L’umanizzazione e la casa cosmica

Shawn Marie Hardy / Collage-a-Dada Surreal, Dreamscapes and Cosmic Art, Singing the Body Electric, www.shawnmariehardy.com

Parlando di Umanizzazione, possiamo osservare le parole-chiave per definire la realizzazione dell’Humanitas, e di contro quelle per definire la disumanizzazione:

Umanizzazione

Interiorità
Attività
Unicità
Insieme
Acquisizione di senso
Viaggio Personale
Senso del luogo
Incarnazione

Disumanizzazione

Reificazione
Passività
Omogenizzazione
Isolamento
Perdita di senso
Perdita del viaggio
Dislocazione
Corpo

Se consideriamo i pilastri su cui si fonda la disumanizzazione, notiamo la reificazione della persona, il metterla in condizioni di non poter dire né fare nulla, la standardizzazione, l’isolamento, la gestione del mero corpo e la dislocazione delle proprie abitudini. Sul senso, acquisito o perso, ragioneremo in seguito.

Chiaramente, siamo di fronte a un paradosso: parlare di umanizzazione delle cure ai tempi del COVID-19, con un terzo della popolazione mondiale in isolamento, è mentalmente faticoso, perché richiede una creatività notevole. Abbiamo a disposizione tecnologie straordinarie, ma a noi, in smart o remote working dal 22 febbraio, dire che la rete è la panacea per i contatti umani sembra un enorme azzardo, oltre che una grande falsità: continuiamo a vederci sui social come proiezioni di noi stessi, dove la voce deve sopperire al contatto del corpo. Sparisce il linguaggio del corpo, sparisce la prossemica della comunicazione: rimane la voce a colmare una distanza terra-luna, anche se si vive a duecento metri di distanza. Tante le afonie in questo periodo (non ancora sufficientemente registrate) – la malattia tipica delle persone che lavorano nei call center, coloro che usano solo la voce.

Reificazione e corpi: vediamo, purtroppo, come i corpi dei malati e dei morti siano ridotti a numeri, a posti letto in terapia intensiva e sub-intensiva. Ossessionati dall’omogeneizzare, tentiamo di costruire classificazioni che vanno a discapito dell’unicità di ogni singola persona: chi è morto aveva un nome e un cognome, una vita, un sistema di pensiero, di valori, un’eredità che ha lasciato ai suoi cari e a noi in modo brusco. Saremo noi che, come Sherlock Holmes, andremo all’indietro per capire le vite di chi non c’è più: non solo le vite dei medici che si sono sacrificati, ma anche quelle biografie semplici, quelle vite ordinarie, familiari, di un microcosmo lontano dai riflettori. Questa sarà la nostra prima prova di umanità, di ricerca di senso; e non solo verso noi stessi, reclusi e felicemente obbedienti, coscienti che stiamo salvando vite umane (i dati dell’Imperial College dicono che a oggi abbiamo potenzialmente salvato, con le nostre ahimè tardive misure di prevenzione almeno 35.000 vite, ma si stima che in Italia avrebbero potuto essere anche 100.000).

Il senso lo recuperiamo, seppur sradicati dalle abitudini di tutti i giorni, proprio nell’obiettivo di “insieme” che si sta dando un terzo della popolazione mondiale della terra: è un insieme “cosmico”, mai visto; persone che per salvare gli altri, e non solo sé stesse, si chiudono in casa, fanno la spesa in modo consapevole. Chi ha comprato la farina è stato preso in giro: chi fa il pane in casa, sa che dura di più di quella “commodity” che si compra quotidianamente in panetteria; dura di più, per cui non c’è una valida scusa per uscire. Il senso acquisito del bene collettivo è cosmico, rispetto ai nostri piccoli ego, che poco hanno a che fare con la nostra unicità. Essere egoista significa uscire, come è accaduto, da positivo, senza sciarpa o mascherina: e uso la parola egoista come eufemismo. Essere unico, invece, significa saper creare una ritualità nelle ore passate a casa, anche nei pochi metri quadri, per prenderci cura di noi stessi, cucendo – anche se poi non le useremo – le nostre mascherine, in attesa che le farmacie facciano rifornimento; scrivendo e parlando con gli amici e con le persone che prima si liquidavano con la frase “Scusa, non ho tempo”. Il viaggio è dentro: quanto siamo cambiati dal 22 febbraio? Quanto sono cambiate le nostre priorità di vita? Quanto è passata la nostra rabbia per il sacrificio dei nostri viaggi non fatti, dei caffè non bevuti? Se non è cambiata affatto, allora vuol dire che siamo proprio testardi, e ha ragione Yuval Harari quando dice che siamo Homo Sapiens, ma anche Homo Tontus – mia invenzione – perché non siamo capaci di far fronte ai cambiamenti. Possiamo provare a essere unici e a ritrovare il senso tornando a essere cacciatori e raccoglitori, quando il nostro cervello era più sviluppato che non a essere agricoltori e pastori? Cacciatori, per gioco, in casa: cosa succederà oggi? Cosa vedrò che fino ad oggi non avevo mai notato? Raccoglitori: come farò uso dei messaggi, della spesa, delle idee, dei pensieri? Diventiamo agenti attivi, e non aspettiamo che il pranzo ci venga servito. Prepariamo la lezione, e ci cimentiamo con Zoom, senza aspettare l’aiuto della divinità, l’informatico che ci risolveva i problemi.

Ho letto post – che, personalmente, ritengo assurdi – di persone che a casa si annoiano: è possibile non annoiarsi, se riusciamo anche a trovare spazio per muoverci un po’. E a chi insiste dicendo che siamo agli arresti domiciliari, consiglio la visione di Invictus di Clint Eastwood, film che racconta la vita di Nelson Mandela. Durante i 27 anni di detenzione, Mandela lesse molti testi, poemi, poesie liriche, libri in lingua afrikaner e inglese – lingua che nel corso della detenzione imparò a perfezione, conoscendo grammatica e parlato del gergo comune.

Gli fu faro questa poesia, composta da William Ernest Henley, nel suo Book of Verses:

Dal profondo della notte che mi avvolge,
Nera come un pozzo che va da un polo all’altro,
Ringrazio gli dei qualunque essi siano
Per la mia indomabile anima.

Nella stretta morsa delle avversità
Non mi sono tirato indietro né ho gridato.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma indomito.
Oltre questo luogo di collera e lacrime
Incombe solo l’orrore delle ombre.
Eppure la minaccia degli anni
Mi trova, e mi troverà, senza paura.
Non importa quanto stretto sia il passaggio,
Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.

La cella di Nelson Mandela era di sei metri quadrati.

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

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