Le Medical Humanities come prerequisito nelle Scuole di Medicina: una riflessione tra Stati Uniti e Canada

Medical Humanities
A Favorable Wind – Paul Bond

Nelle interviste ospitate sul nostro blog, spesso rivolgiamo una domanda relativa all’importanza dell’inserimento della Medicina Narrativa e delle Medical Humanities nella formazione medica. Come contributo a questa riflessione, proponiamo l’articolo “Medical Humanities courses becoming prerequisites in many medical schools” di Adrianna Banaszek, pubblicato sul Canadian Medical Association Journal (CMAJ). L’articolo presenta la tematica dell’inserimento delle Medical Humanities tra i prerequisiti richiesti all’interno delle Scuole di Medicina, e degli effetti che questo comporta sulla formazione dei giovani medici.

Con l’intento di colmare le lacune dei medici in fatto di empatia nei confronti dei pazienti (e spinti dagli studi che dimostrano che l’empatia in ambito clinico possa essere insegnata attraverso le Medical Humanities) negli Stati Uniti un crescente numero di Scuole di Medicina ha puntato sull’insegnamento delle Medical Humanities: già nel 2011, 69 delle 133 Scuole di Medicina prevedevano che gli studenti frequentassero almeno un corso relativo alle Medical Humanties durante il loro percorso di studi.

Irwin Braverman, professore emerito della Yale School of Medicine, sostiene che le capacità di osservazione degli studenti di medicina possano migliorare tramite l’osservazione delle opere d’arte. Per questo, Braverman ha istituito un programma chiamato “La relazione medico-paziente”, in cui gli studenti del primo anno vengono invitati a vedere delle opere d’arte, oggetti verso cui non si hanno pregiudizi, per sviluppare le proprie capacità di osservazione: come sostiene Braverman, “è l’esperienza cerebrale di guardare un oggetto sconosciuto e individuarne i dettagli”.

Nel 2003, la Mount Sinai School of Medicine di New York ha introdotto dei corsi di osservazione di opere d’arte, e ne ha fatto un requisito per gli studenti arrivati al terzo anno di studi. Oltre a migliorare le capacità di osservazione, il programma si è rivelato essere un vero e proprio beneficio per gli studenti: per David Muller, decano per l’educazione medica della Mount Sinai School of Medicine, è importante che gli studenti abbiano uno spazio per “evadere” dagli altri corsi, e che li aiuti a riflettere su quello che stanno facendo.

Dal Canada ci arriva l’esempio dell’Alberta University, dove gli studenti del primo anno frequentano un modulo di “Narrative Reflective Practice” che li porta a riflettere su alcuni film che presentano la professione medica come parte di un percorso di cura centrato sul paziente. Pamela Brett-MacLean, direttore dell’Arts and Humanities in Health and Medicine Program, sostiene che questo corso permette agli studenti di connettersi più pienamente e più profondamente con il senso dell’essere medico. Il corso non è definito “extra-curricolare”, ma “co-curricolare”, perché ogni cosa in cui gli studenti vengono coinvolti è pertinente alla loro educazione e al tipo di medico che vogliono diventare.

Spesso, nella formazione medica c’è così tanto da imparare, e la parte più prettamente “scientifica” è così preponderante che qualsiasi cosa sia riconducibile alla categoria dei “sentimenti” viene accantonata come non importante. Esempi come quelli sopra citati vanno nella direzione opposta: inserire degli strumenti per approfondire l’ascolto del paziente, l’empatia, un approccio più narrativo alla cura, permettono un rapporto migliore non solo con il paziente, ma anche nei confronti della stessa professione medica.

E anche una buona notizia dall’Italia: all’Humanitas University, a Milano, nella Facoltà di Medicina internazionale i cui iscritti sono giovani studenti che provengono da tutte le parti del mondo, è stato incluso un percorso obbligatorio per gli studenti fin dal primo anno intitolato “Being a medical doctor”: i temi esaminati  sono la Bioetica, la Medicina Narrativa, e le Medical Humanities. Questo significa che, fin dal primo anno, dopo la lezione obbligatoria di chimica organica prende scena il tema dei valori, della comunicazione e dell’approccio di cura non solo basato sulla malattia ma sulla persona. Finalmente una rivoluzione copernicana a lungo attesa all’interno dell’università.

Alessandra Fiorencis

Laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Specializzata nel campo dell’antropologia medica, ha condotto attività di formazione a docenti, ingegneri e medici operanti in contesti sia extra-europei che cosiddetti “multiculturali”. Ha partecipato a diversi seminari e conferenze, a livello nazionale e internazionale. Ha lavorato nel campo delle migrazioni e della child protection, focalizzandosi in particolare sulla documentazione delle torture e l’accesso alla protezione internazionale, svolgendo altresì attività di advocacy in ambito sanitario e di ricerca sull’accesso alle cure delle persone migranti irregolari affette da tubercolosi. Presso l’Area Sanità di Fondazione ISTUD si occupa di ricerca, scientific editing e medical writing.

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