La Fede nella Scienza

Joan Miró, Il carnevale di Arlecchino, 1924-1925

“Lo dice la scienza” è una dichiarazione apodittica, che non lascia spazio ad alcuna interlocuzione che troppo spesso si sente negli attuali talk show, nelle notizie dei giornali, messe più a modelli di click baites nei titoli. 

Dietro questa verbalizzazione, l’assunto è che una cosa è vera perché “lo dice la scienza”. E questo ragionamento proviene da diversi medici responsabili anche delle nostre politiche sanitarie: ed è espresso come se noi fossimo chiamati ad un atto di Fede, dato che una verità dimostrata dalla scienza, diventa indissolubile, inconfutabile, circondata da un alone di eternità. Non desidero entrare in merito alle questioni che hanno recentemente diviso il Paese, in cui questa accezione di “scienza” si è acuita contro il più becero negazionismo, ma rispetto al metodo scientifico del XIX secolo, che poggia proprio sulla messa in discussione dell’affermazione “Sicut scientia locutus est, “così parlò la scienza”, riprendendo la lingua latina, parlando di scienza in modo ecclesiastico. Se lo dice la scienza, facciamo attenzione, non è solo una verità, ma è una verità certa. 

Ripassiamo un poco di filosofia della scienza degli ultimi secoli, che non significa entrare in un mondo astratto di parole avulse dal metodo, ma che anzi si insinuano nel metodo: il positivismo poggia sul metodo Galileiano, e ci porta con grande slancio verso “le magnifiche sorti e progressive”, una volta formulata un’ipotesi e verificata quest’ipotesi, la tesi scientifica è valida. Il filosofo Hume nel XVIII secolo entra a confutare proprio questa ventata di positivismo, inserendo il concetto di probabilità:  ricordiamo di Hume? È il filosofo che porta inquietudine, e come dirà poi Kant di lui è quello che “lo ha risvegliato dal sonno dogmatico”: infatti David Hume offre soltanto buone probabilità che domani il sole potrà sorgere sulla terra, ma alcuna certezza. E infatti, anche se non vogliamo pensarci troppo, chissà cosa potrebbe accadere all’intero del nostro microcosmo del sistema solare. Nel film che fa tanto discutere oggi “Don’t look up, il sole continuerà a sorgere, ma noi esseri umani non si saremo più, nemmeno a porci il problema. Comunque Hume ci indica anche una piccola via di uscita: è ragionevole dubitare, ma dubitare incondizionatamente non ci farebbe più alzare dal letto la mattina, con o senza sole attorno alla terra. 

La scienza delle certezze si era presa negli anni ’30 del secolo scorso un bello “scossone” quando Heisenberg con il suo principio di Indeterminazione affermò che non può esistere oggettività, ma che nel momento stesso in cui stiamo sperimentando, ecco che noi diventiamo parte dell’universo partecipatorio e quindi, fatalmente cambiamo le sorti dell’esperimento. Interferiamo. 

Questione non banale perché siamo chiamati in causa anche con la nostra soggettività di scelta di cosa vogliamo studiare e osservare, e quindi, aprendo altre porte a queste righe, quale ricerca vogliamo finanziare: nuovi vaccini? Nuova medicina di precisione genetica per capire come mai ci sono persone che non si infettano di COVID-19 pur stando a continuo contatto con persone positive? Nuove cure per l’Alzheimer oggi ancora purtroppo inesistenti?

Per non aprire il capitolo delle nuove forme di energia, rimaniamo sui vaccini. Sì, sono fondamentali e efficaci, nella seconda fase della pandemia l’unica strada d’uscita, ma da soli sono e saranno sufficienti? L’Alzheimer, purtroppo non ha cura veramente efficace, ma il tema da porsi si amplia, perché finanziamenti cospicui non andranno verso la perdita della memoria, ma come già sta accadendo verso la Omicron che sarà soppiantata da una nuova variabile – probabilmente. Forse perché il cervello degli anziani non interessa più così tanto? Anche questa è pura soggettività umana, oltre che interessi di collettività, la direzione che la ricerca scientifica prende.

Torniamo al metodo scientifico in senso stretto: Karl Popper “il grande predicatore scientifico” del secolo scorso, insisteva che una cosa può essere vera dal punto di vista scientifica, fino a che non sia falsificata: secondo la legge si direbbe “fino a prova contraria”. Ovvero in “dubio pro reo”, dal diritto romano: meglio un colpevole fuori che un innocente dentro. Con questa analogia, Popper ci dice che è meglio pensare di essere colpevoli, e quindi di avere delle distorsioni cognitive da scienziati, per non fare emergere teorie che amiamo e che desideriamo siano vere ma pensate in modo errato, quindi di non fare girare false conoscenze a priori. E la conoscenza procede per falsificazione, ovvero presupponendo che non sia vero quello che stiamo cercando, in modo da interferire il meno possibile con l’esperimento.

Per Popper infatti esiste un metodo rigoroso e preciso, volto a contenere le distorsioni cognitive (tra cui potentissimo il bias di autoaffermazione, la volontà di avere ragione) che desiderano che quell’esperimento termini per come ce lo attendiamo, positivo, andato a buon fine. È un metodo che si basa sull’ipotesi nulla, ad esempio che non vi sia differenza alcuna tra due strade terapeutiche, per poi capire quale delle due funziona e l’altra no. Con probabilità e mai dando certezze. Popper non avrebbe mai e detto “lo dice la scienza”, ma si sarebbe espresso dicendo, con verosimiglianza questo farmaco funziona in una certa percentuale di popolazione, fino a prova contraria, fino a nuove scoperte.

Datemi la licenza di introdurre il filosofo austriaco Paul Feyerabend, allievo di Popper, che scrive un saggio con Imre Lakatos intitolato Sull’orlo della scienza. Pro e contro il metodo. Purtroppo Lakatos scomparve prematuramente, ma i due aprirono un dialogo socratico, sostenendo le tesi pro (Lakatos) e contro (Feyerabend) il metodo, per arrivare a una meravigliosa sinergia finale, dove coesistono la rigidità metodologica e l’anarchia – come la chiama Feyerabend – dell’essere scienziato. 

Se non ci fosse stata libertà, anarchia, ancora saremmo a credere per gli antichi dogmi, nel geocentrismo, non avremmo scoperto la terapia della relatività, e il mondo sarebbe quello descritto da Dante nel cielo delle stelle fisse. Proprio sulla rivoluzione copernicana Feyerabend fa crollare il metodo.  

Il paradigma culturale e scientifico cambia a una velocità lenta: gli innovatori esistono, e sono quelli che provano vie alternative mai precedentemente battute oppure fanno associazioni attraverso l’osservazione dei fenomeni che vedono con occhi nuovi, attraverso il principio di serendipità, le scoperte accidentali, che altro non sono che una straordinaria creatività associativa, come la scoperta celebre di Fleming della Penicillina o altrettanto celebre, di Colombo che scopre l’America per caso, convinto di aver circumnavigato la terra e essere arrivato nelle Indie.

La realtà è molto complessa, e desidero sottolineare che queste scoperte hanno una certa verosimiglianza (in inglese likelihood – somiglianza, perfino togliendo il rafforzamento della parola vero) e non garantiscono cose certe ma probabili oggi. Feyerabend afferma che il nostro cervello non deve essere imbrigliato nei riti metodologici della ricerca, perché troppo rigidi sono i condizionamenti, ma invece è proprio nel caos massimo, dove abbiamo tutti i gradi di libertà, che vi è lo spazio e il tempo dove possiamo creare. E continua nel suo saggio Feyerabend a verificare il ruolo che ha assunto la scienza nella società occidentale: la scienza diventata un’ideologia repressiva, sebbene avesse cominciato come un movimento di liberazione e il filosofo pensava che la società si dovesse proteggere da un’eccessiva influenza della scienza, così come si protegge da altre ideologie.

Partendo dal presupposto che non esiste un metodo scientifico universale astorico, Feyerabend dedusse che la scienza non merita il suo ruolo privilegiato nella società occidentale, poiché i punti di vista scientifici non nascono dall’uso di un metodo universale che garantisca conclusioni sempre di alta qualità, o eticità. Di fatto fu uno dei primi a denunciare che la scienza era diventata un’ideologia, una fede. 

Per percorrere altre vie, lancio una provocazione – si fa sempre questa equazione mentale – virus = vaccino come antidoto, ma esistono altre strade possibili ci stiamo precludendo? Le cure, capire come i virus si comportano e comprendere se c’è altro oltre la scoperta vaccinale del genio Edward Jenner che ne aveva fatto la scoperta, seguito poi a decenni di distanza da Luis Pasteur. Non possiamo anticipare il futuro ma citare un esempio passato:  per l’ulcera gastrica, la cura un tempo era la gastro resezione chirurgica perché non esistevano farmaci, poi sono arrivati gli antistaminici, poi i farmaci inibitori della pompa protonica, e poi è stato scoperto che l’Helicobacter  pylori, un batterio, è la causa dell’ulcera stessa, grazie agli studi di Barry Marshall e Robin Warren, intorno alla fine del XX secolo, e per questa scoperta ricevettero il premio Nobel nel 2005. Le terapie si sono susseguite, prima l’antibiotico, e oggi l’assunzione di probiotici per eradicare l’Helicobacter pylori.  E quindi il nuovo paradigma terapeutico era impensabile ai tempi in cui erano i chirurghi a dover intervenire: la scienza diceva alcune cose, oggi ne dice altre. 

Il metodo, il metro di misura serve ed è uno strumento fondamentale e non possiamo dare permesso ai negazionisti di invalidarne l’utilità, sappiamo e, desidero sottolinearlo, che i vaccini funzionano (sarò sempre grata alla vaccinazione per il Covid-19, ricordando la prima dose ricevuta con una commozione straordinaria), ma da soli non bastano. Ricordando che esistono purtroppo anche le tante malattie di cui non si ha né una diagnosi né una cura.

Churchill afferma “È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora.” Questa ironia si può sposare con la scienza di Popper e il suo metodo, sapendo che è estremamente migliorabile, lasciando spazio alla creatività, sganciandosi dalla ricerca solo a breve termine e finalizzata all’utile immediato, perché troppo intrisa di protocolli, e diventando più libera dall’urlo dell’inquisitore della fede che nel talk show televisivo ripete come una litania “lo dice la scienza”.

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

Questo articolo ha un commento

  1. Pietro Ragni

    Articolo bellissimo, che condivido in pieno e da cui ho appreso molto e diversi spunti di approfondimento.
    Tra i riferimenti possibili a motivazione della tesi esposta, credo si possa inserire anche il secondo teorema di Godel, così formulato: Nessun sistema, che sia abbastanza coerente ed espressivo da contenere l’aritmetica, può essere utilizzato per dimostrare la sua stessa coerenza”. Occorre sempre avere un riferimento esterno a quello della ricerca, anche se si applicano i criteri EBM nella lettura dei risultati. E la lettura dell’articolo -ripeto: bellissimo, e che userò nelle mie relazioni sulla sicurezza delle cure – mi ha ulteriormente confermato nell’applicazione di questo teorema anche nella lettura della letteratura scientifica. Grazie, di tutto il vostro lavoro

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