L’ageismo: un tabù peggiore della morte?

AGEISMO è un inglesismo (in inglese: ageism) che indica la discriminazione nei confronti di una persona in base alla sua età, soprattutto nel caso in cui questa sia superiore a quella di chi parla; spesso è infatti tradotto come “discriminazione nei confronti degli anziani”.

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Lucian Freud, Reflection (Self-Portrait), 1985

Le radici etimologiche della vecchiaia

Nella mitologia greca, Geras (da qui le parole geriatria, gerontologia) era il dio della vecchiaia. Era raffigurato come un vecchio minuscolo e raggrinzito. L’opposto di Geras era Ebe, una bella ragazza, la dea della giovinezza. Ebe serviva nettare e ambrosia a tutti gli dei e le dee del Monte Olimpo. Geras, al contrario, non serviva nulla di dolce, ma, come primo significato, la paura di diventare fragile, vecchio e di morire.

Il suo equivalente romano era Senectus (da qui le parole senior e senatus). Così, se per i greci Geras era una metafora di disabilità (è spesso raffigurato mentre si appoggia a un bastone), per il pragmatico approccio latino, l’essere vecchio dava accesso alla saggezza e, di conseguenza, al potere politico nel Senatum.

Tuttavia, Geras non era considerato solo come una fonte di fragilità, ma come l’incarnazione nell’uomo della virtù: più gēras un uomo acquisiva, più kleos (fama) e arete (eccellenza e coraggio) si riteneva avesse.
Nella letteratura greca antica, la parola correlata géras (γέρας) può anche avere il significato di influenza, autorità o potere; in particolare quello derivante dalla fama, dal bell’aspetto e dalla forza rivendicata attraverso il successo in battaglia o in una gara. Un simile uso di questo significato si trova nell’Odissea di Omero, dove è evidente la preoccupazione dei vari re per le géras che trasmetteranno ai loro figli attraverso i loro nomi. La preoccupazione è significativa perché si ritiene che i re di quest’epoca (come Odisseo) abbiano governato per consenso comune, in riconoscimento della loro potente influenza, piuttosto che per via ereditaria.

La parola greca γῆρας (gĕras) significa letteralmente “vecchiaia”: lo status symbol dell’essere vecchio è riconosciuto dalla parola latina antianus che significa, più degli altri, più dignità, più storia: da qui le parole antico e anziano.

Per quanto riguarda la parola inglese, old deriva da ald (Anglian), eald (West Saxon, Kentish) “antico, di antica origine, appartenente all’antichità, primordiale; di lunga esistenza o uso; vicino alla fine della normale durata della vita; anziano, maturo, esperto”, dal proto-germanico *althaz “cresciuto, adulto”.

Ripercorrendo questa analisi si scopre che la cultura che ha dato più significati ambivalenti a questa parola, Geras, è quella greca: se da un lato l’anziano poteva essere uno status di saggezza, dall’altro poteva anche essere un regno di confusione, paura e oscurità, di fronte alla liminalità.

La soglia degli anziani oggi

Come si misura la percentuale di anziani? Ovviamente, dobbiamo prima definire il significato di “anziano”. Le Nazioni Unite definiscono le persone anziane come quelle di età pari o superiore ai 60 anni. In molte occasioni viene definito come 65+.

L’età di 65 anni è generalmente fissata come soglia della vecchiaia, poiché è in questo periodo della vita che i tassi di malattia e di morte iniziano a mostrare un marcato aumento rispetto a quelli degli anni precedenti.

https://www.un.org/en/development/desa/population/events/pdf/expert/29/session1/EGM_25Feb2019_S1_SergeiScherbov.pdf

Supponiamo che un uomo che vive in Europa occidentale stia per festeggiare il suo 60° compleanno. È vecchio? Oggi questa persona sarebbe considerata di mezza età e circa il 93% degli uomini sopravvive fino a quell’età. Circa 150 anni fa meno del 25% festeggiava il suo 60° compleanno. E in effetti, a quei tempi chi aveva 60 anni era considerato un vecchio.

La misura tradizionale dell’età è una misura retrospettiva. Ci dice quanti anni una persona ha già vissuto. Ma si tratta di una misura incompleta, perché non tiene conto dei cambiamenti nell’aspettativa di vita. Giovane e vecchio sono concetti relativi e il loro punto di riferimento comune è l’aspettativa di vita. Utilizzando il concetto di età prospettica, possiamo affermare che una persona che ha 60 anni oggi, può essere in qualche modo equivalente a una persona che aveva 43 anni nel 1850. Una persona che aveva 60 anni 150 anni fa, può assomigliare a una persona che ne ha 74 oggi.

In sostanza, abbiamo riconosciuto che le persone hanno due età diverse: un’età cronologica, definita anche “età retrospettiva”, cioè una misura di quanti anni una persona ha già vissuto. Chiunque abbia la stessa età ha vissuto lo stesso numero di anni. L’età prospettica, invece, riguarda il futuro. Chi ha la stessa età prospettica ha gli stessi anni di vita previsti. L’invecchiamento della popolazione sarà certamente la fonte di molte sfide nel 21° secolo. Ogni anno vissuto o atteso non è solo quantitativo ma anche qualitativo: se l’aspettativa di vita prima di Covid era in continuo aumento fino al 2019, è interessante valutare il modo in cui gli anziani hanno vissuto questi anni guadagnati: alcuni studi dimostrano che, sebbene la vita sia prolungata, la qualità degli ultimi anni potrebbe essere scarsa.

Gli investimenti pubblici e privati nella ricerca medica si concentrano principalmente sulla riduzione dei tassi di mortalità, piuttosto che sulla riduzione dell’invecchiamento e delle malattie legate all’età.

Anche in assenza di malattie e disabilità, le capacità umane – tra cui la memoria, la cognizione, la mobilità, la vista, l’udito, il gusto e la comunicazione – diminuiscono con l’età, per cui la qualità della vita di una persona con più di 90 anni è in media molto scarsa. Data la crescente prevalenza di malattie multiple, disabilità, demenze e disfunzioni in età avanzata, non è ovvio che estendere la durata della vita oltre i 90 anni sia un’impresa utile.

Living too long, The current focus of medical research on increasing the quantity, rather than the quality, of life is damaging our health and harming the economy, Guy C Brown, EMBO Reports (2015) 16: 137-14.

Lo so, forse siamo rimasti scioccati leggendo le righe precedenti, e qui abbiamo decisamente sconfinato nel concetto di ageismo, e più affrontiamo questo argomento più potremmo pensare a cosa serve la medicina narrativa. Si tratta di uscire non solo dal modello biomedico standardizzato ma anche dal cliché sociale, per arrivare al modello biologico, psicologico sociale ed esistenziale.

Un incontro con Rita Levi Montalcini

Nel 1999 ho conosciuto Rita Levi Montalcini, premio Nobel italiano per la medicina per le sue ricerche sul Nervous Growth Factor: aveva solo novant’anni e morì a 103 anni; nel 1999 le fu chiesto di tenere una conferenza sul “Futuro della sanità”. Attraversò la sala del congresso con il bastone e poi, senza slide ma con il “suo flusso di coscienza”, tenne un discorso libero di trenta minuti.

Il silenzio della platea è stato stupefacente: tutti erano affascinati dal suo carisma, dalle sue parole ispiratrici dedicate alla ricerca e ai professionisti della sanità: non si è mai persa nel discorso, è stata straordinaria. Beh, si potrebbe obiettare che aveva gli strumenti, era un premio Nobel. Credo che abbia accettato senza vergogna di camminare con il bastone, l’apparecchio acustico, gli occhiali, quindi il “corpo che invecchia”: tuttavia la sua anima e la sua mente erano così grandi, che era la prova vivente delle ragioni per cui ha vinto il premio, sulla neuroplasticità. È facile arrivare a questa età come la professoressa Rita Montalcini? Assolutamente no, ha richiesto una disciplina nello stile di vita, dall’alimentazione, alla cura di sé, al duro lavoro intellettuale quotidiano.

Queste righe sono dedicate a tutte le persone anziane che nonostante il corpo a pezzi, come ha dipinto Lucien Freud nei suoi ritratti, si esercitano ogni giorno, facendo ginnastica dolce, parole crociate, aiutando nipoti e pronipoti, scrivendo, tenendo conferenze, cucinando, pulendo… Le loro narrazioni sono importanti e testimoniano il desiderio di lasciare un’eredità, quando gli ultimi anni stanno svanendo.

E auspichiamo una società più inclusiva che includa questi anziani fragili e forti, poiché la morte non può diventare una soluzione migliore all’invecchiamento e al relativo lato oscuro, il razzismo da parte della comunità, l’ageismo.

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

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