Come stanno i nostri giovani? Doomers, prevenzione e narrazione – Intervista a Claudio Mencacci

Claudio Mencacci è medico psichiatra, Presidente della Società Italiana di Neuropsicofarmacologia,Past President della Società Italiana di Psichiatria e Presidente Comitato Tecnico Scientifico Fondazione Onda, è da sempre impegnato  nella ricerca e nella cura delle principali patologie mentali: ansia, depressione, disturbi panici e disturbi bipolari.
Da sempre dedica il suo impegno ai problemi di ansia, depressione, disturbi del sonno e disturbi bipolari in particolare riferiti al genere femminile nelle fasce di età di maggiore vulnerabilità.
Ha fondato nel 2001 il centro Ansia e depressione presso l’A.O. Fatebenefratelli di Milano e nel 2004 il Centro psiche donna presso il P.O. Macedonio Melloni di Milano, il primo centro in Italia per la prevenzione e la cura della depressione in gravidanza, nel post partum e nel climaterio.

(da https://www.claudiomencacci.it/curriculum/)

Molti ragazzi di oggi non si definiscono “millennials”, ma “doomers”. L’espressione si riferisce all’incombere di un destino tragico (crisi 2009, smantellamento welfare, surriscaldamento globale, due anni di pandemia e ora guerra) per ragazzi che, al di là dei possibili dolori esistenziali dei giovani, si trovano spaventati dall’ereditare un mondo difficilissimo. Questa narrazione di “doomer” sta girando tra i giovani, che vi si riconoscono. Professor Mencacci, come stanno i nostri giovani in Italia e in altre parti del mondo?

Che i giovani non stanno bene lo sappiamo da tempo. Già, negli ultimi 10 anni, dal 2010 a inizio 2020, erano cresciuti gli indici di sofferenza psichica e in particolare i disturbi depressivi nella fascia che andava dai 12 ai 17 e dai 17 ai 24. L’arrivo della pandemia ha ulteriormente aggravato questa condizione tanto da raggiungere il dato pubblicato da UNICEF pochi mesi che un adolescente su sette ha un disturbo mentale. L’altro dato che si è aggiunto, pubblicato su JAMA nel novembre dello scorso anno, è che un adolescente su quattro ha sintomi clinici di depressione e uno su cinque di ansia. Questi dati fanno comprendere come i giovani abbiano validi motivi per sentirsi “doomers”, essendo anche uno dei tre clusters, insieme alle donne e agli anziani, che sono risultati maggiormente esposti alla condizione pandemica, ma anche alle altre che si stanno man mano accumulando. 

Oltre che di “doomers” dovremmo parlar anche di “waterboarding”. Vi è, infatti, una sensazione diffusa di soffocamento e annegamento. L’impatto più pesante l’ha avuto la condizione isolamento e solitudine in cui i giovani si sono trovati con la la riduzione degli spazi di socializzazione, e la conseguente alterazione di quei passaggi d’età, anche rituali, che fanno parte del momento di transizione dall’infanzia e all’adolescenza.

Ci troviamo adesso nella condizione di vedere alcune punte, ma sappiamo anche di essere seduti su un fiume carsico in cui scorre la sofferenza di questi anni di immersione nella paura, in una condizione di iper-allerta, di vigilanza, di isolamento sociale, di ridotta attività fisica, di solitudine, di uso eccessivo di internet, di deprivazione di sonno, di condizioni legate all’aggressività, di esposizione al cyber bullismo e al disagio famigliare, di crescita dei disturbi del comportamento alimentare. Insomma, un elenco lunghissimo.

Si tratta di un’esposizione alla sofferenza di cui dobbiamo rapidamente farci carico per ridurne l’impatto negativo. Sappiamo quanto l’instaurarsi di una condizione depressiva possa portare a conseguenze nel procedere nella vita adulta, nel campo professionale, relazionale, affettivo, famigliare. Mi riferisco soprattutto a quella condizione di depressione che rimane sotto soglia, che si manifesta come demotivazione e che non viene presa con sufficiente attenzione, ma che nel tempo si declina comportando una condizione di non realizzazione delle proprie capacità e competenze e una ripercussione su anche buona parte della propri esistenza. 

Tutte queste considerazioni ci fanno comprendere come proprio gli adolescenti che sono stati in mezzo alla paura, all’iper-vigilanza, all’iper-allerta, siano ancor più esposti al tema dell’incertezza. Il nostro cervello vuole svolgere un’azione di elaborazione predittiva ed è progettato per risolvere i problemi di fondo e ridurre al minimo le sorprese. I giovani si trovano già con poche informazioni su come tracciare il futuro. Con la pandemia si è aggiunta la continua modificazione dei contesti. Ne risulta che l’incertezza è sempre più intensa, ma è una sensazione che dobbiamo imparare a conoscere e gestire meglio, anche se non è semplice affrontarla in un ambiente così instabile. Il tema delle certezze è veramente un tema fondamentale. Gli adolescenti si sentono incerti, più che mai adesso che questa condizione di volatilità è molto più complessa perché non riusciamo a imparare, a colpire bene un bersaglio che continua a cambiare. 

Molti ragazzi in questi due anni (che proseguono e non si sono conclusi) prima si sono rallentati durante il primo lock-down, che è stato come una sosta dove le persone ancora cantavano sui balconi e c’era l’aura dell’esperienza nuova, ma poi è subentrato un progressivo disaffezionamento alla scuola per tutte quelle modificazioni che si sono instaurate nelle relazioni affettive, sociali, nei parametri dello spazio e del tempo, delle amicizie, dei sensi (abolizione del tatto). Si è così giunti fino alla demotivazione: ragazzi che non vogliono più andare a scuola, perché la scuola non rappresenta più un punto di interesse, di attrazione. La scuola non è più la scuola delle relazioni degli affetti, insomma la vera scuola. 

La DAD ha lasciato i segni profondi nella capacità di attenzione e concentrazione: prima hanno imparato a copiare, poi a essere meno curiosi e a non studiare e per ultimo ad essere non motivati. È un passaggio dove si sono persi molti studenti che adesso si fa fatica a recuperare. È venuta meno quella sorta di familiarità, giocosità e libertà dello stare insieme agli altri e più si sta lontani dalla scuola più aumentano anche le difficoltà di stare con ai propri compagni. Tutto diventa più difficile, più esposto alle critiche e giudizio perchè non si sono creati legami.

Cosa possiamo fare per aiutare i giovani nell’alleviare questo senso di sconforto, questo destino tragico, magari non usando troppe etichette medicalizzanti e parlare subito di malattia mentale come una specie di automatismo che molto spesso rileviamo nei media?

Da un lato è importatene vigilare sulla salute mentale e affrontarla su un suo cardine che è la prevenzione. Io spero che prima o poi si potranno fare degli screening per chi è più esposto a disturbi depressivi – come si fanno screening per le patologie metaboliche o cardiologiche, andrebbero fatti anche nell’area della salute mentale. Si è visto che lo screening non tanto medicalizzi, ma piuttosto aiuti ad individuare situazioni che vanno un po’ monitorate, bisogna saper chi è più a rischio. Essere a rischio non vuol dire essere medicalizzati, ma prestare attenzione a situazioni, a stimolare tutti quelli che sono fattori protettivi ambientali che possiamo gestire – attività fisica, stimolo nella vita sociale e relazionale, quello legato all’alimentazione, piuttosto che le attenzioni dovute ai due lupi sempre presenti che si chiamano abuso d’alcool e sostanze stupefacenti. Bisogna quindi avere qualche strumento per sapere andare oltre a queste strettoie, a questi scogli che inevitabilmente si pongono. Sopra tutto questo ci sono poi ovviamente condizioni che sono fuori dalla nostra gestione o controllo – le interazioni famigliari, la presenza di altri motivi di sofferenza, piuttosto che la famigliarità nello sviluppare psicopatologie. 

Per vigilare non possiamo fare a meno dei genitori (anche loro devono imparare a vigilare sulla salute mentale dei figli, oltre che sulla loro). C’è il tema di necessarie reti collaborative – inseganti, volontari delle comunità, pediatri, pedagoghi: abbiamo bisogno di loro per dare risposte agli adolescenti e per costruire una rete sulla quale loro possano trovare punti di appoggio per andare oltre. Questo è un periodo di incredibile vulnerabilità ed è determinato da un punto di vista evolutivo e dalla biologia: è il momento in cui il rischio di diventare dipendente da sostanze o da comportamenti è tre volte maggiori che per il resto della vita. È perché l’evoluzione del nostro sistema nervoso centrale è così orientata e proprio per questo si tratta di una fase che va orientata e supportata. 

Io dico sempre che alla scuola quello che manca è l’educazione all’affettività che è rispetto dell’altro della sua dignità, rispetto dei sentimenti, ma anche imparare a coltivare la gentilezza insieme all’empatia. 

Recentemente accompagnavo uno spettacolo di balletti dedicato alla depressione e c’era un motto che aleggiava su tutto “la vita è speciale, non possiamo sprecarla e dobbiamo viverla come se fosse il nostro spettacolo migliore”. Io ho trovato che questa, una delle tante espressioni, l’ho trovata anche gioiosa e propositiva. Il tema di questo fiume carsico che ci sta passando sotto è proprio quello. Adesso è andato tanto di moda il concetto di ‘languishing’, del languire, del sentirsi spenti, del senso di stagnazione, di demotivazione, quella condizione dove non solo non si può parlare di depressione, di rassegnazione, di indolenza. Ma con questi ingredienti non faremo mai uno spettacolo.

Una condizione di demoralizzazione, di languishing, piuttosto che di tristezza è un segnale da vigilare perché invece non si trasformi in una condizione di depressione con tutte le conseguenze che questa porta con sé perché questa poi si diffonde e proietta sulla restante parte di vita in un momento in cui invece è cruciale fare delle scelte e prendere degli orientamenti.

Come la narrazione per la salute può servire nell’alleggerire questo senso di ineluttabilità e riportare speranze e creare Narrazioni di Uscita?

Imparare a narrare la propria storia vuol dire mettere dento le emozioni, i sentimenti, i colori, ma anche cominciare ad avere un senso del continuum. Le storie molto spesso iniziano con “c’era un volta…” e ovviamente questo ha dei tempi molti diversi – pochi anni fa o tanti anni fa, ma c’era sempre un punto in cui le cose iniziano. Prendere in mano la propria storia e di riuscire a scriverla è uno dei sentimenti più profondi che dà e ci dà significato alle vicende che via via ci accadono. 

Abbiamo così anche la possibilità di vedere che c’è un filo conduttore, che non sempre lo vediamo: è un po’ come quei gomitoli un po’ aggrovigliati che ci sembrano così complicati, ma c’è sempre un filo conduttore. E quando comprendiamo bene qual è il filo conduttore che lega i nostri accadimenti, che lega le nostre scelte, quello che ci porta a costruire via via il nostro presente e mette le basi del nostro futuro, abbiamo la nostra storia di uscita e diventa una storia in cui si impara a rialzarsi. Quando ci sono momenti di frattura o di rottura, è sempre bene pensare che ci si può ricostruire con la narrazione, un po’ come la tecnica del kintsugi: rimettendo insieme le parti rotte e ridisegnandole, riconnettendole tra di loro con dei filamenti d’oro e rendere ciò che ci è accaduto per quanto apparentemente frammentario una nuova opportunità. In fondo la richiesta che ci viene fatta è imparare a riparare e nel riparare imparare a fare ancora meglio di quello che c’era prima. 

La narrazione potrebbe essere anche intesa come una sorta di “patente per la vita”, con la quale noi cominciamo anche a saper guidare. È un’immagine che mi ha sempre aiutata: se mi sento al volente della mia vita, spero di poter condurre la macchina là dove vorrei o perlomeno nella direzione che vorrei. Quindi, saper cogliere questo aspetto del rimettere insieme i pezzi e imparare a vederli tutti insieme comprendere la direzione che si è presa e nel frattempo imparare a guidare, ossia a stare attenti e ultizzare al meglio le proprie risorse, le proprie capacità alla propria velocità. E poi qualcuno aggiunge con l’accompagnatore o accompagnatrice che si sceglie, e nulla osta che si può prendere anche un pulmino!

Questa sua ultima metafora della guida mi ricorda quanto ci ha detto Peter Hagoort qualche mese fa. Parlavamo allora di metafore come strumenti utili ad esprimere alcuni nodi del nostro vissuto e lui proponeva la metafora del pilotare un areo…

Esattamente. La metafora della guida è dove la narrazione crea quella giusta miscela dove ci sono acquisizione, competenza, esperienza, controllo, tenuta conto dell’ambiente, degli altri, delle direzioni, dei tempi. C’è un grande condensamento di insieme che ci aiuta a cogliere con poche parole – guida, volante – la complessità delle scelte. 

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