LA NARRAZIONE DELLO SPORT NELLA DISABILITÀ  – DI MARIA GIULIA MARINI

“My advice to other disabled people would be, concentrate on things your disability doesn’t prevent you doing well, and don’t regret the things it interferes with. Don’t be disabled in spirit as well as physically.” -Stephen Hawking 

“Il mio consiglio ad altre persone disabili è di concentrarsi sulle cose che la disabilità non impedisce di fare bene e di non rimpiangere le cose con cui interferisce. Non siate disabili nello spirito oltre che fisicamente”. -Stephen Hawking 

Mens sana in corpore sano, che si tratti di una persona normodotata o con una disabilità visibile o invisibile. La narrazione sin dai tempi antichi recitava “una mente sana è frutto di un corpo sano” – dove per sano non si intende la normalità ma il benessere, e “un corpo sano è frutto di una mente sana”.  Forse sono ovvietà a cui le neuroscienze danno oggi ragione: endorfine che si liberano dopo l’attività fisica, ossitocina che si rilascia nei giochi di squadra, grazie al senso di appartenenza e la serotonina che viene prodotta dopo un riconoscimento di bravura con sé stessi o con altri. 

E come correlare la narrazione con lo sport nella disabilità? È grazie anche allo sport che le persone con diverse abilità possono cambiare la propria visione del mondo, ovvero la storia che raccontano a sé stessi e agli altri: infatti, citando uno dei più grandi neurologi esperti di benessere residuo, Oliver Sacks, gli individui con disabilità  che fanno sport non si focalizzano più solo sulle “mancanze”, “i deficit”,  ma su quello che invece possono realizzare con le loro funzionalità da potenziare. Da una narrazione ferma, immobile e di dolore sulla “perdita” (di caos) si passa ad una narrazione evolutiva, in movimento, e di ricerca  (di quest) che pone in risalto un corpo non più “non alla pari”, ma un corpo forte e uno spirito determinato a esplorare un linguaggio del corpo “sconosciuto”.  Saranno necessari nuovi gesti, nuove soluzioni, e nuovi contatti tra i corpi e gli elementi dell’acqua, dell’aria e della terra. E con gli altri esseri umani.  

Dalle narrazioni delle persona con disabilità emerge che lo scoprire nuovi mondi prima poco esplorati come le arti tra cui pittura, musica, teatro, scrittura creativa ha il grande potere di far esprimere i segni lasciati e assorbiti nella quotidianità del convivere con quella che viene definita gergalmente e in modo violento una menomazione: il suffisso meno- sta a indicare una diminuzione, il contrario di plus- una situazione aumentativa. Le arti sono capaci di far fuoriuscire il plus, la performance creativa, l’acquisizione di benessere nella bellezza, la trasformazione dell’io della persona. 

Lo stesso vale per lo sport, che pone la sfida sul corpo e su quello che si può riuscire a ottenere attraverso l’impegno quotidiano, la fatica, la disciplina e la competizione con sé stessi: i riconoscimenti arrivano, Paralimpiadi o palestra dietro casa, esibizione artistica al La Scala, o teatro di quartiere, che importa: il riconoscimento sociale e l’appartenenza sono ovunque come la capacità di essere testimoni che si può vivere e sorridere con diverse abilità. 

Quando capita un trauma, un incidente o infortunio spesso viene chiamato nell’equipe la figura dello psicologo o del counselor per aiutare la persona ad elaborare la propria situazione. Può essere utile, ma da quello che conosciamo delle persone con disabilità non basta e può- se troppo frequentato- essere controproducente: si tratta troppo spesso della conversazione tra – e perdoniamoci le etichette- un normodotato e una persona con diverse abilità. E spesso è il normodotato che tiene la seduta psicoterapeutica a chi ha una disabilità.   Come ci insegna Rita Charon c’è un “divide”, una barriera che separa le due figure, ed è veramente complesso farsi accogliere autenticamente da chi ha avuto l’esperienza di un trauma: non si potrà mai essere alla pari, pur essendo dotati di una grande dose di empatia.  

Racconto un aneddoto di cui anni fa mi ha fatto dono l’allora presidente della Spinal Cord Injury People Association (Associazione delle Persone con Lesione Spinale) in UK che ho avuto il piacere di intervistare: mi disse del suo incidente a 16 anni che lo aveva portato a non camminare più e a vivere su una sedia a rotelle. Nel protocollo di cure erano stati effettuati diversi incontri con psicologi, terapisti occupazionali, tante persone di buona volontà: nulla, per due anni si era rifugiato come un Hikikomori nella sua stanza, e non voleva saperne di uscire di casa. Un giorno che la famiglia era fuori (ma era stata la sua meravigliosa famiglia ad organizzare tutto) sente suonare alla porta: sulle prime non vuole aprire, poi guarda fuori dalla finestra e vede una persona giovane su una sedia a rotelle. Gli va ad aprire: questo si appoggia sulle ruote con i muscoli delle braccia e con un salto fa salire la carrozzina superando i due gradini che c’erano vicino allo scivolo per le persone disabili. Ha di fatto ignorato la rampa per far vedere che per lui saltare due gradini per entrare dentro casa era cosa possibile; il ragazzo lo guarda bene, lo riconosce e sì è un campione di pallavolo a livello nazionale. il futuro presidente dell’associazione delle persone con lesione spinale rimane a bocca aperta, colmo di stupore. E mi disse “da quel giorno smisi di lamentarmi, la mia famiglia aveva capito che avevo bisogno di esperienza autorevole e credibile, di uno che avesse passato e oltre-passato quello che stavo vivendo io; il vedere che il corpo di un altro poteva sfidare le scale fu il gesto – quel gesto- per cui i ho scelto di lavorare come responsabile giardiniere in un vivaio.  Più di Freud e dell’approccio Rogersiano (counseling) poté la pallavolo.  

Mettiamoci nei panni del campione di pallavolo che accoglie questa richiesta per aiutare i ragazzi con disabilità chiusi nelle proprie case.  Non solo è campione – e magari prima dell’incidente non lo era -e già questa è una prima trasformazione del sé- ma ricopre un ruolo attivo in società, diventa un testimone credibile per narrare la propria metamorfosi superando la forma mentis della vittima e del vittimismo: la fragilità e la vulnerabilità fanno parte della natura umana ma come hanno fatto prima il campione e poi il giardiniere  si sono focalizzati attraverso l’esempio ancora a quell’ultimo gesto che il corpo può ancora fare, l’ultimo pensiero che la mente può ancora sognare. Ecco il pensiero generativo, del plus, che mette sullo sfondo i suffissi dis- (della doppiezza) e meno- termine che non necessita di ulteriori spiegazioni. 

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

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