Salute: quello che può insegnarci Dante e dove trovarlo – intervista al professor Marco Veglia

Salvator Dalì

Marco Veglia è professore Associato del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica, Università di Bologna. I suoi interessi scientifici si concentrano prevalentemente su Dante, Boccaccio, Carducci, Pascoli e Bacchelli. È Direttore del Centro Medical Humanities della medesima università e presidente dell’Associazione culturale La Specola di Bologna.


Lei insegna Letteratura Medievale presso l’Università di Bologna, anche se i suoi interessi si ampliano fino a Pascoli e Carducci, ma è anche e direttore del Centro Medical Humanities della medesima università: come (e perché) queste due sue sfere di interesse collimano e coesistono?

I miei interessi si estendono a Carducci, Pascoli e Bacchelli. Tutti legati a Bologna. Non ho mai studiato un autore contemporaneo che non fosse avvinto alla mia città, che non è un agglomerato urbano, ma, come Thomas Mann diceva di Lubecca, “una forma di vita spirituale”. E in questa direzione ho studiato Augusto Murri e Bartolo Nigrisoli (con l’eccezione di Bacchelli, tutti questi autori sono stati professori dell’Alma Mater Studiorum). Fu con Murri e Nigrisoli che, sia pure in prospettiva storica, mi avvicinai a un’area nella quale la “parola che cura” (che cura o consola i mali dell’uomo e della storia) s’intreccia alla “cura che parla”, a un’arte clinica nella quale la componente “umanologica” (per dirla con l’amico Giorgio Cosmacini, che è il maggior storico della medicina italiana) è essenziale e va umanisticamente educata, se non altro per comprendere quel soggetto ferito che è il paziente. Carducci aveva il padre medico, Pascoli era fortemente legato a Murri, il padre di Bacchelli fece edificare l’Istituto Ortopedico Rizzoli. Era destino che mi dovessi occupare di MH, ma con un approccio diverso da altri centri universitari. A me interessa il contributo che una moltitudine di discipline, che rientrano nell’arco ibrido delle MH, possono offrire alla salute, che non è il contrario della malattia, ma uno stato di equilibrio con la “natura del tutto”, sin dal Fedro di Platone, come sapeva Hans Georg Gadamer. 

Parlando in particolare di Dante, cosa si incontra di interessante nella Commedia per i Medical Humanities?

Innanzitutto, dovremmo intenderci – e non è affatto agevole – sulla definizione di Medical Humanities. Se, come io credo, questo approccio si impegna a contribuire alla comprensione della “salute”, che non è il contrario della malattia, allora Dante ci viene subito in soccorso. Salute e salvezza, nel linguaggio antico, coincidono (scopo di Beatrice è restituire a Dante una “salute” diciamo così “integrale”, secondo Purg. XXX 137: una salute-salvezza che si ottiene a partire dall’Eden, dal luogo cioè della originaria innocenza, laddove morte, colpa e malattia non avevano ancora infranto il patto dell’uomo con Dio; l’ascesa verso la “candida rosa” presuppone un corpo “nato a salire”, una carne restituita alla sua dignità iniziale e per ciò stesso capace di un’impresa inaudita). L’individuo sofferente chiede di essere compreso nella sua totalità complessa, si attende di essere interpretato. In uno stato di salute o, diremmo oggi, di benessere, il corpo è silente. Tace. Quando, per malattia, per malinconia, ma pure per gioia, ci discostiamo dalla norma, ci accorgiamo che noi siamo soggetti che abitano un oggetto, che è il corpo, col quale conviviamo, ma col quale non coincidiamo. Per entrare in relazione col soggetto, anche questo Dante ci insegna, occorre la parola. La verità, la verità che salva, è relazione. Nessuno si salva da solo, nessuno guarisce da solo. Dante, iscritto all’arte dei medici e degli speziali, si fa accompagnare da guide esperte, da Virgilio, un sapiente che ne cura la salute, cioè il ritorno alla innocenza originaria, e da una donna, Beatrice, che gli garantisce la salvezza, come poi farà, nell’ultimo tratto paradisiaco (da Par. XXXII), lo stesso San Bernardo. 

Forse è un accostamento un po’ azzardato, ma pensa sia possibile affiancare il percorso di Dante (la sua discesa nel male, la sua faticosa risalita e la conquista finale del bene) al percorso di un paziente la cui malattia abbia un decorso di peggioramento fino al momento di crisi, cui segue un periodo di guarigione e convalescenza fino alla riacquistata saluta? E ci sono precise tappe o passi che possono comunicare particolarmente questo rispecchiamento? 

In parte ho cominciato a rispondere anche a questa domanda con le due risposte precedenti. Tutta la letteratura, non solo la Commedia, deve contribuire all’ermeneutica della relazione interpersonale con l’individuo sofferente, che è poi l’uomo storico, considerato nella sua contingenza. In più, la Commedia ci ricorda tuttavia altre cose. La condizione del paziente non è legata a un tempo vettoriale, ma a uno stato esistenziale. Su questo “tempo” del paziente, considerato in rapporto al tempo del medico o dell’infermiere, ha scritto pagine importanti Rita Charon. Il soggetto ferito, che si avvede di sé, che prende coscienza della propria “malattia”, chiede di essere interamente sé stesso. Per farlo, egli deve compiere, con l’aiuto del medico, un percorso, che non è soltanto quello dell’auspicato ritorno a una condizione di salute organica. Il buio del dolore, l’autocoscienza e la luce della salute trovano un loro rispecchiamento nei tre tempi e nei tre mondi della Commedia, tutti rigorosamente auscultabili in interiore homine. Da questo punto di vista, i primi due canti dell’Inferno sono essenziali. Dante comincia a salvarsi non solo per merito della “parola ornata” di Virgilio, ma perché questa parola gli garantisce di essere dentro una relazione d’amore e di conoscenza testimoniata da Beatrice. Beatrice stessa, che è salute nel senso di salvezza, viene rimproverata da Lucia perché non si commuove per Dante. Non c’è ritorno alla salute se il medico non si lascia interpellare dalla soggettività del paziente (la Charon parla di sé terapeutico), né se il paziente si rifiuta di comprendere che, per salvarsi, si deve fidare: deve cioè, dalla spècola della Commediaaver fede (non nella sola dottrina del medico-Virgilio, ma in una scienza che trova la propria ragione attraverso il mandato offertole dalla carità, quale è o, meglio, diventa Beatrice, quando si muove trafelata e piangente verso il poeta smarrito). L’innesto essenziale della fiducia nel processo di guarigione apre al territorio delle MH. Ai primi due canti dell’Inferno aggiungerei, per le ragioni che ho accennato, i canti dell’Eden (Purg. XVII-XXXIII). Per essere medici del mondo e per risanarlo (secondo il modello evangelico del Cristo medico), per scrivere “in pro del mondo che mal vive” (Purg. XXXII 103), occorre ritornare a uno stato di perfezione che presuppone una fisiologia, non solo una teologia, della salute. Il corpo, in Dante, il corpo vivo, resta sempre al centro di tutto. La profezia e la prognosi s’intrecciano e si sovrappongono.

In che modo e in quali luoghi, secondo lei, la Commedia può essere una lettura di conforto e compagnia da farsi oggi, dopo la faticosa esperienza del covid-19?

Al conforto, che la Commedia ha sempre recato ai lettori che hanno la fortuna di farne esperienza, si aggiunge ora una grazia, vorrei dire, particolare. La pandemia da Covid-19 ha posto le relazioni umane e sociali al centro dell’emergenza sanitaria, come non era mai accaduto nella storia umana. Le relazioni sono sia causa di perdita di salute organica (ma si può vivere senza correre questo rischio?), sia fonte di acquisizione di salute spirituale, vuoi nelle nostre abitudini di vita, vuoi nella particolare forma di relazione che è quella con l’arte. Un’idea solo organicistica della salute ha creato tutta una serie di conseguenze che hanno aggravato il dramma collettivo. Abbiamo invece compreso che, se anche non ci “ammaliamo”, possiamo stare male (perché privati di relazioni umane, sociali, economiche, professionali, estetiche). La salvezza, quindi la salute, è invece relazionale, come Dante sapeva e come saprà di lì a poco anche la brigata del Decameron. Se seguiamo Dante, come lui ha seguito Virgilio e Beatrice e San Bernardo, di tutto questo non ci potremo più dimenticare.

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