Racconti rari in Medicina Generale

A cura di Bernardino De Felici, medico di Medicina Generale, partecipante alla VIII edizione del Master in Medicina Narrativa Applicata.

Ho pensato di raccogliere dei casi di patologie rare perché, essendo medico di famiglia, mi trovo a curare per lungo tempo patologie che coinvolgono la persona, la famiglia e la comunità.

Ho selezionato alcune patologie: la malattia di Charcot-Marie-Tooth; la miopatia di Miyoshi; la sindrome di Fahr; la gastrite eosinofila; una patologia rara del collagene, simile alla sindrome di Stickler.

Da quest’ultima è affetta RD, una paziente che ho in cura da circa trent’anni: presento qui un estratto della narrazione del suo vissuto della malattia.

Racconto libero di RD – 25 aprile 2019

Quanto tempo è trascorso! Non scrivo da anni e non mi sarei mai decisa, se il mio medico non mi avesse chiesto di farlo. Quando si scrive, si deve farlo con la più assoluta sincerità, ma ci sono delle cose che attengono ad una sfera privatissima che non voglio e non posso raccontare. Ora però è diverso […]. “E allora, via!”.

Nella raccolta di fiabe “Le mille e una notte” c’è in una novella che neanche ricordo bene, un dialogo che mi è rimasto impresso e che mi definisce. Un personaggio chiede a un altro “Ma tu chi sei?”, e quello risponde. “Io sono Abu il ladro! Figlio di Abu il ladro! Nipote di Abu il ladro!”. Così accade ed è sempre accaduto anche a me, “Chi è quella là?” chiede qualcuno, e qualcun altro risponde “È Daniela, quella che ci vede poco, poveraccia! Ha avuto due volte il distacco della retina; è la figlia di Terzilio, quello cieco!”, e aggiungono: “Ha una figlia, carina ma anche quella porta gli occhiali… Ma chissà!”.

Chissà se io, insieme a tutta la famiglia così impura, così indegna di stare al mondo sopravviveremo, e soprattutto ci riprodurremo? […]

Nel luogo in cui vivo, la mia famiglia ha suscitato sempre un interesse estremo: le patologie ricorrenti che hanno segnato la sua esistenza hanno da sempre occupato la lingua della gente che con morbosità e cattiveria si è scagliata contro ognuno di noi. Giusto poche sere fa C., una attempata signora […], vedendomi arrancare, mi fa: “Ve’, come cammini male! Ma la tua è una roba di famiglia!”, e ha continuato così per un bel pezzo, godendo di ricordare tutti quelli che, tra i miei parenti ed affini entro il quattordicesimo grado, abbiano avuto ed hanno l’artrosi delle anche.

La malattia ha avuto un inizio, è cominciata con il nonno paterno Pietro. A memoria di mio padre e di uno zio novantacinquenne, lucido come un notaio, non c’erano patologie precedenti nei loro nonni e bisnonni. Neanche tra i fratelli di mio nonno che, compreso lui, erano cinque, tutti maschi. […] Dopo qualche tempo però, uno di questi, Pietro, comincia a perdere progressivamente e rapidamente la vista, fino alla cecità completa, intorno ai quarant’anni. A questo si aggiunge una artrosi terribile, soprattutto agli arti inferiori, che lo condurrà a un’immobilità totale che lo accompagnerà fino alla morte. Aveva sposato la nonna al ritorno della guerra, e da lei ha avuto quattro figli, prima una femmina poi tre maschi, tra i quali mio padre.

I quattro figli sono nati marchiati dalle sue patologie, in sostanza due soltanto, ma belle grosse! I problemi con la vista e con le ossa.

Questo ha fatto si che i R. fossero definiti nel tempo “tutti ciechi e tutti storpi”, e questo è stato ed è ancora il nostro biglietto da visita.

[…] Mio padre e l’altro zio, Ippolito, sono stati quelli che hanno avuto la prole marchiata dalle sue patologie.

Papà ha avuto me e mia sorella gemella, entrambe con questi problemi, e mio zio ha avuto soltanto uno dei due figli con le stesse patologie. Quindi tre su sette alla terza generazione, e noi tre abbiamo un figlio ciascuno, al momento con problemi di vista (sembra che l’artrosi insorga più tardi).

Mia sorella gemella ed io siamo nate cinquantacinque anni fa – gemelle identiche – e abbiamo avuto nella vita pressoché le stesse patologie.

[…] La nostra infanzia da occhialute ipovedenti è stata fortemente segnata dalle prese in giro dei compagni, senza che maestre prima e professori dopo sembrassero accorgersi di questo; la nostra esistenza è stata segnate dalle difficoltà vere e proprie di ogni ipovedente, e inoltre dall’incompetenza delle persone che avrebbero dovuto alleviare gli effetti di tante e tante menomazioni […].

Occhiali grossi, pesanti inadatti a delle ragazzine quali eravamo noi e, ciliegina sulla torta, quelli di mia sorella erano sempre sbilenchi! I cervelloni in questione mettevano una lente neutra, cioè un pezzo di vetro a sinistra – tanto la povera Annalisa in quest’occhio non vedeva – e la lente graduata a destra; ma la lente graduata pesa tre volte tanto quella neutra, perciò gli occhiali le stavano sempre storti […]. In questo modo la cecità all’occhio sinistro era sottolineata due volte […]. Povero tesoro! Quante prese in giro le è costata tutta questa ignoranza.

Un giorno fortunato, l’oculista, spazientito da questi occhiali sempre in qualche modo difettosi, disse a mia madre: “Signo’, non va bene per queste monelle, bisogna che vai a R., portale qui […], e di’ che ti mando io”. Da allora abbiamo avuto gli occhiali più belli e modaioli di tutti i tempi, l’ottico […] ci ha seguito per trent’anni fino alla sua pensione, contribuendo non poco al recupero dell’autostima.

[…] Le mie patologie suscitano tre tipi di reazione nella gente che mi circonda:

– L’indifferenza degli indifferenti che dicono “Poverina”, ma non hanno ancora finito di pronunciarlo che già hanno dimenticato il perché lo hanno detto o pensato.

– L’interesse degli interessati, che dicono o pensano: “Ah, però! Che bel caso! Come me ne posso servire per fare bella figura in un convegno o congresso?”. A volte ho avuto l’impressione che più che la voglia di curare abbiano avuto la voglia di ampliare, per disporre di maggiore documentazione su cui discutere; un’altra categoria di “interessati” sono i componenti delle famiglie dei fidanzati o delle fidanzate. Erano e sono tutti molto interessati a capire sia l’evoluzione sia l’ereditarietà, perché temono per la discendenza.

– C’è poi la rabbia degli iracondi, ossia di tutte quelle persone che, non si sa bene perché, si sentono offese dalla mia situazione; tra queste ci sono, ahimé, le colleghe e i dirigenti scolastici. Sembra che dover lavorare con una persona imperfetta, perdutamente imperfetta, sia per loro sinonimo di insuccesso. Il preside attuale, poi! Sono anni che cerca di convincermi ad accettare incarichi di sostegno (come se il sostegno fosse facile!) per evitare – dice lui – le fatiche di una classe. […]

La mia vita da ipovedente è trascorsa abbastanza felicemente, eccezione fatta per le visite oculistiche. Me le ricordo cariche di tensione emotiva: il vecchio oculista che ci ha seguito fino ai quarant’anni era fermamente convinto del peso dell’ereditarietà, e non mancava mai di ricordarlo a mia madre prima e a noi due dopo.Ci sentivamo “graziate da Dio e dagli uomini” fino alla visita successiva.

Nonostante ciò, abbiamo avuto tutte le normali esperienze dei nostri sani coetanei: la scuola, tanto studio, l’università, il corso di specializzazione per l’insegnamento ai non udenti, la famiglia, il lavoro.

L’insorgenza acuta dell’artrosi delle anche ha fatto sì che mia sorella, a trentanove anni, fosse già protesizzata. Dalle lastre comparative risultava per me la stessa patologia, ma senza sintomi, pertanto a quell’età io ancora correvo, saltavo, ballavo, e così via […].

È stato a questo punto della mia vita (quarantacinque anni) che il giovane oculista che segue un po’ tutti noi – e che comunque conosce nel dettaglio ogni legame di parentela, oltre alle patologie – ha avuto un colpo d’ingegno. In occasione di una visita di controllo, mi ha proposto una ricerca genetica. L’ha proposta – ha precisato – a me poiché sapeva benissimo che gli altri, chiusi, diffidenti e prevenuti, non si sarebbero mai messi in gioco.

[…] Il giovane, ambizioso, rampante oculista, oltre ad essere bravissimo, ha preso molto a cuore la nostra situazione; mi ha comunicato che lui sospettava la sindrome di Stickler, per il “tandem” artrosi-distacco della retina che abbiamo più o meno tutti.

Mi ha spiegato che un difetto del collagene, tipico della sindrome, fa sì che si abbiano fragilità cartilaginee e del corpo vitreo. Queste fragilità sono le cause delle nostre patologie. La sindrome si può manifestare in modo più o meno evidente, e questo spiegherebbe le differenze tra di noi relative alla “violenza” o all’età di insorgenza. Mi ha consigliato quindi di indagare e così sono diventata una probanda. […] Prelievo di sangue, e un gran numero di fotografie al mio viso, di fronte, di profilo, come al commissariato di polizia.

[…] Trascorrono quasi due anni e mi comunicano telefonicamente […] che ho la mutazione genetica della sindrome di Stickler. Disperazione cupa. Chissà perché avevo sperato che non fosse così, anche se tutto lo faceva sospettare […]. Da probanda positiva devo attendere le indagini genetiche a mia figlia. Nel dicembre 2015 ci rechiamo in ospedale e a mia figlia viene fatto il prelievo. A febbraio dell’anno seguent,e la comunicazione telefonica che anche lei ha la stessa mutazione genetica. Non riuscirò mai ad esprimere la desolata disperazione di quel momento e dei giorni seguenti.

Prendo alcune decisioni, ne parlo all’oculista e al medico di famiglia, e per il momento decido che mia figlia non dovrà sapere almeno fino alla maggiore età (aveva quindici anni). Monto la guardia alla cassetta postale, la dottoressa che mi ha comunicato la fatale notizia mi aveva anche detto di attendere a breve il referto sia via mail che cartaceo a mezzo raccomandata.

Trascorrono i mesi e il referto non arriva. Fino a giugno non ci ho badato, volevo dimenticarlo e non volevo leggere tale sentenza. Quindi mi faceva pur comodo non ricevere il responso. Poi comincio a stranirmi, l’oculista mi consiglia di sollecitare, poiché lui da tempo ha già preparato l’intervento ad un importante congresso all’estero in cui presenterà il mio caso – che non è solo mio, ma coinvolge la mia famiglia da ormai quattro generazioni. Io sollecito e sollecito a distanza di più o meno venti giorni, ma niente.

[…] Arriva il giugno seguente e io decido finalmente di affrontare l’intervento di protesizzazione dell’anca destra. L’ortopedico che mi segue, […] al quale racconto tutta la storia (e amico fraterno dell’oculista), vuole vedere la documentazione fantasma. Ultimo sollecito: minaccia di denuncia se non inviano entro due giorni tutto ciò che riguarda me e mia figlia. La documentazione arriva e… Colpo di scena! La sindrome di Stickler non c’è. […] Il mondo è pieno di mutazioni non conosciute: il medico curante si espresse così, non si sa se è grave oppure no, comunque tutto ciò che è certo è che non è sindrome di Stickler.

[…] Come avevano potuto fare tutto questo? Come avevano potuto farmi credere di avere la sindrome e, quel che è peggio, che l’avesse pure mia figlia, quando era tutta una odiosa menzogna? Passavo dall’incredulità alla rabbia, volevo chiarire con loro e insultarli fino all’inverosimile, ma di colpo ha prevalso la gioia infinita di non essere malata e la sensazione di liberazione che non lo fosse nemmeno la mia bambina. E la gioia, si sa, annienta ogni tensione bellicosa. Ma non me la sono presa neanche quando, trionfante, ho mostrato all’oculista il referto. Felice non si è mostrato, a labbra strette ha detto: “Sì, d’accordo, non è la sindrome di Stickler, ma le è parente poiché è una mutazione che si trova più o meno nella stessa parte del DNA dove si trova quella di Stickler”. Non mi sono lasciata spaventare, mi sentivo sopra una nuvola e non mi importava proprio un bel niente di quello che pensava lui (e che comunque ha presentato lo stesso al suo famoso congresso).

Da quel momento l’argomento era definitivamente chiuso ed archiviato. Soltanto un po’ di amarezza, ogni tanto trabocca al ricordo di tanta e tale sofferenza che per ben due anni mi ha lacerato il cuore. Intanto si avvicinava la data dell’intervento all’anca, mia sorella era protesizzata già da quindici anni, ma io non ne avevo voluto sapere neanche quando la mia situazione si era aggravata.

Mi sono aggrappata a tutto, ho creduto a ogni cosa, ho fatto lunghe, costose cure omeopatiche, ma alla fine sono dovuta comparire davanti al tribunale della sala operatoria. […] Va tutto male sin dal principio. Il giorno della preospedalizzazione vado a fare le cose di rito (prelievo ECG e lastre), le infermiere sono iene. Si entra due alla volta, la povera signora anziana entrata con me, nella stessa stanza con divisorio soltanto una tenda, viene maltrattata acerbamente. La sua colpa? Aver posato la borsetta in un punto diverso da quello indicato. Avrebbe potuto essere mia madre e io non sono intervenuta per difenderla. La paura di quella aggressività, la vulnerabilità che sentivo per l’intervento imminente mi hanno paralizzato e resa vile.

[…] Il giorno dell’intervento arrivo alle sette del mattino, come mi aveva raccomandato l’odioso caposala per telefono. Odioso a causa delle domande che mi ha rivolto in tono superbo e sadico (“Ah, lei è la paziente del primario?”), delle raccomandazioni umilianti (puntualità e igiene, “Faccia una doccia completa con particolare igiene per le zone intime!”). […] Appena arrivata, manda ben tre uomini a mettermi il catetere e a depilarmi per l’intervento. Non mi sono mai sentita così umiliata, avrei voluto mollare tutto e scappare.

Quanto ho deplorato di non essere straricca! Il catetere me lo avrebbero messo ugualmente, ma non avrei dovuto sopportare tanta insolente familiarità. Avrei avuto sicuramente più deferenza e più rispetto. Non è che mi importi della deferenza, ma in un momento di fragilità è meglio un sorriso, una parola buona, che le manacce volgari di tre energumeni che se la ridevano.

In sala operatoria tutta un’altra storia, il carisma del primario crea un clima piacevole e sdrammatizzante, sono una squadra, si vede, si sente, si percepisce, ci si sente al sicuro. Ritornata in camera, ricomincia l’inferno. Quello che ho modo di osservare mi sconvolge: ci sono gruppi di infermieri in conflitto tra di loro, uno fa una cosa, e l’altro l’esatto opposto […].

I danni sono incalcolabili, piaghe da decubito, ematomi sulla pancia come conseguenza delle punture di eparina mal fatte, e soprattutto sottovalutano il mio crescente malessere, che pur faccio presente. Mi dicono che è la normale conseguenza dell’intervento; invece era ben altro, e sarebbe bastato un prelievo per scoprirlo se gli infermieri non si fossero arrogati il ruolo di medici, se invece di ipotizzare diagnosi avessero chiamato l’unica persona che era in diritto di farlo, il medico.

Dimissioni, casa, giorni di crescente malessere, crisi respiratoria, ambulanza, codice rosso, ospedale […], embolia polmonare, rischio di arresto cardiaco per diciotto giorni. Disperazione senza fine, paura di morire, paura di lasciare mia figlia, devastazione nel saperla sofferente e tutto questo per giorni e giorni. Poi lentamente la guarigione […], tac frequenti, stampelle, fatica, ancora disperazione al solo ricordo.

[…] Scrivere di tutto questo percorso psicologico, di malattia, di umiliazioni, di dolore, mi fa rivivere le stesse dolorose emozioni, esattamente allo stesso modo, e questo non mi piace. Vorrei essere felice e non pensare più a quello che mi è capitato. Purtroppo, però, i problemi non sono finiti. Dovrei farmi operare pure l’altra gamba, ma dopo un episodio così tragicamente importante come l’embolia polmonare, tutti i medici sono molto (troppo?) cauti.

Il medico curante e l’ortopedico hanno preso il problema (giustamente) da lontano e hanno voluto accertarsi sulle cause dell’embolia polmonare – perché se è vero che è abbastanza frequente, è vero pure che dovrebbe avere una causa o potrebbe averla.

Il dilemma era questo: sfiga o trombofilia? Per accertarlo mi hanno affidato a un’ematologa dal nobile cognome […]. Dopo le analisi di rito il responso è: sfiga! L’ortopedico mi ha detto che mi opera, però deve prendere tutte le precauzioni del caso, come un filtro alla vena cava prima dell’intervento. Comunico questo all’ematologa che mi si rivolta come un aspide, enumerando cento motivi e più sulla pericolosità del filtro cavale, e conclude inveendo contro l’ortopedico.

La fisioterapista, mia cara amica, mi dà della scema, “Ma non hai capito che l’ortopedico non vuole avere più a che fare con te? Rappresenti un insuccesso e soprattutto un pericolo per la sua crescente fama!”. […] Il medico curante è prudente.

E io? Io farei come l’imperatore Costantino al Concilio di Nicea: chiuse tutti i cristiani dentro un luogo dicendo loro di mettersi d’accordo su un’unica verità (o forse una bugia) su Cristo, una e una sola! Ecco io farei il Costantino della situazione, chiuderei tutti i medici che mi hanno seguito durante queste vicissitudini in una stanza e non aprirei loro fin quando non abbiano trovato un accordo. Dovrebbero anche loro uscire con una sola verità o anche una sola bugia, e decidere se operarmi o no e chi e quando.

Nella mia vicenda, così complicata anche da un punto di vista psicologico, ho avuto modo di osservare anche l’atteggiamento dei medici, quello che hanno detto e quello che hanno taciuto, i loro comportamenti, cercando sempre di capire e di distinguere ciò che era vero e ciò che era dettato dalla prudenza o da altri sentimenti nei miei riguardi, o meglio nei confronti della mia patologia. […] Gli atteggiamenti sopra descritti mi portano inevitabilmente a pensare che anche la maggioranza dei medici, in quanto ad aggressività sono ben provvisti, poi la nascondono bene dietro un’aria dottorale. E l’aggressività mi fa paura più di una minore competenza di quella che normalmente ci si aspetta.

Intanto io sto qui, come in un limbo, trascinando la gamba malata che appare ancora più malata, ora che c’è l’altra risanata. Nei momenti peggiori di stanchezza sembro Gamba di Legno; l’unica consolazione è mia figlia, alla quale non importa se la sua mamma zoppica, purché sia viva. Ha avuto tanta paura e quando mi vede dolorante mi consola, mi dice che non importa se la sua mamma zoppica, purché sia viva. Mi dice che non importa se non ce la faccio a fare le cose, mi dice che sono bellissima anche se claudicante e appesantita. È dolce, ma che trauma poverina, vorrei poterlo cancellare dalla sua mente.

Concludo dicendo che mi sento veramente come Abu, il protagonista di una delle novelle delle mille e una notte, ma non per le mie patologie, bensì perché mi sento “ladra”. Ladra di emozioni, le rubo dal viso dei medici, e sono mie non le dimentico più. Tanto più loro si sforzano di essere sussiegosi, tanto io rubo le loro emozioni, i loro sentimenti spesso ostili, di fastidio.

Non sono una buona paziente! L’imprevisto con me è sempre in agguato ed è per loro una minaccia. Potrò mai guarire? Potrò ancora avere una vita normale? Potrò più fare una passeggiata, o correre o ballare? Chissà.

Ringraziamo l’autrice della narrazione per averla condivisa e resa disponibile. 

Paola Chesi

Laurea in Scienze Naturali presso l’Università degli Studi di Torino. Project manager e docente dell’Area Sanità di ISTUD dal 2010. Esperta nella realizzazione di ricerche organizzative in ambito sanitario, in particolare attraverso l’approccio della Medicina Narrativa, applicata a progetti di respiro nazionale e internazionale per l’analisi dell’organizzazione e qualità dei percorsi di cura. Tra i temi di riferimento, l'inclusione delle persone con disabilità, e il benessere organizzativo. Coordina percorsi formativi accreditati ECM sulla Medicina Narrativa rivolti a professionisti sanitari, svolgendo attività di docenza applicata e tutoraggio. Coordina progetti europei finanziati nell’ambito dei Lifelong Learning Programme, con particolare riferimento alle metodologie formative basate sullo storytelling. Collabora con la Società Italiana di Medicina Narrativa e con referenti di università internazionali. Partecipa in qualità di relatrice a convegni promossi da società scientifiche e Aziende Sanitarie.

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