FORMAZIONE E RICERCA – INTERVISTA A PAOLA ARCADI

Direttore Didattico Corso di Laurea in Infermieristica, Unimi, ASST Melegnano e della Martesana .
Di quali competenze ha bisogno oggi il professionista sanitario?

Sintetizzerei la risposta dicendo: competenze per leggere la complessità della salute e della malattia nello scenario in cui viviamo.

Oggi le persone vivono con problemi di salute che richiedono un approccio sistemico per poterli comprendere, molto più di quanto si necessitava in passato; si pensi solo a quanto la cronicità rappresenti una condizione di vita sempre più presente e a quanto essa non riguardi praticamente mai un solo distretto o apparato, bensì molteplici dimensioni della salute e della vita stessa; le problematiche di salute sono strettamente interconnesse tra loro e il principale obiettivo della cura odierna dovrebbe essere quello di aiutare le persone a potersi prendere cura della propria salute in un ottica di garanzia del benessere, più che di “riparazione” di un ingranaggio che non funziona più.

Le persone hanno dunque bisogno di professionisti che sappiano “guardare al tutt’uno”, curanti che – per riuscire a farlo – devono essere formati e allenati ad allargare il proprio sguardo verso l’unicità dell’altro e la sua complessità. Occorre sviluppare competenze cliniche, educative e relazionali al fine di praticare  l’ascolto e favorire la comprensione dei dettagli e delle modalità uniche con cui l’altro vive la propria condizione di salute e malattia. La formazione dei professionisti sanitari ha sempre cercato di potenziare le competenze più cliniche, cioè più legate agli aspetti hard della scienza, mentre la quota d’arte che è dentro la scienza veniva quasi ignorata.

Noi invece dobbiamo dare agli studenti, ai professionisti e a chi si avvicina alla professione gli strumenti per allenare l’ascolto di sé e dell’altro. Da sempre l’uomo ha rappresentato nelle differenti forme d’arte i grandi temi della cura, della salute, della malattia e della sofferenza. E quindi l’arte è un dispositivo fondamentale per lavorare su questi versanti. Dopodiché si cerca di costruire un curriculum narrativo all’interno dei percorsi formativi che vada a lavorare su diverse tematiche, per sviluppare differenti competenze. 

Qual è il ruolo delle Health Humanities nella formazione del professionista sanitario?

Quello che abbiamo approfondito in questi anni nell’ambito della formazione dei professionisti sanitari è l’esigenza di accompagnare una formazione umanistica allo sviluppo di un’identità professionale fondata sulla cura. La formazione dei professionisti sanitari per troppo tempo è stata una formazione più legata ad aspetti tecnici. Questo forse un po’ più nell’ambito della medicina che nell’ambito dell’infermieristica, perché comunque l’infermieristica da sempre concepisce la salute, la malattia e la cura come qualcosa di estremamente individuale e soggettivo e che quindi richiede un certo approccio fondato sulla relazione e su delle competenze di natura relazionale.

La medicina narrativa e comunque in generale le humanities secondo me oggi aiutano gli studenti e chi si avvicina a una professione di cura ad acquisire delle competenze che siano in grado di leggere la complessità della persona di cui si parlava prima. Che poi è la vera sfida oggi: formare professionisti a leggere quelle sfumature nell’ambito della salute e della malattia che non sono definite chiaramente. Quindi le pratiche narrative, ma in generale le humanities, sono dispositivi formativi fondamentali. 

Quali sono le Sue esperienze personali di applicazione delle Health Humanities in ambito professionale?

Nella sede dove opero abbiamo strutturato dei percorsi di formazione esperienziale, che accompagnano il tirocinio clinico degli studenti; perché il vero nodo non è l’aula, cioè il vero contesto formativo per il professionista della cura è l’incontro con la clinica, è il momento in cui incontrano i pazienti, incontrano le famiglie e la maggior parte delle ore di formazione sono poi sul campo. Questi spesso invece sono stati i momenti meno presidiati dal punto di vista della formazione. Tutto il tema della rielaborazione dell’esperienza che la letteratura ci dice essere fondamentale per la costruzione dell’identità di curante è qualcosa che spesso si tende a lasciare in forme molto spontanee ed episodiche. 

Quindi noi lavoriamo su due versanti. Uno è l’applicazione delle humanities e delle pratiche narrative per il lavoro sul curante. Fin dal primo anno di corso, cioè prima di guardare all’altro e di riuscire a curare l’altro devo guardare cosa sto vivendo io in quanto curante, cosa passa dentro di me; quindi diamo massima importanza all’ascolto di sé e alla conseguente consapevolezza di sé.

Più si va avanti col percorso formativo, e quindi con l’esperienza, più si utilizzano i dispositivi narrativi per affrontare cluster tematici: per esempio il tema della corporeità, della morte, il tema delle comunicazioni difficili, del dolore, della sofferenza, delle relazioni con gli altri professionisti. E lavoriamo con dispositivi narrativi come ad esempio scritture autobiografiche, diario di bordo, visual art, close reading, listening e writing di opere letterarie, poetiche e musicali, pittura, utilizzo della plastilina e dei LEGO (per rappresentare per esempio il tema dell’identità).  

Lei si occupa non solo di formazione ma anche di ricerca. Ancora oggi l’evidence based medicine predilige la ricerca quantitativa rispetto a quella qualitativa, come abolire i pregiudizi sulla ricerca qualitativa e la Medicina Narrativa in una società così quantitativa? 

In effetti storicamente abbiamo assistito ad una sorta di pregiudizio che ha portato sicuramente a dare un grosso valore appunto alla componente quantitativa: ad esempio le revisioni sistematiche, le metanalisi, i trial clinici randomizzati eccetera. I ranking delle riviste, gli h-index, gli impact factor sono tutti parametri bibliometrici che nascono avendo come riferimento quel tipo di ricerca hard, ovvero la ricerca quantitativa. E quindi va da sé che la cosiddetta ricerca qualitativa era un po’ relegata a livello di  case study, come se metodologicamente fosse meno rilevante e rigorosa. E quindi insomma il pregiudizio nasce da quello, dopodiché io credo che ci siano dei fenomeni che ovviamente vanno approcciati dal punto di vista numerico e statistico, ma ci sono tantissimi fenomeni che riguardano la cura che non sono approcciabili numericamente. 

Ad esempio, nel periodo Covid abbiamo avuto l’evidenza di questo. Molta produzione scientifica in quel periodo è andata nella direzione del senso di capire qual era l’esperienza dei curanti, cosa vivevano i pazienti, cosa vivevano i familiari. Questi sono esempi che ci portano a dire che la ricerca qualitativa ci fornisce una serie di informazioni su fenomeni che non possono essere approcciati in altro modo. L’esperienza di dolore, il vissuto emotivo, la percezione delle persone, sono altri esempi di aspetti che richiedono uno sguardo qualitativo, che ha lo scopo di comprendere l’esperienza umana nel suo complesso. 

Le scienze umane richiedono un approccio qualitativo, ma ci vuole una certa competenza perché utilizzare le parole, maneggiare le parole e non far dire alle parole quello che vogliamo noi, ma restituirne il senso corretto, è un lavoro molto delicato.

Per cui secondo me negli ultimi anni ci siamo resi conto che abbiamo ogni tanto bisogno di produrre qualità piuttosto che quantità, cioè c’è un po’ una riscoperta di quella che si chiamava impropriamente “umanizzazione delle cure”, c’è anche oggi un forte ritorno alla richiesta di dare un senso anche alla ricerca. Far avvicinare i numeri alle parole, insomma.

Oggi abbiamo a disposizione tanti strumenti narrativi, ci sono strumenti di raccolta dati per poi produrre ricerca qualitativa; perché, per esempio, se raccolgo delle buone storie di cura, delle narrazioni di vissuti esperienziali di pazienti in determinati contesti e in determinate situazioni, questo è materiale che ci aiuta molto poi a fare delle analisi di tipo qualitativo. Per la mia esperienza posso dire che la medicina narrativa è lo sguardo che ho quando faccio una ricerca qualitativa, e alcuni dispositivi narrativi sono utilissimi strumenti di raccolta dati ai fini di una ricerca qualitativa.

Abbiamo poi la necessità oggi di dare comunque evidenza dell’impatto che hanno le pratiche narrative sulla cura con degli outcome misurabili; e anche su questo secondo me ci stiamo lavorando, cominciamo insomma a vedere produzioni interessanti in tal senso.

Questo articolo ha un commento

  1. Chiara

    Ha toccato temi fondamentali per la cura, e come dice nell’intervista lo sguardo alla complessità è la cosa più difficile da ottenere oggi. La medicina narrativa è la strada!

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