Raccogliere senza accogliere

Perché guardare “l’Altro” è soprattutto guardare “Noi stessi”? Una comparazione tra pratiche di accoglienza e pratiche di cura

 

Ottobre è sicuramente uno dei mesi più prolifici per il fungo porcino e sono sicuro che il 3 ottobre del 2013 qualcuno in Italia abbia preso un paniere di vimini, sia andato in montagna e ne abbia raccolti tanti. Contemporaneamente, a qualche migliaio di chilometri di distanza, vicino alle coste di Lampedusa, alcune navi stavano raccogliendo i corpi di migranti africani che con un barcone erano salpati dalla Libia per arrivare in Italia. Tra i corpi che venivano raccolti c’erano corpi vivi (pochissimi) e corpi morti. C’erano corpi di uomini, corpi di donne e corpi di bambini. I 366 morti sono stati riposti nelle bare e seppelliti nei cimiteri siciliani. Di questi 366 solo una piccola parte è stata identificata, gli altri giacciono senza nome lasciando un vuoto di incertezza incolmabile nelle loro famiglie. I vivi, invece, sono stati raggruppati, identificati e infine smistati sul territorio nazionale. La maggior parte di loro sarà sicuramente entrata a far parte del sistema di accoglienza italiano, in particolare sarà finito in uno dei tanti centri CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) presenti nelle province italiane. I centri CAS erano nati per far fronte all’Emergenza Nord Africa, il momento in cui le Primavere Arabe di vari paesi del Maghreb (e non solo) avevano di colpo cambiato gli assetti geo-politici dell’area mediterranea permettendo l’afflusso massiccio (più o meno spontaneo) di Richiedenti Asilo attraverso percorsi specifici come quello che dalla Libia portava a Lampedusa. Tale affluenza di massa ha fatto sì che il sistema di accoglienza storico italiano (sistema SPRAR) non fosse in grado di gestire tali numeri, per questo il governo italiano ha dovuto adottare misure di carattere emergenziale creando i suddetti centri. Queste strutture dovevano essere dei centri temporanei di accoglienza nei quali i Richiedenti Asilo “aspettavano” il proprio turno d’ingresso per lo SPRAR. Nella realtà, però, questo riassorbimento non è mai avvenuto ed i CAS hanno continuato a gestire in modo “emergenziale” l’accoglienza creando di fatto un sistema parallelo.

Ma cosa vuol dire accogliere? Il nuovo sistema adempie veramente al suo scopo di accogliere le persone? Quando salvavamo (uso intenzionalmente il passato) una vita in mare, salvavamo la nuda vita (zoè) o la persona? Che cosa perde il migrante nella traversata del mare e che cosa acquisisce? Cosa ci dice di noi il nostro sistema di accoglienza?

Mi sembra importante premettere che, per definire una persona come “Altro”, ci sia senza dubbio bisogno di definire un “Noi”, per questo guardare “l’Altro” in realtà vuol dire guardare al modo in cui un “poco chiaro Noi” si relaziona con un “poco chiaro Altro”. Ampliando il nostro ragionamento, osservare come la società italiana e le sue istituzioni si cimentano nell’accogliere il Richiedente Asilo significa guardare profondamente dentro di noi, al sistema di valori, di simboli e di potere nei quali siamo immersi. È chiaro che un sistema che si basa sul salvataggio di vite in mare tiene in considerazione dell’Altro non in quanto persona ma in quanto detentore di vita. Alla società e alle istituzioni italiane non importa che il corpo che sto raccogliendo sia scappato da una guerra, sia stato perseguitato per il suo orientamento sessuale o per il suo credo. Importa solo che il cuore, contenuto in quel corpo, non smetta di battere. Raccogliere un corpo in mare vuol dire quindi privarlo del suo passato, delle sofferenze che ha vissuto, vuol dire ignorare i processi storico-politici che hanno portato le aree in cui quella persona ha vissuto ad essere affette da guerre, carestie e povertà. Raccogliere un corpo vuol dire creare un sistema (quel famoso sistema CAS) dove sono garantiti solo i bisogni fisiologici (un letto e il cibo) escludendo ogni altra sfera umana. Ma questa attenzione per il corpo e la sua vita non è anche la caratteristica di un altro ambito a noi molto caro? Non è simile al modo in cui la medicina occidentale guarda al corpo del malato separandolo da ogni altra sfera della persona?

I percorsi proposti dagli studi sociali e dai cultural studies, ci hanno permesso di recuperare alcuni “pezzi” di questa persona, riconoscendo che tra noi e gli altri c’è una relazione essenziale che si struttura, però, attraverso processi spesso asimmetrici pieni di implicazioni. I processi di attribuzione di caratteristiche identitarie sono spesso definiti dal peso (politico, mediatico, economico, simbolico) che un gruppo ha sull’altro in determinato momento storico. Tali caratteristiche diventano esistenziali e vengono pensati dagli stessi attori sociali come naturali, statiche e immutabili. Invece Marcus (MARCUS et al., 1986) ci dimostra che la cultura è qualcosa che gli uomini creano e non un bagaglio concettuale che condividiamo come membri di un gruppo. A questo si aggiunge l’idea che il corpo non può più essere visto come un insieme di pezzi di ingranaggio che funzionano all’unisono ma è il luogo in cui la persona fa esperienza del mondo, partecipando attivamente nella produzione dei significati attraverso i quali interpretiamo la realtà e qualifichiamo le nostre esperienze (SCHEPER-HUGHES, 1994; SCHEPER-HUGHES et al., 1987). Vediamo quindi che da un lato, le conoscenze e l’ordine sociale si iscrivono nei corpi, facendole apparire come “naturali”, dall’altro il modo in cui percepiamo il mondo è attraverso un corpo “culturally informed” che agisce modellando le percezioni prima che diventino idee, concetti o rappresentazioni (Quaranta, 2012). La crisi del corpo produce quindi una crisi nel nostro essere nel mondo e per risolvere questa crisi non basta ridurla né all’oggettività del corpo medico né alla soggettività dell’esperienza personale.

Per questo motivo la società italiana dovrebbe sforzarsi di non pensare il corpo e gli “Altri” come qualcosa di separato o separabile da “Noi”. L’idea del “corpo da curare” dovrebbe essere abbandonata per ripensare ai percorsi di cura come ad un contesto nel quale si instaura una relazione tra professionisti sanitari e persona che deve essere curata. In questo modo, il sistema sanitario passerebbe da un sistema in cui si raccolgono e si osservano i corpi a uno in cui si accolgono e si incontrano le persone, creando un contesto nel quale le azioni di tutti dovrebbero essere orientate alla co-costruzione dei significati. Allo stesso modo i corpi raccolti in mare devono diventare persone ed essere inclusi in percorsi di accoglienza che non guardino alla mera sopravvivenza fisica ma che prendano in considerazione la persona nella sua totalità. A questo fine dovremmo fare ogni sforzo possibile per restituire ai corpi morti la loro identità, cercando di ricostruire quella relazione sospesa con le loro famiglie (Robins, 2019). Infine dovremmo ripensare al nostro sistema di accoglienza come un’opportunità di miglioramento del “Noi” che non raccolga e ammassi corpi in centri di semi-detenzione (dove niente è importante se non la loro nuda vita) ma che accolga le persone in percorsi di co-costruzione di un futuro insieme, restituendo loro passato e storia (Pinelli 2014).

 

 

 

Per ulteriori approfodimenti, si consiglia il rapporto della World Health Organization (WHO) sul tema dell’immigrazione

Bibliografia

Marcus, G.; Fischer, M. Anthropology as cultural critique: an experimental moment in the human sciences. Chicago: University of Chicago Press, 1986.

Pinelli B., Campi di accoglienza per richiedenti asilo, in Riccio B. (a cura) Antropologia e Migrazioni, Roma: CISU, 2014.

Quaranta, Ivo, From the communication of information to the production of meaning as a strategy for promoting the right to health., «RECIIS», 2012, V.6, n.2, pp. 1 – 15

Scheper-Hughes, N. Embodied knowledge: thinking with the body in critical Medical Anthropology. In: BOROFSKY, R. (Ed.) Assessing Cultural Anthropology. New York: Mc Graw Hill, p. 229-239, 1994.

Scheper-Hughes, N.; Lock, M. The mindful body: a prolegomenon to future work in Medical Anthropology. Medical Anthropology Quarterly. v. 1, p. 6-41, 1987

Simon Robins, The Affective Border: Missing Migrants and the Governance of Migrant Bodies at the European Union’s Southern Frontier, Journal of Refugee Studies, 2019, fey064, https://doi.org/10.1093/jrs/fey064

Immagine di copertina: opera ‘La Pietà’ di Fabio Viale

Federico Trentanove

antropologo, attualmente è collaboratore di ricerca presso l'Università Ca' Foscari di Venezia e membro del consiglio direttivo della SIMeN (Società Italian di Medicina Narrativa). Dal 2010 lavora e conduce ricerca sui temi della Medicina Narrativa, delle migrazioni e dell’inclusione sociale. Ha collaborato ai progetti Name, Name 2 e Name 3 dell'Azienda Sanitaria di Firenze e al progetto nazionale Viverla Tutta. Attualmente si interessa di Medicina Narrativa Interculturale con un attenzione particolare per il sistema italiano di accoglienza dei Richiedenti Asilo.

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