Oltre la pandemia: una chiave di lettura sul negazionismo

In questo ultimo anno, la parola “negazionismo” è diventata imperante, a livello globale, in relazione alla pandemia da Sars-Cov-2, tanto che ormai non dobbiamo neanche specificare quale ne sia l’oggetto. Eppure, il fenomeno del negazionismo esisteva già da prima, e non riguardava solo il mondo scientifico, ma anche alcuni eventi storici che dovrebbero essere imprescindibili per la nostra memoria comune – pensiamo all’ondata di negazionismo nei confronti dei crimini del nazi-fascismo.

La pandemia ha riportato il negazionismo alla ribalta, sia che lo si condanni, sia che lo si rivendichi. Tuttavia, spesso su questo termine non vi è chiarezza. Viene spesso confuso con le conspiracy theories, che di certo possono essere un fenomeno parallelo: queste hanno un ruolo significativo nel contesto sociale e politico, e possono essere usate sia da governanti sia da governati per attaccare l’altra parte; a differenza del negazionismo, però, hanno un’eco diversa nell’immaginario – pensiamo a tutti i film che hanno al centro delle trame che sono, appunto, di cospirazione. Né il negazionismo né le conspiracy theories coincidono con le fake news: costruire notizie false è un atto volontario orientato al creare confusione, se non panico, e chi costruisce fake news sa di stare dicendo una cosa non vera; viene a mancare un elemento che caratterizza i primi due fenomeni, ossia il fatto di credere in quello che si dice.

Ma come possiamo guardare, quindi, al fenomeno del negazionismo?

In un suo articolo sul The Guardian, Keith Kahn-Harris si chiede perché non riusciamo a comprendere vari negazionismi, legati non solo al mondo medico, ma anche ai cambiamenti climatici e ai genocidi. Se, in alcuni momenti, tutti possiamo sperimentare una fase di negazione, verso gli altri o verso noi stessi, quando possiamo dire che un autoinganno privato diventa dannoso? Secondo Kahn-Harris, quando diventa un dogma pubblico:

Denialism is an expansion, an intensification, of denial. At root, denial and denialism are simply a subset of the many ways humans have developed to use language to deceive others and themselves. […] Denialism […] represents the transformation of the everyday practice of denial into a whole new way of seeing the world and – most important – a collective accomplishment. Denial is furtive and routine; denialism is combative and extraordinary. Denial hides from the truth, denialism builds a new and better truth.

Dunque, se il negazionismo è radicato in tendenze umane che non sono di per sé pericolose, nella sua evoluzione lo diventa. Kahn-Harris cita il caso di Thabo Mbeki, presidente del Sudafrica tra il 1999 e il 2008, che – influenzato dagli allora negazionisti dell’AIDS – fu molto riluttante ad attuare programmi nazionali di trattamento; si stima che questa riluttanza sia costata la vita a 330.000 persone. Potremmo però citare tanti altri casi, fino ad arrivare a quei capi di Stato che hanno negato – o continuano a negare – la pericolosità del Sars-Cov-2.

Comunemente, però, il negazionismo ha avuto effetti meno diretti ma più insidiosi. È il caso di chi nega i cambiamenti climatici, che ostacolano la strada a una già non semplice azione radicale per affrontare il problema. Il negazionismo può anche creare un ambiente di sospetto, se non di odio: pensiamo a quanto i discendenti di chi ha vissuto un genocidio sulla propria pelle vengono tutt’ora tacciati di esagerazione, vittimismo, falsità. E anche negazionismi che spesso fanno sorridere – ad esempio chi sostiene che la Terra sia piatta, o che nega l’evoluzione – contribuiscono a creare un ambiente in cui la realtà si infrange sul sospetto che nulla è ciò che sembra: un sospetto che, nell’epoca del web, non può che amplificarsi, tanto più che è sempre più tortuoso controllare la veridicità delle fonti.

Quindi, come si può combattere il negazionismo? La rabbia (comprensibile) dei sopravvissuti ai genocidi e i tentativi di sfatare i negazionismi, che siano rispettosi o sprezzanti, non hanno sempre funzionato.

I do not believe that, if only one could find the key to “make them understand”, denialists would think just like me. A global warming denialist is not an environmentalist who cannot accept that he or she is really an environmentalist; a Holocaust denier is not someone who cannot face the inescapable obligation to commemorate the Holocaust; an Aids denialist is not an Aids activist who won’t acknowledge the necessity for western medicine in combating the disease; and so on. If denialists were to stop denying, we cannot assume that we would then have a shared moral foundation on which we could make progress as a species. […] Denialism is not a barrier to acknowledging a common moral foundation; it is a barrier to acknowledging moral differences. An end to denialism is therefore a disturbing prospect, as it would involve these moral differences revealing themselves directly. But we need to start preparing for that eventuality, because denialism is starting to break down – and not in a good way.

Affermazioni come quelle di Donald Trump sui cambiamenti climatici, o dell’estrema destra sull’Olocausto, suggeriscono una nuova fase del negazionismo, meno “disciplinata”, in cui in gioco non c’è una verità alternativa, ma la rivendicazione di vedere il mondo come lo si vuole vedere – e internet ha sicuramente favorito questo cambiamento:

Post-denialism represents a freeing of the repressed desires that drive denialism. While it still based on the denial of an established truth, its methods liberate a deeper kind of desire: to remake truth itself, to remake the world, to unleash the power to reorder reality itself and stamp one’s mark on the planet. What matters in post-denialism is not the establishment of an alternative scholarly credibility, so much as giving yourself blanket permission to see the world however you like.

Questa evoluzione del negazionismo ci indica che non possiamo più evitare di fare i conti con esso:

Maybe we have been putting this test off for too long. The liberation of desire we are beginning to witness is forcing us all to confront some very difficult questions: who are we as a species? Do we all (the odd sociopath aside) share a common moral foundation? How do we relate to people whose desires are starkly different from our own? Perhaps, if we can face up to the challenge presented by these new revelations, it might pave the way for a politics shorn of illusion and moral masquerade, where different visions of what it is to be human can openly contend. This might be a firmer foundation on which to rekindle some hope for human progress – based not on illusions of what we would like to be, but on an accounting of what we are.

Alessandra Fiorencis

Laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Specializzata nel campo dell’antropologia medica, ha condotto attività di formazione a docenti, ingegneri e medici operanti in contesti sia extra-europei che cosiddetti “multiculturali”. Ha partecipato a diversi seminari e conferenze, a livello nazionale e internazionale. Ha lavorato nel campo delle migrazioni e della child protection, focalizzandosi in particolare sulla documentazione delle torture e l’accesso alla protezione internazionale, svolgendo altresì attività di advocacy in ambito sanitario e di ricerca sull’accesso alle cure delle persone migranti irregolari affette da tubercolosi. Presso l’Area Sanità di Fondazione ISTUD si occupa di ricerca, scientific editing e medical writing.

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