CONSIDERAZIONI SULLA MEDICINA NARRATIVA: IL PENSIERO DI RITA CHARON – DI NEIL NOVELLO

Neil Novello è Dottore di ricerca in Letteratura italiana (Università di Bologna) e autore di diverse opere. È autore dei saggi Giorgio Cesarano. L’oracolo senza enigma (2017), Jean Genet. Epopea di bassavita (2012), Pier Paolo Pasolini (2007).
Ha curato alcune raccolte di studi:
Mitopoesia dell’eone: cunti, stellarî, dicerie. L’opera di Giuseppe Occhiato (2019), Giorgio Cesarano. I giorni del dissenso, La notte delle barricate (2018), Envoi Gramsci. Cultura, filosofia, umanismo (2017), Tràgos. Pensiero e poesia nel tragico (2014), Apocalisse. Modernità e fine del mondo (2007), La sfida della letteratura. Intellettuali e poteri nell’Italia del Novecento (2004). Scrive, in versi, Stellario boreale (2017), Falò de’ rosarî (2011) e Rosa meridiana (2004), in prosa Nostàlghia (2013). Ha un’attività di critico letterario. È nel Comitato scientifico e collabora con «Journal of Italian Studies»-«Rivista di Studi Italiani». Ha scritto e scrive per diverse riviste: «Carte di Cinema», «Il Ponte», «Il Lettore di Provincia», «Anterem», «Carmilla».

La «malattia genera storie» si legge in una tra le pagine finali di Medicina narrativa di Rita Charon. È difficile rendere in parole il circolo virtuoso esistente tra le forme della narrazione, la loro funzione terapeutica e la malattia. Per la medicina narrativa, la cura e la guarigione passano dai racconti, dal mito come occasione e possibilità di integrare il protocollo clinico. Ma non solo. Rendere il paziente soggetto e oggetto di narrazione, introdurre le storie scritte od orali nello spazio muto esistente tra il curato e il curante non è solo una pratica. È un atto, un progresso di civiltà. La medicina narrativa è dunque un farmaco per stimolare l’empatia e talvolta per tracciare vie di guarigione. Essa agevola e rafforza il ritorno a una dimensione partecipata del percorso clinico.

La prima narrazione, quella che più di altre innesca uno scenario di cura attiva da parte del paziente, è la narrazione di sé, della propria storia. È in scena la voce diretta di chi l’ha vissuta. Parlare è dunque il mezzo per scardinare il silenzio, per inaugurare un dialogo teso a far essere il parlante il soggetto primo dell’ascoltatore: il medico narrativo. E non solo: l’atto di parola inaugura il campo della medicina narrativa. Parlare, certamente, ma anche leggere e scrivere. Il paziente produce forme di letteratura, è dunque dentro una scena umanistica. Esservi implica la produzione, a ogni livello espressivo, sia di parola sia di lettura sia di scrittura, di un testo che fa da stella polare al dialogo e al processo empatico e curativo. Il grande mito resistente della medicina narrativa è il silenzio. Lo sono anche la reticenza, il pudore, il non detto.

La pratica della medicina narrativa colma di sé lo spazio vuoto tra il malato e il protocollo clinico della cura medica. In questo spazio si estende una terra ignota. La medicina narrativa opera allora per colmare il vuoto esistente tra la disponibilità alla cura, nel malato talvolta inespressa, e l’opera del medico volta a curare tramite la parola. Il vuoto è anzitutto un vuoto culturale, una carenza di civiltà culturale. La scienza medica tradizionale figura un’azione muta sul corpo del malato, la medicina narrativa invece ridà la parola, ricrea la tradizione sovvertendo il colpevole silenzio tra chi cura e chi è curato. La malattia non è mai solo malattia del corpo. Quel corpo reca in sé una storia, la storia di chi si è ammalato. La medicina narrativa compie allora un intervento maieutico ed ermeneutico propriamente sulla storia-matrice, l’autobiografia orale o scritta di chi testimonia la malattia. E la testimonianza, centrale nel processo di cura, non trova un interlocutore modello soltanto nel medico. Al contrario, essa si completa appunto nel lavoro del medico narrativo. Questo del racconto autobiografico, nel curato appare come un potenziale latente. Charon scrive che il «Sé rappresenta lo strumento terapeutico più potente». La via per «umanizzare la medicina» passa dal superamento dell’ impasse dialogica tra il medico e il paziente. Sempre più urgente è «entrare nel mondo del paziente», camminare dentro la sua narrazione per mezzo della propria «competenza narrativa». Il curante narrativo possiede una preparazione narratologica, una competenza letteraria sul testo-paziente. Alla parola narrativa bisogna però assegnare un significato più organico. Il testo-paziente non è soltanto una narrazione. Lo è nella misura in cui esprime il sé attraverso un racconto. Tuttavia in esso è presente un “mondo” solo incidentalmente reso attraverso la parola.

Le «storie» narrate definiscono il fulcro e la scena madre della medicina narrativa. Così la conoscenza del linguaggio narratologico, e più in generale la cosiddetta «competenza narrativa», trova una sintesi nella qualità del dialogo. A integrazione delle «conoscenze scientifiche», le umanistiche partecipano razionalmente del protocollo terapeutico. Un’immagine esemplare di Medicina narrativa sta nella comune, condivisa volontà, tra «chi parla» e «chi ascolta», di andare fino in fondo alla conoscenza della «sofferenza», di entrare in rotta di collisione con il patimento. Capire appare il primo imperativo. Ed esporre, esibire la «sofferenza» significa parlare sapendo di essere ascoltati. E meglio ancora se il dialogo accade nella consapevolezza che la parola confessata sfugge al silenzio, poiché nel silenzio del sofferente non vi è un principio di cura né un inizio di guarigione.

La medicina narrativa, essendo una «pratica», è un lavoro sul campo. Entra, può ambire a entrare nell’«abisso in cui si trova il paziente», penetrare nella sua profondità più remota, lì dove nessuna scienza riesce a tracciarsi una via. Se la malattia determina una naturale ritrazione dal mondo (la malattia, che si produce nell’uomo, è eziologicamente percepita dal malato come proveniente dall’esterno), la medicina narrativa lavora a ricomporre la distanza, lavora a sanare la frattura, a reintegrare il malato nel circolo della vita e nello spazio del sapere. Capire ascoltando è una via. Tanto più che la malattia e la morte, in realtà, spesso denunciano l’impotenza della medicina tout court, della cura meramente farmacologica, a curare. E così la malattia reclama altre e nuove forze di cura, altri esperimenti e ipotesi di lavoro, altre prove per consolidare, e sperare di ri-orientare il cammino terapeutico. La domanda originaria sul significato e l’identità della cura richiede una risposta integrata. Così come è necessario venire a capo della stessa pratica terapeutica. La cura e la terapia non indicano un’attività tradizionalmente medica o convenzionalmente scientifica. La cura e la terapia narrative promettono qualcosa di più, di camminare insieme al malato verso l’«ignoto» che ha aggredito il suo corpo. A riguardo, la parola esemplare è «interoggettività». Attraverso la reciprocità empatica non si promette la guarigione, solo ci si immette su una via curativa per alleviare la sofferenza.

Quando Wayne C. Booth parla della Montagna magica di Thomas Mann, cogliendo nella narrazione l’ampiezza della durata distingue la storia dal discorso letterario. Nella Montagna pertanto il discorso letterario dà luogo a una germinazione. L’effetto di estensione discorsiva nel romanzo di Thomas Mann è utile alla cura. A riguardo, Charon scrive che «ci vuole tempo per ascoltare, per comprendere, per curare». È in questa concezione lunga del tempo dialogico è possibile far emergere, entro un quadro di causa-effetto, la «singolarità» del paziente. È qui che due esseri singolari, «due Sé s’incontrano davvero», si incontrano proprio in direzione dell’«intersoggettività». Ciò che accade accade se e perché il curato lungamente parla. È la piena e libera reciprocità del soggettivo a disegnare spontaneamente lo scenario etico come spazio del dialogo tra il curante narrativo e il paziente. La cura narrativa equivale a una liberazione o a qualcosa di più, equivale a una catarsi. Il «prigioniero del non detto», non dicendo appare doppiamente malato. Lo è se ammalato e lo è di più nella reticenza o nell’autocensura. Esprimere il sé attraverso la condivisione autobiografica, per il paziente significa istradarsi verso la pacificazione interiore. Nel racconto non è tanto il recupero del passato a determinare il dialogo curativo, è per così dire il dato immediato di coscienza sul proprio presente. L’autobiografia è dunque il modello letterario di una prassi clinica di cura. E ancora di più. Parlare di sé, parlare del sé costituisce un fondamento ontologico e insieme definisce una matrice antropologica. L’essere autobiografico, nella medicina narrativa diviene un essere-per l’altro. Ciò accade perché qui il soggetto identifica la possibilità curativa di se stesso. In certa maniera, nella parola autobiografica è inscritto un orizzonte autosoteriologico. E la ricezione testuale da parte dell’altro alimenta il «ruolo salvifico della narrazione». Un ruolo, è necessario chiarire, che espleta una duplice funzione, esattamente la duplicità di un individuo paradossalmente diviso dalla malattia, perché la malattia gli ha donato una nuova coscienza del corpo. Quel che resta della totalità sana dell’individuo è una persona che per la prima volta può pensare al proprio corpo come a un altro corpo, può pensarsi uguale e diverso, familiare e straniero. A questo punto, il perturbante è venuto ad abitare in noi.

«Pur togliendo molto, la malattia sa anche gettare una luce folgorante sulla vita» scrive Charon. È proprio la «luce folgorante sulla vita» a irradiare l’interiorità del malato, a creare le condizioni affinché l’aumento di vitalità speculativa inneschi un decisivo dialogo terapeutico con il medico narratologo. Il malato-testo non è però solo una narrazione. Qui non si ricerca la ratio di una diegesi, al contrario si lavora a capire il testo come «forma». In fondo, l’analisi entra in un orizzonte stilistico. Chi ascolta la parola del malato dovrà allora superarla, chi accoglie la voce dovrà scavarla in profondità ponendosi nell’attesa di un segno di illuminazione. Non è però da dimenticare un assunto fondamentale. Nel campo della medicina narrativa, il ruolo del lettore non è paragonabile a un mero lettore di malattia.Esso legge il mondo che la malattia ha sconvolto ricreandone però uno nuovo. E la narrazione della malattia appare sempre come una forma narrata in piena soggettività. Ecco perché il lettore è anzitutto il lettore di un libro in cui si manifesta un narratore autobiografico. Charon identifica la lettura del testo-paziente come un processo, un’azione ermeneutica distribuita in cinque passaggi, «contesto, forma, tempo, trama e desiderio», categorie tolte alla teoria letteraria e alla narratologia. Esse presentano un «grande valore clinico». La loro conoscenza teorica implica l’acquisizione di una coscienza culturale, che è la coscienza del testo nella sua identità primaria, viva. È un fatto di enorme e decisiva importanza sapere in coscienza cosa sia un testo. Ciò perché il grado di partecipazione all’esperienza testuale (nel caso, il racconto di un paziente) non richiede il mero ascolto impressionista ma obbliga il medico narrativo a un ascolto consapevole, un ascolto che al medico-lettore viene dalla scienza letteraria. Capire la narrazione del paziente diviene un fatto di «attenzione» criticamente partecipata, una forma di concentrazione sul testo che è insieme parola, silenzio, allusione, pudore. Una tale comprensione è finalmente capita se può essere rappresentata. In altre parole, se il testo orale o quello non apertamente emesso dal paziente, una volta scritto dal medico narrativo racconta che è stato anche recepito sia per il detto sia per il non detto, cioè che è avvenuta quella che Charon definisce la «connessione».

Una faglia, un’apertura di orizzonte problematico, ancora nell’ambito delle confessioni da parte del paziente, riguarda anche la pratica della scrittura. La nozione di «cartella parallela» per come la intende Charon è riferita però al lavoro di annotazione dal lato del curante. Scrivere significa fissare, lavorare a fissare su carta l’«esperienza» del medico narrativo, quella che è la pratica della medicina narrativa dal punto di vista di chi cura. La cartella parallela fissa allora il pensiero ovviando alla sequenza di meri “dati” della cartella clinica. Il momento decisivo, dopo la scrittura della cartella parallela, sta in due effetti, la lettura pubblica delle cartelle all’interno del gruppo di medicina narrativa e il commento, la lettura e l’analisi tese a formare la coscienza collettiva dei curanti. Scrivere, leggere e commentare è il lavoro segreto del medico narrativo, dell’équipe curante. La sua segretezza non ha nulla di oscuro né di pregiudiziale. È un lavoro utile a capirsi e a capire sé nell’altro. Oggettivarsi nel sentimento, scriversi in un testo, non è come parlarne, è una fissazione commentabile. Essa costituisce una testimonianza. E la sua funzione è tesa a sviluppare una pedagogia reciproca all’interno del gruppo di lavoro. Peraltro la sua teleologia terapeutica è, anche per il curante, l’uscita dalla solitudine, la fuga dalla condizione di chi lavora in gruppo ma dinanzi alla malattia, al dolore e alla sofferenza dell’altro è solo. Per il curato, la pratica rivela una comprensione più profonda, più umana dell’esperienza personale. Al farmaco dunque si associa la «parola» orale-scritta. La medicina narrativa, riguardando gli «aspetti sociali della sanità e della malattia», inaugura un orizzonte di lavoro e ricerca di genere socioumanistico.Ma la parola quale essenza, centro dialettico tra il curante e il curato, va rimeditata anche sotto il profilo bioetico. Charon ne parla come di una frontiera in cui la bioetica assume una qualificazione politica. Qui il corpo del curato diviene l’uomo che è, dunque non più solamente un corpo da curare. E il curante non è più soltanto uno scienziato. L’idea di frontiera, di confine tra il curante e il curato, non riguarda solo la pratica della medicina narrativa. Per Charon, l’emancipazione da essa «è etica in sé», poiché per esprimersi «non ha per forza bisogno di una “bioetica” separata». Parlarsi, alla fine, è tutto. La ragione essenziale della «guarigione», la stella polare della cura finalizzata alla salute o al più sano vissuto nella malattia, può «generare la volontà di assoggettarci a queste storie». La nascita di un «seminario di oncologia narrativa», nella sua esemplarità culturale e civile può essere spiegata alla luce di una puntuale volontà dialettica. Si tratta di aprire, dopo aver fondato una comunità di curati e curanti, a una definitiva consapevolezza comune attraverso la parola. E ciò perché il silenzio, anche tra i curanti, dice sempre meno della parola. E così la parola scambiata può fondare, spesso fonda una nuova communitas, fonda cioè la condizione stessa, anche nella malattia o nella morte dell’altro, di un argine necessario, di una difesa che equivale, che finalmente rivela la permanenza dell’umano.

Questo articolo ha 4 commenti.

  1. Enzo

    Complimenti per la profondità e sensibilità dimostrate con le parole che esplorano un mondo nascosto,spesso volutamente!

  2. Walter

    Ringrazio per il testo. La sua lettura mi ha illuminato su aspetti che mai ero riuscito ad illuminare. Le parole curano sempre..

  3. Donata

    RINGRAZIO per questo testo illuminante, soprattutto per chi vive come me l’esperienza di narratore in entrambe le direzioni, da medico e malato. Ancora grazie

  4. NEIL NOVELLO

    Leggo colpevolmente in ritardo il suo commento. Ci tenevo a ringraziare io lei perché il suo punto di vista è enormemente più realistico, competente e autentico del mio. Buone cose, signora Donata. N.

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