La Medicina Narrativa dal punto di vista di una Direzione Sanitaria: intervista a Marco Triulzi

Centro IRCCS S. Maria Nascente
Centro IRCCS “S. Maria Nascente”

Marco Triulzi è direttore sanitario del Centro IRCCS “S. Maria Nascente”, centro di cura e ricerca scientifica in cui convivono una pluralità di servizi alla persona rispondenti a esigenze sanitarie, educative, formative e assistenziali. 

MT. Ho qualche difficoltà a usare il termine “Medicina Narrativa”, così come tradotto dall’inglese, perché non mi convince: può essere fuorviante per chi non la conosce. Userei piuttosto il termine “narrazione curativa”, che in italiano induce minori fraintendimenti: indica una narrazione curativa sia nei confronti dell’assistito, ovviamente, e anche nel senso medico e qualitativo del personale di assistenza. Narrazione curativa è un termine più centrato: è importante non fraintendersi. Dopo aver frequentato il Master in Medicina Narrativa Applicata di Fondazione ISTUD, mi sono interrogato sui motivi per cui questa narrazione curativa, in Italia e in Sanità, fatica a diffondersi – nonostante non sia difficile, una volta compresi, coglierne gli effetti vantaggiosi sia per la persona assistita che per l’assistente sanitario. Una delle cause di questa situazione, secondo me, sta anzitutto nel fatto che si tratta di attività non inserite nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), quindi negli standard obbligatori e nelle scelte del legislatore nazionale nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale: davanti a una situazione generale che non consente “eccessi” rispetto al minimo da fornire per i costi, le spese, e così via, la tendenza per il pubblico e il privato accreditato è quella di discostarsi poco o niente da quanto previsto nei LEA. I controlli sono molto stringenti e frequenti, non solo in Lombardia: quindi, da una parte non si scende sotto queste misure prestazionali, dall’altra – per sopravvivenza economico-aziendale – sia il pubblico che il privato non si concedono nulla di più. E lo dico tristemente: non è una trascuratezza culturale ed etica, è una questione di sopravvivenza. Una mia riflessione è che, se si deve comunque poter produrre qualche sforzo, è dove l’effetto benefico della narrazione curativa può sembrare più remunerativo. Forse dico cose un po’ scontate per chi si occupa della questione: invece che insistere negli ospedali per acuti (anche per come sono fatti gli ospedali oggi, in cui la durata dei trattamenti è ridotta all’osso, e non solo in Italia), ci si potrebbe concentrare sui malati cronici, che per la durata della condizione e per la convivenza con essa, per il tipo di malattia, e così via, mi pare che possano trarne un maggior beneficio. Parliamo anche di disabili costituzionali o cronicizzati: le disabilità fisiche e psichiche gravi sono un’altra categoria, con altri problemi e che necessita di altri strumenti. Credo che questo possa interessare nell’ambiente ospedaliero e non, e anche al medico di base, che dovrebbe essere il primo curante nell’impianto del Servizio Sanitario Nazionale, la figura che più conosce l’assistito e il suo ambiente di vita, di famiglia, di lavoro. Si pensi anche alle RSA (Residenze Sanitarie per Anziani) o alle RSD (Residenze Sanitarie per Disabili), qui può essere particolarmente benefica e praticabile – o meno problematicamente praticabile – la cosiddetta Medicina Narrativa. A ogni età, tra l’altro. Vi sono delle straordinarie possibilità nel campo delle attività per la riabilitazione in cui potrebbe inserirsi la narrazione curativa: non possono essere massive, neanche nelle istituzioni di riabilitazione, ma possono essere qualificanti. Costano tempo, preparazione: e spesso si necessita di un qualche sponsor intelligente. Quando ci sono queste combinazioni, allora un istituto scientifico può cominciare con delle iniziative pilota, per verificare pragmaticamente se “il gioco vale la candela”, ed eventualmente se c’è un esito positivo. Dopo lo studio pilota si può configurare una sperimentazione quantitativa, analizzando vantaggi e costi-benefici. E quindi ci sono occasioni che – se un po’ sponsorizzate – possono diventare quelle in cui anche la Medicina Narrativa dà un apporto. I medici cominciano a curare le disfunzioni, le malattie, ma ovviamente anche il benessere conta. Quindi, si deve poter raggiungere anche quello che non viene pagato, perché non considerato una priorità in paesi non ricchissimi: trovando uno sponsor, o qualcuno che investe al di là del limitato Servizio Sanitario Nazionale, dimostrando i benefici della cosiddetta Medicina Narrativa.

D. Pensa che la Medicina Narrativa possa rappresentare un supporto alla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale?

MT. Può esserlo per quanto riguarda i malati cronici o i disabili cronicizzati (fisici o psicofisici limitati), ma per i traumi e le malattie acute rischia di essere ben difficile. Semmai evidenzio che, in una società in invecchiamento come quella italiana, si affaccia la possibilità che una considerevole fascia della popolazione possa beneficiare della narrazione curativa. In ogni caso è giusto, giustificato diffondere una cultura, una conoscenza precisa e solida della cosiddetta Medicina Narrativa: non si può però pretendere che questa travalichi le ragionevoli condizioni di applicabilità, altrimenti si fa danno.

D. Nella sua esperienza, ha mai impiegato strumenti quali le cartelle parallele?

MT. Le cartelle parallele nel senso tradizionale (infermieristiche) sono un fatto diffuso da anni, persino con pieno valore legale. Non si tratta di quelle della Medicina Narrativa – anzitutto, nel formare la cartella clinica, si deve porre attenzione al rigore tecnico e professionale e descrittivo di obiettività e azioni. Le cartelle cliniche sono anche documenti di fede pubblica, intoccabili e immodificabili, e servono a registrare la verità degli eventi. È prioritario e ineludibile raggiungere questo importante obiettivo per tutti, per la giustizia e per le cure. Gli scritti propri della “Medicina Narrativa” può essere improprio e rischioso che entrino a far parte dell’autentica “cartella clinica”. Pensi anche alla notifica degli eventi avversi, degli errori, per favorire la valutazione e la comunicazione a fin di bene: queste notifiche non sono la fonte di provvedimenti disciplinari o denunce. Questo non vuol direi che non si possa distintamente operare, registrare, fascicolare aspetti che attengono alla cosiddetta Medicina Narrativa. Li conserverei e custodirei nei casi in cui fossero previsti, ma li terrei distinti. Comunque, queste mie non sono riflessioni conclusive, ma prime riflessioni sull’attenzione che va posta a questi aspetti.

D. La Medicina Narrativa (o narrazione curativa) è importante per la formazione del medico, secondo lei?

MT. Qualsiasi contributo alla formazione più completa dei medici, e in generale del personale sanitario, sul rapporto tra le persone, sugli aspetti non solo biologici, è ineludibile, ma al momento è più o meno carente, e affidato all’iniziativa individuale. Ovviamente non mancano buoni esempi, ma non mi risulta ancora sia presente nell’ordinario corso degli studi medici. Non mi riferisco solo alla Medicina Narrativa, ma ad ogni attenzione autentica, raffinata, alla preparazione e alla collaborazione in una medicina complessa e di relazione come quella ospedaliera: sono aspetti importanti, perché non è possibile avere un tecnico valido ma incapace di inserirsi in una organizzazione aziendale complessa. Non tutti possono diventare autentici dirigenti, ma tutti i medici delle strutture complesse devono essere capaci di rapportarsi adeguatamente con gli altri. Questa non è la realtà assoluta, ci sono soggetti che – al di là delle capacità mediche – non sono adeguatamente inseribili e inseriti nel rapporto collaborativo: e questo non va bene né per l’individuo né per la collettività. Fin dagli studi, gli aspetti relazionali e di attenzione alla cura dei rapporti anche di natura più psicologica e culturale sono ineludibili, persino con colleghi e collaboratori, anzitutto per i medici e gli infermieri.

 

Alessandra Fiorencis

Laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Specializzata nel campo dell’antropologia medica, ha condotto attività di formazione a docenti, ingegneri e medici operanti in contesti sia extra-europei che cosiddetti “multiculturali”. Ha partecipato a diversi seminari e conferenze, a livello nazionale e internazionale. Ha lavorato nel campo delle migrazioni e della child protection, focalizzandosi in particolare sulla documentazione delle torture e l’accesso alla protezione internazionale, svolgendo altresì attività di advocacy in ambito sanitario e di ricerca sull’accesso alle cure delle persone migranti irregolari affette da tubercolosi. Presso l’Area Sanità di Fondazione ISTUD si occupa di ricerca, scientific editing e medical writing.

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