La malattia dell’occhio secco, dalla clinica alla narrazione: intervista al Prof. Pasquale Aragona

Il progetto DINAMO – Dry Eye: Narrative Medicine for Ophthalmology , realizzato da ISTUD Sanità e Salute con il supporto di Bausch & Lomb, ha l’obiettivo di comprendere il vivere con occhio secco dal punto di vista delle persone che ne sono affette, dei familiari e/o caregivers, e degli oftalmologi che le hanno in cura. Per approfondire l’evoluzione della comprensione clinica della dry eye disease e le potenzialità, in questo contesto, del progetto DINAMO, abbiamo intervistato il Prof. Pasquale Aragona, Professore Ordinario e Docente di Oftalmologia presso il Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Messina, Direttore della Clinica Oculistica dell’A.O.U. “G. Martino ”di Messina e Responsabile del Centro Regionale di Eccellenza per le Malattie della Superficie Oculare e delle Uveiti e del Centro Regionale per le Malattie Rare in Oftalmologia dell’Università degli Studi di Messina.

AF. Professor Aragona, quando il dry eye è stato preso in considerazione come malattia, e che evoluzione ha seguito fino a oggi?

PA. La malattia dell’occhio secco (dry eye disease) è stata considerata tale solo recentemente. Nella consapevolezza di chi se ne è occupato, invece, il fatto che il dry eye fosse una malattia è un dato che risale a diverso tempo fa. Consideriamo che nel 1995 vi è stata la prima messa a punto più sistematica, fatta da un gruppo di esperti, che definiva quali fossero le due categorie principali di meccanismi patogenetici che potevano portare allo svilupparsi di questa patologia. Nel tempo gli studi e le esperienze cliniche hanno portato all’affinarsi di questi concetti di base, nella presa d’atto che il dry eye fosse più di un disturbo, così com’era considerato in precedenza. Una volta il dry eye era totalmente minimizzato: non c’erano dati scientifici che potessero mettere in relazione i disturbi accusati dai pazienti con delle alterazioni presenti nella struttura oculare. Il ruolo dell’infiammazione è stato consacrato quando, nel 2007, è stato pubblicato il primo report del Dry Eye Workshop, organizzato dalla Tear Film & Ocular Surface Society (TFOS), che inserisce il termine “infiammazione” nella definizione del dry eye: dunque, il dry eye viene inteso come malattia in cui l’infiammazione gioca un ruolo importante. Anche lì, però, era più una consapevolezza di chi era già “addetto ai lavori” che una conoscenza generalizzata tra gli oculisti: questo perché non si era mai venuti a contatto con quelle difficoltà che il dry eye determina. Le grandi ricerche svolte nel cercare una qualità visiva ottimale in chi si sottoponeva a interventi anche molto comuni, ad esempio la cataratta, o alla chirurgia refrattiva, insieme all’avanzamento delle tecniche di disinfezione volte a migliorare l’outcome, hanno fatto sì che emergesse il fatto che molti di questi pazienti, pur con un miglioramento della qualità visiva, avevano in realtà un peggioramento significativo in termini di qualità di vita. La disfunzione del sistema superficie oculare e la sintomatologia a esso connessa rendevano vano il miglioramento notevole della qualità visiva, tanto che molti pazienti maledicevano il momento in cui avevano deciso di sottoporsi all’intervento chirurgico. Prima, con una qualità visiva più scarsa, riuscivano comunque a condurre una vita relativamente normale, mentre dopo l’intervento chirurgico erano continuamente a confronto con un discomfort oculare notevole. Questa disfunzione della superficie oculare è stata definita col termine “dry eye”, che è legato più alla storia che alla reale condizione: un occhio con un problema di superficie oculare può anche non essere per nulla secco, ma avere una produzione di lacrime di qualità non sufficiente a garantire una buona lubrificazione e l’assenza di sintomi. Si è dunque inteso cercare di capire quali fossero i motivi che portavano alla perdita della qualità della vita, e questo – in qualche modo – ha generato la consapevolezza, anche in chi era totalmente lontano da queste tematiche, del fatto che una buona qualità della superficie oculare garantisce non solo la qualità visiva, ma anche una qualità del risultato finale della procedura chirurgica. Curarsi della qualità della vista e della qualità della vita relativa alla sintomatologia post-operatoria ha portato a outcome migliori – ma questo è solo il motivo per cui gli oculisti generali si sono resi conto di un problema già evidente a chi si occupava di patologie della superficie oculare. Dunque, la consapevolezza degli “esperti del settore” che il dry eye andava inquadrato come una malattia risale a molto tempo fa; la consapevolezza, in generale, tra gli oculisti risale a tempi più recenti.

AF. Arrivati a questo punto, che senso assume, dunque, il progetto DINAMO?

PA. Il progetto DINAMO rappresenta il passaggio successivo che avviene nell’approcciarsi dell’oculista al paziente con un problema di superficie oculare: inquadrare non la malattia, ma il paziente. Con il progetto DINAMO, noi poniamo al centro dell’interesse dell’oculista non più la malattia, ma il paziente con tutte le sue sfaccettature, con tutte le implicazioni del suo rapportarsi all’essere malato e al coinvolgimento sociale che questo comporta. DINAMO, mettendo l’oculista nella condizione di dover raccontarsi nei confronti dei pazienti, mette in risalto un aspetto che finora era stato trascurato, in quanto visto come estraneo, non strettamente connesso alla malattia – ossia, io curo la malattia perché mi soffermo a risolvere problemi clinici con cui mi confronto, non però che dietro alla malattia vi sia una persona che ha anche delle implicazioni psicologiche, molto rilevanti anche per la soluzione del problema. Dunque, devo cercare non solo di prescrivere delle terapie, ma anche di interfacciarmi col paziente, di creare un sistema di empatia che sia significativo e possa realmente coinvolgere sia il paziente che il mio atteggiamento nei confronti del paziente. In questo modo, il risultato della terapia sarà migliore: se rendo il paziente più consapevole rispetto a quelle che sono le prescrizioni che faccio, le motivazioni che mi spingono a scegliere una determinata terapia, certamente il paziente si renderà meglio conto di questa condizione, accettando anche di fare dei sacrifici.

AF. Dalle prime narrazioni raccolte col progetto, emerge un forte dolore da parte dei pazienti. Come si può creare un allineamento tra medico e paziente per affrontare questo dolore? 

PA. DINAMO va a indagare proprio questo. C’è un aspetto psicologico che dobbiamo essere in grado di cogliere per venire incontro alle necessità del paziente e per chiarire meglio le nostre idee per arrivare alla soluzione del problema: questo passa dal mettere a fuoco quella terminologia, quel lessico che emerge da studi come DINAMO, che – pur non essendo Evidence-Based Medicine (EBM) – sono comunque basati sull’atteggiamento psicologico del paziente, nonché del caregiver. Tenere conto delle sensazioni e delle emozioni che sono emerse dalle prime narrazioni raccolte ci permetterà una migliore comprensione e una migliore capacità di affrontare la gestione complessa del paziente. Credo che il compito del medico venga agevolato da questo tipo di studi.

Alessandra Fiorencis

Laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Specializzata nel campo dell’antropologia medica, ha condotto attività di formazione a docenti, ingegneri e medici operanti in contesti sia extra-europei che cosiddetti “multiculturali”. Ha partecipato a diversi seminari e conferenze, a livello nazionale e internazionale. Ha lavorato nel campo delle migrazioni e della child protection, focalizzandosi in particolare sulla documentazione delle torture e l’accesso alla protezione internazionale, svolgendo altresì attività di advocacy in ambito sanitario e di ricerca sull’accesso alle cure delle persone migranti irregolari affette da tubercolosi. Presso l’Area Sanità di Fondazione ISTUD si occupa di ricerca, scientific editing e medical writing.

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