali a perdere ancora di più nel momento in cui la tecnologia svolge dei compiti umani. Ma come viene compresa la tecnologia all’interno delle pratiche di cura?

Per quanto riguarda la telemendicna impiegata nelle cure palliative, Pols sostiene che i pazienti non considerano i dispositivi come “separati”, ma come parte della cura che ricevono; ad esempio, alcuni di loro pensano ai dispositivi come un sostegno nel cercare un “nuovo ordine” nel caos causato dalla loro situazione. Il dispositivo, con la regolarità delle sue richieste di attenzione, contribuisce ad addomesticarel a malattia e a ricostruire tempo e spazio per una vita ordinaria. I pazienti intervistati da Pols evidenziano anche la capacità della telemedicina di riunire le persone – pazienti, caregivers e infermieri – rinforzando legami che già erano positivi.

Alcuni pazienti sottolineano il fatto che anche le relazioni umane possono non essere sempre “calde”: ad esempio, alcune relazioni si interrompono all’inizio di una malattia, così come è anche possibile avere a che fare con professionisti indifferenti.

Come sostenuto dall’autrice, le cure “calde” hanno bisogno di buone relazioni. Contrapporre semplicemente caldo contro freddo, o soggettivo contro oggettivo, può essere problematico. La cura è buona quando prova ad adattarsi alla situazione personale al singolo paziente: Le buone cure richiedono calore e freddezza, sapere ed empatia, ma chi cura deve saper dosarli in quantità che si adattino alla situazione particolare e temporanea del singolo paziente. La personalizzazione deve essere un elemento della relazione di cura tra pazienti, caregiver, professionisti e dispositivi.

La bontà di un intervento è contingente a seconda della relazione. Nè il calore né la freddezza hanno un significato predefinito: entrmbe le risposte, tecniche e umane, possono essere adeguate, finché vengono adattate. L’adattamento è una attività relazionale, un modo di interagire che deve essere stabilito continuamente, più che un effetto delle macchine.

Continua Pols, conoscere i pazienti non può essere fatto senza considerare la loro esperienza: il rispetto deriva dal prendere sul serio il trattamento, e dal saper riconoscere quando mettere in campo l’empatia e quando gli antidolorifici sono l’opzione migliore. Nel dedicarsi professionalmente alla cura, l’etica e il sapere non esistono separatamente. Invece di separare  e mettere tra loro in contrasto “caldo” o “freddo”, etica e sapere, Pols suggerisce una terza metafora per superare queste opposizioni: la metafora dell’appropriatezza.

Come nota Pols, la tecnologia può essere compresa come cura, oppure no. Le tecnologie mediche hanno lo scopo di trasformare la condizione dei pazienti, migliorandola, ma chi crea i dispositivi non può controllare i loro “effetti”: è necessario prendere in considerazione il ruolo dei pazienti e i loro caregiver, e le loro idee sulla cura e su come vivere le relazioni anche attraverso i dispositivi, per comprendere la tecnologia nella pratica.

Alessandra Fiorencis

Laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Specializzata nel campo dell’antropologia medica, ha condotto attività di formazione a docenti, ingegneri e medici operanti in contesti sia extra-europei che cosiddetti “multiculturali”. Ha partecipato a diversi seminari e conferenze, a livello nazionale e internazionale. Ha lavorato nel campo delle migrazioni e della child protection, focalizzandosi in particolare sulla documentazione delle torture e l’accesso alla protezione internazionale, svolgendo altresì attività di advocacy in ambito sanitario e di ricerca sull’accesso alle cure delle persone migranti irregolari affette da tubercolosi. Presso l’Area Sanità di Fondazione ISTUD si occupa di ricerca, scientific editing e medical writing.

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