Il Minotauro nel Labirinto e la Bella e la Bestia nel Castello: modi diversi di reagire ad un evento traumatico

Il Minotauro nel Labirinto

2013-04-10-labyrinthIl Minotauro è una Bestia, mezzo uomo, mezzo toro, che si nutre della carne di sette ragazzi e sette ragazze, un olocausto offerto da Atene. Il Minotauro è imprigionato in un Labirinto, senza alcuna possibilità di fuga.
Questo mito appartiene all’età del bronzo, datata attorno al 1500 a.c., e chiama in azione una “Bella”, Arianna, la figlia di Minosse, il re di Creta e un eroe, Teseo, figlio del re di Atene, Egeo, che desidera interrompere questo sacrificio del meglio della gioventù della città.

 

Perché ricorrere alla mitologia del Minotauro e della Bestia?

Nel linguaggio relativo alla malattia, il termine “Bestia” o “Mostro” o sinonimi sono usati con ricorrenza nelle narrazioni dei pazienti in riferimento ai loro disturbi, per esempio parlando del vivere con la sclerosi multipla, il cancro, la psoriasi, e anche nella fragilità del normale processo d’invecchiamento. Questo accade in special modo quando la persona mostra deboli strategie di “coping”, ossia l’abilità di gestire “qualcosa d’indesiderato, di disturbante, d’imprevedibile”.

 

In un recente studio effettuato su 123 pazienti affetti da sclerosi multipla, la parola “Bestia” è stata utilizzata, una volta comunicata loro la diagnosi, dal 7% dei casi, crescendo poi sino al 40% dai pazienti che non erano in grado di fare i conti con il cambiamento portato dalla malattia nelle loro vite. Di fatti, se non c’è alcuna possibilità di creare e trovare una possibile soluzione per realizzare il cambio di vita dettato dalla malattia, il mostro è sempre lì, come il Minotauro che il paziente incontrerà alla fine imprigionato nel Labirinto.
Secondo questa analogia, lo spazio del labirinto riguarda il sistema di cure, dalla casa, all’ospedale, dalla casa di riposo allo studio clinico: tutte questi luoghi di cura cambiano, in base a dove i pazienti si trovino in un determinato momento. Possono trovarsi in letti d’ospedale o nelle proprie abitazioni, oppure malati ma sul posto di lavoro. Inizia così il cosiddetto viaggio del paziente-patient’s journey: questa è la definizione formale assegnata alla sequenza di eventi di cura che il paziente segue da un punto di entrata sin dentro il sistema di cura, attivato da una particolare malattia o condizione fino a quando il paziente non è dimesso dall’ospedale a casa, centro di cura, hospice o nella fine della vita  (Timothy Trebble, Process mapping the patient journey: an introduction, BMJ 2010; 341 – Published 13 August 2010).

 

Com’è questo viaggio del paziente?
Lineare? Circolare? Possiede un punto d’uscita? Si tratta di un Labirinto? La complessità aumenta. In situazioni del genere, il viaggio del paziente è molto simile a un labirinto, dove le persone malate possono perdersi e spesso è questo quello che dichiarano sia nella fase diagnostica, dove è così difficile assegnare un nome alla loro Malattia, sia nel trovare il Curante più adatto per i loro sogni e i bisogni.

 

L’architettura del labirinto rappresenta il “travaglio interiore”, la fatica fisica o metaforica, che ad ogni passo viene consumata per trovare una via di fuga, a causa di due gravi pericoli, il perdersi sulla via della cura e il venir divorati dalla Malattia, dal Minotauro. Qui non c’è alcuna possibilità di domare la Bestia, ma c’è solo una chance per liberarsene: divenire coraggiosi come Teseo che ha ucciso il Minotauro con l’ausilio della spada consegnatagli da Arianna e che troverà la via d’uscita dal Labirinto grazie al gomitolo, per evitare di perdersi. Questo filo di Arianna può essere associato alla mente razionale, che si oppone ai pensieri ingenui della gioventù vergine ateniese che andrà a perire sacrificata.

 

Sempre secondo l’analogia del percorso di cure, tradotto nell’algoritmo di cura, un paziente potrebbe entrare in un ramo del labirinto dove si trovano ottimi professionisti sanitari mentre un altro paziente potrebbe entrare in un ramo del labirinto iper-medicalizzato, spesso a causa di un ascolto inappropriato da parte dei prestatori di Cura.

 

La maggior parte di noi ha provato che dopo un semplice esame diagnostico ci viene raccomandato di eseguire qualche altro esame che, nella maggior parte dei casi, non andremo ad effettuare. In ogni caso, ci sono molte persone, ai limiti dell’ipocondiria, in un sistema che con la medicina difensiva rende ipocondriaci, che si torturano continuando a sottoporsi da un esame all’altro, da un medico all’altro, disegnando così un labirinto nel loro percorso di cure, come il loro viaggio del paziente, senza concedersi alcuna possibilità di uscire dal labirinto con il “filo” della mente razionale.

 

Teseo fu in grado di superare questo labirinto soltanto tenendo nella sua mano il filo consegnatogli dalla bellissima Arianna, la Signora del Labirinto, ed essendo in grado di non cadere nel panico una volta di fronte alla Bestia. Passioni insane, emozioni troppo intense e la paura sopra tutto, non sono le attitudini adatte per riuscire ad uscire dallo spazio del Labirinto, uno spazio che è un archetipo nel reame del genere umano; è in grado di rappresentare la vita di ogni persona, non appena è avviato nella nostra dimensione terrena, con il suo grado di eventi imprevedibili. Teseo si recò a Creta, per uccidere il Minotauro, con il preciso intento di sradicare il sacrificio dei quattordici ateniesi; dal mito non è chiaro se ha anche ingannato Arianna, lasciandola a sperare innamorata, abbandonata tutta sola a Nasso. Pagherà per esser stato così superficiale, dimenticando di cambiare le vele nere della sua nave con quelle bianche, che sarebbero dovute essere il segnale per il Re Egeo, suo padre, che il Minotauro era stato sconfitto. Egeo, vedendo le vele nere, pensò che il figlio fosse morto e si suicidò, buttandosi in quel mare, che da lì in poi  momento verrà chiamato Mar Egeo.

 

I pazienti si sentono persi quando un medico diagnostica loro una malattia, o quando si auto-diagnosticano un disturbo attraverso il labirinto del web: si perdono  le certezze, si diventa fragili, senza alcuna chiara mappa. Un salvatore, esterno, o interno, come Arianna, è necessario non solo per combattere la malattia ma anche per trovare un buon terapista. I pazienti, proprio come i giovani innocenti, dopo essersi persi nel Labirinto sono costretti a vivere nel caos, senza alcuna possibilità di fuga dalla fine che potrebbe esser causata dalla Bestia o per fame in qualche angolo nascosto del labirinto.
Anche l’eroe Teseo, che è in grado di combattere il mostro con la tecnologia del filo nella fase del caos, dimenticando di cambiare le vele della sua nave. Uccide la Bestia, ma non è in grado d’imparare dalla Malattia nulla se non il ricordo di un trauma terribile; non è in grado di percepire l’amore sincero di Arianna e di suo padre Egeo. Esce comunque dal Labirinto con una ferita di guerra aperta, il trauma, anche se ha vinto. Questo è lo scenario d’apertura del disturbo post-traumatico da stress (DPTS). Alcuni studi hanno dimostrato la presenza di sintomi da DPTS nelle persone sottoposte a cure per cancro, eventi cardiaci e ictus, così come nei pazienti che hanno subito un trapianto d’organi. Ma la DPTS può non essere riconosciuta in molti pazienti e a volte può rallentare la guarigione da una malattia critica.
Ecco alcune prove del ritorno dal trauma del Labirinto:
  • Attacco cardiaco. Una persona su otto che ha avuto un attacco cardiaco o altre emergenze gravi alle coronarie ha sviluppato i sintomi del DPTS, secondo le ricerche che hanno analizzato i dati provenienti da 24 studi di DPTS che includevano 2.383 pazienti cardiopatici. L’analisi, pubblicata nel giugno del 2012 dalla rivista PLOS One, riporta che nei pazienti cardiaci con DPTS il rischio di avere un secondo attacco cardiaco o di morire raddoppia nel giro di tre anni.
  • Ictus. Il 18% dei sopravvissuti ad un ictus o a una suo forma minore riportano sintomi di DPTS. Da uno studio pubblicato online nel gennaio 2013 dal British Journal of Health Psychology, il 65% di questi pazienti con sintomi di DPTS erano meno propensi a seguire la loro terapia medicinale – forse perché ricordava loro l’ictus – mettendoli a rischio di un altro attacco.
  • Cancro al seno. Circa una donna su quattro con un tumore al seno sviluppa i sintomi da DPTS nei primi due-tre mesi dopo la diagnosi, come dimostra uno studio pubblicato online nel febbraio 2013 dal Journal of the National Cancer Institute. I sintomi erano più comuni tra le donne afroamericane e asiatiche e in donne sotto i 50 anni.
  • Chirurgia spinale. In uno studio condotto su 73 pazienti che si sono sottoposti ad un intervento di chirurgia  spinale lombare – la fusione, una procedura che fonde assieme due o più vertebre – quasi uno su cinque aveva sintomi di DPTS entro un anno dall’intervento. I pazienti che avevano depressione o ansia da pre-intervento erano più portati a sviluppare DPTS.
  • Ospedalizzazione in un’unità di terapia intensiva. Uno su tre dei pazienti ammessi in un’unità di terapia intensiva con un grave danno polmonare e che sono stati aiutati a respirare grazie ad un polmone d’acciaio hanno avuto sintomi di DPTS entro due anni dal loro ricovero, secondo le meta-analisi condotte dalla John Hopkins University  e pubblicate online nel marzo 2013 da Psychological Medicine. Gli stessi medici sospettano che la DPTS sia molto comune anche tra gli altri pazienti che sono stati in terapia intensiva.

 

Cosa abbiamo imparato da tutte queste letture scientifiche?
Che se non c’è un cambio d’attitudine dal Caos alla Ricerca, vale a dire, cosa si sta apprendendo da questa esperienza, anche traumatica, e soprattutto, se non avviene un’apertura ad emozioni più empatiche verso i curanti, il trauma rimarrà e sarà più grande della stessa malattia. Il Minotauro, che sarebbe potuto essere soltanto un animale, entra nel reame minaccioso della mitologia della paura.

Se il trauma non è trasformato, non è metabolizzato, non rimarrà lì solo come un buon guardiano, ma influenzerà l’esito dei sopravvissuti in futuro.
In ogni caso, lo spazio del labirinto possiede un ordine segreto irriconoscibile dalla logica e percezione umana, e sfugge dai confini della maggior parte della mente razionale: genera caos, confusione, e quando diventiamo fragili durante una malattia, abbiamo bisogno piuttosto di poche certezze, non solo l’eterno vivere nell’idea di perderci.

 

La Bella e la Bestia

“La Bella e la Bestia” è una favola, che ha le sue radici probabilmente nella Grecia antica, o ancora prima nell’età del Bronzo, nel 4000 a.c.
Le favole, come la mitologia, parlano spesso di temi comuni al genere umano attraverso il mondo e attraverso le epoche, come la famiglia, il tradimento, la violenza e la sopravvivenza. In ogni caso le favole sono caratterizzante da un lieto fine, come un nutrimento per pensare in modo positivo.
Anche la favola della Bella e la Bestia ha un lieto fine che ci mostra come anche le figure più spaventose possano essere “domate” e “trasformate attraverso l’amore”. In questa storia c’è un mercante che si avventura nella foresta durante una tempesta. Alla ricerca di un riparo, entra in un castello illuminato. Una figura nascosta apre la gigantesca porta e silenziosamente lo invita ad entrare. Quando il mercante se ne sta per andare, vede un giardino di rose e si ricorda che la figlia, desiderava una rosa, prima che se ne andasse. Non appena coglie la rosa, il mercante viene affrontato da un’orribile “Bestia” che gli dice che per aver colto il suo più prezioso possedimento dopo aver accettato la sua ospitalità, il mercante deve morire. Il mercante implora d’esser lasciato libero, spiegando che aveva raccolto la rosa solo come regalo per la sua figlia più giovane. La Bestia accetta che il mercante consegni la rosa alla Bella, ma solo a patto che il mercante o uno dei suoi figli facessero ritorno.
Il mercante accetta questa condizione. Bella accetta le responsabilità e va di buon grado al castello della Bestia che la riceve cortesemente e la informa che da quel momento era la signora del castello. Le dona vestiti sontuosi e cibo e porta avanti lunghe conversazioni con lei. Per molti mesi, la Bella conduce una vita nel lusso al palazzo della Bestia, con ricchezze senza fine ad intrattenerla e uno sconfinato rifornimento di abiti eleganti da indossare. Alla fine però, sente nostalgia di casa e implora la Bestia di permetterle di andare a trovare la sua famiglia. La Bestia lo consente a patto che ritorni esattamente una settimana dopo. Tuttavia Bella rimane a casa del padre più a lungo di una settimana e inizia a sentirsi in colpa per la promessa infranta con la Bestia: decide quindi di far ritorno al Castello. Rimane sconvolta quando scopre che la Bestia giace mezza morta a causa di un malore al cuore e  Bella scoppia a piangere sopra la Bestia. Soltanto scoprendo il vero amore, a dispetto della sua bruttezza, avrebbe potuto rompere la maledizione. Così Bestia si trasforma in un bellissimo principe e la Bella lo sposa.
Come l’analogia de “la Bella e la Bestia” è inserita in un contesto di malattia, chi o cosa rappresenta “la Bella”? C’è un modo d’indurre una metamorfosi della “Bestia-malattia” verso una situazione meno spaventosa? La “Bella” può essere la cura, così come i fattori di coping del paziente come una buona disposizione, l’essere estroversi, aperti, ottimisti e coscienti di un’innata umanità, che potrebbe guidare all’accettazione della “Bestia”. È bello considerare che anche nei tempi antichi, c’era già questa visione ottimistica sul superare le situazioni più ingombranti.
Quando qualcuno deve affrontare una malattia, si genera una nuova condizione spazio-temporale. Il tempo può  sembrare più lungo e insostenibile, guardando avanti a quando si riceveranno i risultati del test, o all’accesso ad una nuova cura o a un trattamento innovativo. Lo spazio mentale di un paziente è invaso dalla Bestia, che prende il controllo dell’intero corpo o dell’intero contesto dove la persona malata vive. In ogni caso, in questa favola, se all’inizio la Bella è sconvolta dalla Bestia e dalla sua bruttezza, col passare del tempo, scopre che questa possiede alcuni tratti gentili: anche se ha un aspetto spaventoso, fa di tutto per cercare di calmare la Bella, dal piccolo regalo sino a parlare con lei, riuscendo a creare un dialogo.
Se Arianna è usata da un uomo, per poi essere abbandonata su di un’isola deserta, al contrario la Bella è in grado di trovare le sue risorse interiori per ritornare  con il suo libero arbitrio al Castello e per rimanere con il mostro. La cultura l’ha aiutata. Il fatto che fosse una donna con tratti empatici, che non cascasse immediatamente in un appassionato amore per il classico eroe, ma scoprendo una più intima vita ordinaria, una via per resistere alla Bestia, raggiungendo addirittura “l’assurda” posizione di amare la Bestia stessa. Il fatto che il Castello non fosse un Labirinto, con solo una via d’accesso e una di fuga, ma un luogo più semplice dove entrare e uscire che rappresenta la Libertà nel suo complesso.
La Bestia inizialmente è terrificante, ma concede a Bella tutto l’intrattenimento che desidera e anche un’ultima possibilità: la libertà di tornare dai suoi parenti e dal suo amato padre. Se Egeo è morto a causa della caotica mente post-traumatica del figlio, il quale si era dimenticato di cambiare le vele, in questa favola, un padre mantiene la sua vita attraverso il punto di vista empatico della Bella. La curiosità la salva assieme al padre, così come la compassione, mentre il coraggio di Teseo non è sufficiente a prevenire eventi fatali. La Bella ha deciso di vivere in un’attitudine di “ricerca”, consapevole che la Bestia, che appartiene al Pericolo, è sempre dietro l’angolo, e che in ogni caso soltanto le buone maniere, l’empatia, il fascino per il bizzarro e la capacità d’inclusione potranno essere i fattori attivanti utili non per Sconfiggere la Bestia ma per controllarla e accettarla.
Mentre il Labirinto è un’architettura, che ha le basi nella terra, il Castello è un edificio, che si eleva nel cielo, al di sopra del Labirinto delle vite ordinarie. Le sue mura sono in grado di lasciar passare la gente dentro e fuori, proteggendola durante gli attacchi. Il Castello è un’architettura affascinante, al punto che non esiste favola senza almeno un palazzo del genere. Il Castello è qualcosa di molto amato dalle persone, qualcosa che dona protezione e sicurezza, senza alcun bisogno di filo; uno può semplicemente cercare di raggiungerlo. Se ci si sente troppo isolati, c’è un villaggio vicino dove si può andare al bar e chiacchierare, o in uno spazio aperto… o si può aprire il castello per dare una festa, con le rose dei giardini come decorazioni. Il Trauma se n’è andato, riflettendoci sopra, vivendoci assieme, attraverso il parlare delle proprie paure, il vivere e il creare arte e musica, facendo ogni giorno qualcosa di personale e ricco di significato e importante, scrivendo le esperienze traumatiche, come come ci insegna la  medicina narrativa, e Bella sa raccontare storie e scriverle.
Dai pazienti con la sclerosi multipla, abbiamo imparato che loro erano in grado di  convivere la Bestia trovando qualcosa di nuovo e meraviglioso ogni singolo giorno delle loro vite. Infatti, nelle narrazioni dei pazienti, in un atteggiamento esistenziale volto alla “ricerca di un nuovo stile di vita”, la Malattia cambia nome e si trasforma da Bestia a: “parte di me”, “un evento invasivo”, fino a “amico”. Addirittura, “un compagno di stanza, di vita”, un amico, una persona che ti riflette e che, se presa con il giusto ritmo, intrattenimento, parole e gesti, può portare addirittura pace in questa guerra.
Nel Labirinto non ci sono decorazioni, mentre nel Castello le rose che la Bestia ha seminato quando era da sola, aspettando qualcuno da spaventare e con cui stare allo stesso tempo, sono in fiore.

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

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