La narrazione e le Medical Humanities negli studi sulle disabilità: una riflessione dal BMJ

Quali prospettive possono dare la narrazione e le Medical Humanities agli studi sulle disabilità? L’articolo Disability and narrative: new directions for medicine and the medical humanities di Rebecca Garden, pubblicato sul BMJ, ci offre una riflessione in merito.

Garden evidenzia come ciò che noi chiamiamo “disabilità” è stato storicamente definito esclusivamente dalla medicina, in particolare attraverso i processi di diagnosi e cura. Tuttavia, la medicalizzazione delle disabilità colloca queste condizioni e il loro superamento unicamente a livello dell’individuo e dell’interazione con il clinico: in questo quadro, le disabilità vengono identificate com un “attributo” della persona, a fronte di uno standard definito di “normalità” o “abilità”.

I movimenti che sono nati per il riconoscimento dei diritti delle disabilità – evolutisi in particolare negli anni Settanta nel Regno Unito e negli Stati Uniti, sotto la spinta di movimenti più ampi per i diritti civili e delle donne – hanno rifiutato questo “modello medico” delle disabilità proprio perché esso ignora delle componenti su cui puntano gli studi sulla disabilità: i fattori sociali, economici e politici che determinano la disabilità. La stessa definizione di “disabilità”, oggigiorno, include le componenti sociali: la disabilità è un complesso insieme di condizioni, molte delle quali sono create proprio dall’ambiente sociale. Riconoscere questa interazione, prosegue Garden, tra disabilità fisiologiche e fattori sociali è un primo passo fondamentale per affrontare anche le disparità di assistenza che le persone diversamente abili incontrano.

Che ruolo possono avere, dunque, la narrazione e le Medical Humanities nel riconoscimento delle disabilità?

Secondo Garden, le Medical Humanities ci permettono di contestualizzare il discorso biomedico, andando a illuminare il contesto sociale della malattia, della sofferenza e della disabilità. Qui, possiamo vedere le disuguaglianze strutturali che creano le condizioni per la disabilità: le discriminazioni che impediscono una partecipazione paritaria delle persone diversamente abili alla società.

Se le Medical Humanities ci aiutano a dare un contesto sociale alla disabilità, la narrazione è quello strumento che può entrare efficacemente nella formazione e nella pratica clinica. Attraverso la narrazione, i medici possono usufruire di un potente mezzo per indagare le esperienze delle persone con disabilità, e incorporarle nella loro pratica. Possono arrivare a comprendere, inoltre, il delicato equilibrio tra medicalizzazione e necessità di cura, forse uno dei punti più complessi della sfera delle disabilità; per esplicitare meglio questo concetto, Garden cita una riflessione dell’attivista Eli Clare:

My [cerebral palsy] is not a medical condition. I need no specific medical care, medication, or treatment for my CP. […] Some disabled people, depending on their disabilities, may indeed have pressing medical needs for a specific period of time or on an ongoing basis. But having particular medical needs differs from labelling a person with multiple sclerosis as sick, or thinking of quadriplegia as a disease.

Questo passaggio, sostiene Garden, può aiutare i medici a non etichettare le persone con disabilità e le loro necessità di cura unicamente in base alla loro condizione, per arrivare ad accogliere la consapevolezza e l’autodeterminazione di queste persone nella decisione dei trattamenti e nel percorso di cura.

Conclude Garden:

Medical humanities scholars who incorporate disability studies and disability rights perspectives into their work can help clinicians and others to improve medical care for disabled people and those who are chronically ill. The incorporation of disability studies perspectives can develop the theoretical foundations of the medical humanities by creating a critical framework for discussing the socio-economic forces that shape the individual accounts of disability and illness represented in narratives and other literary texts (including film, video and visual arts). Through this critical engagement with narratives, clinicians can better understand the perspectives of people with disabilities and shift the balance of power in the clinic. By seeing disabled people as authorities on how best to communicate and by accommodating physical and intellectual differences through more expansive approaches to communication and the environment, clinicians can begin to bridge the divide between biomedicine and disability studies/disability rights. They can work to become partners in care rather than gatekeepers of disabled people.

Alessandra Fiorencis

Laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Specializzata nel campo dell’antropologia medica, ha condotto attività di formazione a docenti, ingegneri e medici operanti in contesti sia extra-europei che cosiddetti “multiculturali”. Ha partecipato a diversi seminari e conferenze, a livello nazionale e internazionale. Ha lavorato nel campo delle migrazioni e della child protection, focalizzandosi in particolare sulla documentazione delle torture e l’accesso alla protezione internazionale, svolgendo altresì attività di advocacy in ambito sanitario e di ricerca sull’accesso alle cure delle persone migranti irregolari affette da tubercolosi. Presso l’Area Sanità di Fondazione ISTUD si occupa di ricerca, scientific editing e medical writing.

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