Il Metalinguaggio Semantico Naturale: intervista ad Anna Wierzbicka

1536-kultura-gocIl Metalinguaggio Semantico Naturale (Natural Semantic Metalanguage – NSM) è un approccio basato sull’evidenza dell’esistenza di un piccolo nucleo di significati di base, universali, che possono essere espressi a parole o in altre espressioni linguistiche in tutte le lingue. Questo nucleo comune può essere usato come strumento per un’analisi linguistica e culturale, per spiegare il significato di parole e costruzioni grammaticali complesse e specifiche a livello culturale, e per articolare valori e attitudini culturali. Ospitiamo qui una intervista ad Anna Wierzbicka, Professore di Linguistica all’ANU College of Arts and Social Sciences (Canberra) e alla School of Humanities, Languages and Social Science della Griffith University (Brisbane, Australia), e autrice dell’approccio NSM.

D. Cos’è il Natural Semantic Metalanguage (NSM)? Secondo gli studi linguistici che avete condotto, ci sono termini linguistici universali nel genere umano?

AW. Il Natural Semantic Metalanguage (NSM) è una mini-lingua che si è dimostrata uno strumento efficace per descrivere e comparare significati e idee espresse in qualsiasi lingua. È stato costruito sulla base di una estesa ricerca linguistica, condotta da diversi studiosi nel corso degli anni. L’efficacia di questo strumento deriva dal fatto che corrisponde (o almeno questo credono i ricercatori nel campo del NSM) al nucleo condiviso di tutte le lingue. Questo nucleo condiviso può essere identificato tramite un piccolo insieme di parole che hanno i loro esatti equivalenti in tutte le lingue. Di conseguenza, il metalinguaggio noto come NSM presenta tante versioni quante sono le lingue naturali. Quindi la risposta alla seconda parte della domanda è: sì, ci sono termini universali che troviamo in tutte le lingue. Ve ne sono 65. Questi corrispondono, crediamo, a ciò che Leibniz ha definito “l’alfabeto dei pensieri umani” (alphabetum cogitationum humanarum). Hanno la loro grammatica intrinseca, universale. Questo significa che possono essere combinati allo stesso modo in lingue differenti, per permettere frasi traducibili nei diversi contesti.

D. Tutti, nel corso della vita, sperimentano la malattia, o la perdita dello stato di salute. Secondo il NSM, in qualsiasi lingua del mondo, c’è la parola “sentire”, gli estimatori “male” e “bene”, e la parola “corpo”. Potreste ipotizzare che l’esperienza di malattia e il processo di guarigione possano essere riferiti a queste parole che sono universalmente presenti in tutte le lingue?

AW. È vero che in tutte le lingue del mondo noi troviamo parole corrispondenti per sentire, bene, male e corpo. C’è anche una parola che indica l’accadere in tutte le lingue, e altre sessanta, tra cui io, molto, da tempo, e così via. Queste parole ci danno una base, indipendente dalla lingua, per dire – per esempio – che Qualcosa di brutto sta accadendo al mio corpo, che Mi sento davvero male per questo, che Non posso fare molte cose come prima, che Da tempo mi sta capitando qualcosa di davvero cattivo (forse, da molto tempo), e così via. Credo che si possa parlare della “esperienza di malattia” e del “processo di guarigione”, e li si possa pensare, indipendentemente dal linguaggio, per mezzo di parole e frasi comprensibili a livello universale.

D. Tornando al termine “corpo”, questa parola è presente in ogni lingua che avete studiato. Al contrario, la mente è un concetto astratto e varia da una cultura all’altra. Significa che quando siamo malati stiamo naturalmente tornando indietro al corpo, o che con questo dobbiamo confrontarci?

AW. Non necessariamente. È vero che, come suggerisce l’evidenza, ogni lingua ha una parola per corpo, concettualizzata nello stesso modo, ma non una parola per mente. Ma le persone possono parlare di come si sentono, senza riferirsi al corpo – ad esempio, possono dire: Mi sta capitando qualcosa di brutto: non posso pensare, non posso fare nulla, mi sento sempre molto male, Non voglio fare nulla, e così via. L’universalità di io è certamente cruciale, qui. Ma le persone spesso pensano anche a cosa succede loro in termini di parole che non sono indipendenti dalla lingua, ma che, al contrario, dipendono dalla cultura. Per esempio, le persone che parlano inglese tendono a pensare a queste cose riferendosi alla parola inglese mind, chi parla francese a l’ame, chi parla russo a dusha, e così via. Come ho notato, il problema è che i dottori e gli esperti in medicina che parlano inglese tendono ad assumere che uno possa parlare di tutte le esperienze umane nei termini della parola inglese mind (che si focalizza sul pensare e sul conoscere, sull’esclusione dei sentimenti, e sul pensare in termini di buono e cattivo) – tendono ad assolutizzare il concetto inglese e lo trattano come un dato oggettivo. Questo è l’anglocentrismo che invade molte scienze, e penso che spesso impedisca una comunicazione cross-culturale di successo tra medici (psicologi clinici, e così via) e pazienti.

D. Pensa che ci sia non solo un metalinguaggio, ma anche una meta-cultura dell’ammalarsi, dell’essere malato, dello stare bene, dello stare male, espressa attraverso un metalinguaggio che include anche differenze culturali?

AW. Non sono sicura di aver compreso appieno la domanda. Ci sono certamente profonde differenze culturali nel modo in cui le persone in differenti parti del mondo pensano a cosa accade loro, a come si sentono, perché si sentono così, e così via. Tutte queste differenze possono essere espresse e chiarite, penso, attraverso lo stesso metalinguaggio basato su concetti universali umani come accadere, sentire, male, bene, corpo, e così via. Ma forse non sto rispondendo alla domanda, non sono sicura di quello che intendete con “meta-cultura”.

D. In uno dei “concetti logici” ci sono anche parole come “potere” e “forse”: questi termini aprono alle possibilità, come dire che nel metalinguaggio c’è sempre una ipotesi di “cambiamento”, “dinamicità”, e non solo “staticità”. È come dire – se abbiamo capito bene – che nel linguaggio umano c’è sempre la possibilità di considerare delle alternative. Nella sua opinione, il NSM rispecchia il processo umano di meta-pensiero?

AW. NSM è uno strumento per descrivere, analizzare, spiegare significati e idee. Può certamente essere utilizzato per parlare di “cambiamento”, e non solo di staticità. Gli elementi concettuali universali can e maybe sono essenziali, ma così sono anche altri concetti, come capitare, da tempo, altro, e così via. Come ho già detto, concetti universali come questi hanno la loro intrinseca grammatica universale. Congiuntamente, il lessico e la grammatica (che si combinano in tutte le lingue) ci permettono di costruire quello che noi ricercatori nell’ambito del NSM chiamiamo “scenari cognitivi”. Questi scenari possono differire, in parte, da cultura a cultura, ma possono essere spiegati combinando mini-testi accennati attraverso gli stessi concetti semplici (accadere, sentire, corpo, potere, fare, e così via), usati nelle stesse combinazioni.

D. Nei nostri incontri con gli scienziati, abbiamo visto che molti di loro continuano a dire che la scienza è la scienza, e che la poesia è la poesia. Siamo abbastanza preoccupati riguardo a questa divisione tra discipline, perché pensiamo che la scienza stia soffrendo di un approccio riduzionista, e non si stia aprendo a una nuova possibilità, “il concetto logico”. Voi siete contrari all’abuso della lingua inglese: è perché immaginate una riduzione della possibilità di significati? E mettersi in contatto con altri possibili significati potrebbe “significare” di avere un differente impatto sulla vita? Attraverso questa analogia potremmo far risaltare insieme scienza e poesia…

AW. Sono contraria all’abuso della lingua inglese nel pensare l’esperienza umana. Utilizzare il Minimal English può essere efficace nel cercare di comprendere l’esperienza umana, come utilizzare il Minimal Italian o il Minimal Polish. Non sono contraria all’uso del Minimal English negli incontri internazionali (ad esempio, le conferenze). Quello che preoccupa me – e i miei colleghi – è la assolutizzazione del Maximum English, con parole come mind, trauma, stress, e così via date per scontate, e non trattate come parte di una particolare “lingua-cultura”. Ma sì, questa eccessiva dipendenza dall’inglese (inteso come Maximum English) conduce – credo – a una riduzione nel vasto raggio di significati che giocano un ruolo nell’esperienza umana, con gli scienziati che spesso pensano esclusivamente in termini di significati dipendenti dalla cultura inglese, e che non provano a capire i significati nei cui termini i loro pazienti (o i dottori senza un background anglofono) possono pensare. La riduzione dell’universo di significati codificati nell’inglese (specialmente, nell’inglese tecnico, accademico, medico) ha spesso un impatto davvero infelice sulle nostre vite.

 

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

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