L’infermiere che sperimenta su di sé la medicina narrativa: riscoperta e benessere – di Ilaria Gerbino

PROJECT WORK REALIZZATO NELL’AMBITO DEL MASTER IN MEDICINA NARRATIVA APPLICATA ED.XIII

di Ilaria Gerbino, infermiera pediatrica

L’infermiere (e l’infermiere pediatrico), oltre ad occuparsi di malattie fisiche, è un professionista che si occupa della salute e del benessere bio-psico-sociale dei pazienti a cui presta assistenza; l’infermiere pediatrico ha la peculiarità di occuparsi della fascia pediatrica della popolazione, comprendendo anche gli adolescenti, non “piccoli” adulti ma ragazzi che hanno delle peculiarità proprie del periodo che stanno attraversando.

L’adolescenza e la preadolescenza sono periodi delicati della vita di una persona e negli ultimi anni con la pandemia da COVID19 e le conseguenze del ritorno alla “normalità”, i diritti dei ragazzi (e dei bambini) al gioco, allo sport, al tempo libero, allo sviluppo delle potenzialità, alla socializzazione, sono stati compressi e messi in secondo piano, trovando poco spazio nei provvedimenti emergenziali. Il ritorno alla “normalità” è stato per molti ragazzi vissuto in modo difficoltoso e in ambito sanitario si è visto un incremento dei casi di disagio, di autolesionismo, di disturbi del comportamento alimentare e del sonno, di dipendenze da alcol o droghe, di senso di solitudine e di ritiro sociale.

Queste situazioni richiedono talvolta il ricovero ospedaliero per far fronte a quelle situazioni in cui la vita del ragazzo deve essere tutelata in ambiente protetto. I reparti di neuropsichiatria italiani, non sono sufficienti per accogliere un numero sempre maggiore di ragazzi, che vengono quindi ricoverati nei reparti pediatrici in degenza “ordinaria”. In questi ultimi però il personale infermieristico non ha una formazione specifica in tema di salute mentale con conseguente rischio di “non sapere come relazionarsi” e con la possibilità di sperimentare emozioni differenti a seconda delle situazioni che si trova a fronteggiare, senza una struttura alle spalle che possa accogliere, sostenere e supportare i professionisti, senza uno spazio “neutro” nel quale anche l’infermiere possa esprimere le proprie emozioni, i dubbi e le difficoltà riguardo la relazione di cura con questi delicati pazienti.

Ed è proprio l’assenza di questo spazio neutro che apre, alla medicina narrativa, alla cartella parallela, alla narrazione, la possibilità di inserirsi nella pratica clinica, diventando strumento con il quale il professionista è libero di esprimersi, di raccontare l’operato senza il linguaggio professionale tipico delle cartelle cliniche ma con il linguaggio delle emozioni, dell’“io” in prima persona. Il mettere per iscritto i propri pensieri obbliga a una presa di consapevolezza degli eventi, a fermarsi e a trovare uno spazio, una razionalizzazione; le narrazioni sono il frutto di pensieri personali, bisogna spendersi in prima persona e essere semplicemente sé stessi.

Ho scoperto in prima persona il potere e la bellezza della narrazione mettendo per iscritto i miei vissuti e le mie emozioni ripercorrendo quelle che sono state le relazioni di cura che mi hanno formato come persona e come professionista. È stato difficile, soprattutto all’inizio trovare il coraggio di giocarmi in prima persona, ma poi nel corso della narrazione, lasciandomi guidare dai ricordi qualcosa accade: cambia il punto di vista. Nella prima cartella scritta, era come se il linguaggio fosse frenato, “scrivo ma non scrivo” … poi il linguaggio ha preso il sopravvento e semplicemente scrivo, prendendomi quello spazio come personale, in cui posso essere libera di scrivere impressioni e riflessioni evocate dal paziente.

Il tema del racconto non è solo qualcosa che ci serve, come professionisti per trovare il nostro benessere, ma è lo strumento per entrare in relazione con gli altri, e in questo caso con i giovani adolescenti: se io racconto a te qualcosa, allora anche tu puoi raccontarmi qualcosa di tuo. Ed è tramite il racconto reciproco che inizia l’alleanza terapeutica, ci si inizia a fidare l’uno dell’altro. Io operatore mi fido di te come paziente, perché sto imparando a conoscerti, e tu ti fidi di me, perché sai un po’ chi sono io.

Compare spesso il tema della stanza come luogo di cura, nei reparti di pediatria ordinari spesso vi è carenza di spazi comuni o quando questi sono presenti sono in condivisione con pazienti con situazioni di salute molto differenti; è molto raro trovare spazi studiati specificatamente per adolescenti, e la stanza, spesso piccola, in cui è richiesta sempre la presenza di un caregiver nelle 24 ore, può essere vissuta come restrittiva della libertà personale. Sia per il giovane paziente, sia per gli operatori che si trovano a fornire assistenza in situazioni di tensione (tra paziente e genitori), frequentemente scatenate dalla stanchezza di trovarsi vincolati nella stessa stanza, senza possibilità di allontanarsi se non autorizzati dal personale medico/infermieristico, in adolescenza, periodo tipico nel quale il giovane vuole e necessita momenti di libertà, anche solo per una telefonata con amici.

Mettendo per iscritto i propri vissuti si può sperimentare quel cambio di prospettiva che porta a miglioramenti del benessere sul luogo di lavoro, al potenziamento dell’empatia e dell’ascolto reciproco: situazioni, eventi, modi di dire e di comportarsi, quando vengono narrati, cambiano forma e si riesce a vedere la bellezza di tutto quanto fatto per quel paziente, per quella situazione o scoprire invece che “avrei potuto fare diversamente, ripensandoci …” e anche questo porta a miglioramenti, perché la volta successiva, consapevole di quanto il cambio di prospettiva mi ha regalato, mi comporterò diversamente. 

Quando si sperimenta su di sé, la bellezza e il potere delle narrazioni, non si può che promuovere le stesse. Giocandosi in prima persona e mostrando i benefici di quanto sperimentato anche agli altri, ai colleghi. E se anche Rita Charon (MD, PhD Columbia University College of Physicians and Surgeons), ideatrice della Medicina Narrativa afferma che “La medicina narrativa è un impegno a comprendere la vita dei pazienti, a prendersi cura di chi li assiste e a dare voce a chi soffre. Non è una forzatura dire che abbiamo bisogno di aiuto per guardare ai nostri processi o per vedere e apprezzare ciò che i pazienti ci dicono. Per me è diventato un modo per far sentire i pazienti ascoltati e notati”, non possiamo che accogliere le narrazioni come parte integrante del processo di assistenza, usare e promuovere questo strumento nella pratica clinica quotidiana. 

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