SGUARDO SUL FINE VITA: INCONTRO TRA BIOETICA E MEDICINA NARRATIVA – INTERVISTA A SUSANA MAGALHÃES

Qualche parola per presentarsi.

Sono la responsabile dell’integrità presso l’istituto di ricerca biomedica in Portogallo(I3S), che è uno dei tre istituti di ricerca e innovazione nella salute dell’Università di Porto.

Sono professoressa universitaria nelle aree della bioetica, dell’etica e dell’integrità nella ricerca. Mi occupo anche di ricerca in medicina narrativa. E insegno anche medicina narrativa.

In qualità di esperta di bioetica e medicina narrativa, quale pensa sia/dovrebbe essere il ruolo della medicina narrativa nel dibattito contemporaneo sul fine vita?

Quando si parla di fine vita, ci si riferisce a tutte le decisioni che gli operatori sanitari, i pazienti e le famiglie devono prendere in merito alla sospensione delle cure e all’avvio dei trattamenti.

Si tratta di un campo che esiste da molto tempo, da quando la bioetica è stata istituita come area ufficiale di conoscenza nella seconda metà del XX secolo.

Quindi, sì, credo che la difficoltà maggiore o più grande sia quella relativa alle decisioni di fine vita.

La questione più complessa è legata alla mancanza di comunicazione del paziente che o è impossibilitato fisicamente oppure è impossibilitato per via delle sue ridotte conoscenze riguardo alcuni argomenti.

Ciò che è più difficile alla fine della vita è la comunicazione che coinvolge tutti i pazienti, i medici, i familiari e i parenti, i caregiver informali. Per i professionisti è difficile essere consapevoli delle strategie cognitive che utilizzano perché c’è questa tensione prodotta dall’irrazionale voglia di dissociarsi dall’etica e dalle responsabilità etiche. Per strategie cognitive intendo per esempio:

  • So che quello che sto facendo non è la cosa giusta da fare, ma tutti lo fanno.
  • Lo faccio per soddisfare la famiglia del paziente, anche se non è quello che vuole quest’ultimo.

Quindi puo essere più difficile, per loro, prendere decisioni etiche che siano state ben ponderate e che siano solide. A questo problema si aggiunge la difficoltà di comunicazione che l’equipe riscontra quando si approccia con il paziente e i suoi familiari.

La medicina narrativa, essendo un campo interdisciplinare che promuove le abilità narrative, può essere utile e importante; da un lato, per promuovere l’auto-riflessione da parte di ogni membro dell’équipe sanitaria e dall’altro, per promuovere la riflessione su come si sta costruendo la comunicazione e questo può essere realizzato non solo dai professionisti della salute ma anche dai parenti del paziente. Inoltre la medicina narrativa può anche essere un campo che promuove la riflessione dopo che il processo di cura è finito. Dopo il decesso del paziente, quando tutti si trovano a rivalutare ciò che è stato fatto e ciò che si sarebbe dovuto fare, penso che la cartella parallela, la lettura ravvicinata (close reading) e la scrittura riflessiva possano essere strumenti molto utili per l’équipe sanitaria, Perché permettono di tornare indietro e vedere come hanno costruito l’etica, come hanno comunicato tra di loro e con la famiglia e cosa doveva essere effettuato diversamente.

Ritiene che ci siano dei limiti su questo tema che nemmeno la medicina narrativa può superare?

Ho organizzato dei brevi corsi di formazione di medicina narrativa ed è interessante notare che i medici generici, i medici di famiglia e gli operatori sanitari che si occupano di cure palliative sono molto consapevoli di quanto sia importante la cartella parallela. I medici di medicina generale, i medici di famiglia hanno già provato a usare la narrazione con i pazienti, chiedendo loro di scrivere le cure che gli sono state fornite su ciò che mangiano (cosa mangiano), come vedono il loro medico e così via, ma la cartella parallela è stata utilizzata dai medici di medicina generale per tornare indietro e riflettere su un particolare paziente che presenta maggiori difficoltà rispetto alla maggioranza.

Quando scrivono la cartella parallela, è molto interessante perché emerge il diverso modo in cui possono costruire una relazione diversa con il paziente e trovare altre risorse per affrontare il paziente “difficile”, aiutandolo a essere più consapevole dei propri bisogni, degli ostacoli, dei significati che dà ai diversi elementi della sua vita. Per i medici di famiglia, la cartella parallela dovrebbe far parte della routine quotidiana della loro pratica, da un lato per fornire loro una visione più interna del modo in cui si relazionano con i pazienti e le loro famiglie, dall’altro come strumento per aiutare i pazienti, che hanno maggiori difficoltà nel loro percorso, per aiutarli a vedere più chiaramente perché vogliono morire a casa o in ospedale e cosa impedisce loro di aprirsi con i parenti.

Anche il ruolo che il medico di famiglia ha per questi pazienti particolari, è molto interessante per i professionisti delle cure palliative, perché le cure palliative sono molto narrative, per prendersi cura della persona è necessario conoscerla, ascoltare la sua narrazione e la propria narrazione, ma il problema è che al giorno d’oggi, con tutti i progressi scientifici e tecnologici, anche nelle cure palliative, i professionisti della salute possono correre il rischio di essere fin troppo procedurali; tanto da non cogliere l’essenza delle cure palliative, per cui iniziano a concentrarsi sul compito che devono svolgere e sul compito che il paziente si aspetta di svolgere, dimenticando che non si tratta di svolgere, ma solo di essere e credo che la medicina narrativa sia molto utile anche per questo.

Secondo lei, bioetica e medicina narrativa sono interdipendenti?

Penso che non tutto nella nostra vita sia aperto alla narrazione e la sofferenza non può essere solo narrativa. La sofferenza è fisica, e il fisico è esistenziale, emotivo, psicologico, sociale (è tutta questa dimensione) e non possiamo dimenticare che la sofferenza non può essere interpretata solo in base alla narrazione, abbiamo bisogno di leggere i segni fisici del corpo, abbiamo bisogno di un linguaggio (forse non verbale) e abbiamo bisogno di interpretare le forze che a volte sono più potenti di tutta la narrazione.

Questo è il motivo per cui credo che la medicina narrativa non possa fornire tutte le risposte sul fine vita, ma può essere un quadro molto importante per aiutare gli operatori sanitari e i caregiver a riflettere e a trovare un senso e ad essere più chiari su cosa vogliono veramente e su quali sono i limiti che ognuno di loro ha.

Anche gli operatori sanitari hanno i loro limiti ideologici e ontologici e quindi la medicina narrativa può aiutarli ad essere consapevoli di questo, ma non tutto ciò che riguarda il fine vita può essere integrato e trasmesso nel quadro narrativo.

Dobbiamo prestare attenzione ed essere in grado di leggere i segni non verbali, dobbiamo essere in grado di leggere il corpo e i segni del corpo, in particolare, quando il paziente non è in grado di comunicare, naturalmente credo che più narrazione c’è per il fine vita e più facile sarà leggere i segni non narrativi della malattia e dei disagi.

La storia che non può essere raccontata ma è esperienza, è vissuto e è reale.

La lettura ravvicinata, la scrittura riflessiva e la cartella parallela sono le pietre miliari del metodo che vuole perseguire con la medicina narrativa. Come si applicano nella pratica?

Credo che la medicina narrativa non possa essere praticata, non possa essere oggetto di ricerca e non possa essere utilizzata nella formazione dei professionisti della salute senza avere una formazione etica, in questo caso bioetica, perché stiamo parlando di etica applicata alle scienze della vita e in particolare alle scienze bioetiche e ai professionisti della salute.

Inoltre, penso che non possa esistere senza formazione etica e senza consapevolezza etica, anche se la consapevolezza etica è più importante della formazione etica, perché la medicina narrativa si occupa di molte questioni etiche.

In primo luogo la comunicazione è un atto etico, quindi la comunicazione in sé è un atto etico.

In secondo luogo, per praticare la medicina narrativa, è necessario essere consapevoli che mentre si utilizzano le narrazioni dei pazienti e le narrazioni degli operatori sanitari e dei caregiver per il proprio interesse, si può o migliorare o procedere con la propria ricerca e questo è un problema etico.

Bisogna essere sicuri che questa narrazione possa essere utilizzata in questo contesto e che le persone abbiano dato il consenso alla pubblicazione delle narrazioni, anche se sono identificate come anonime.

Allo stesso tempo, per quanto riguarda la pratica della medicina narrativa, potremmo correre il rischio di fare esattamente ciò che combacia con ciò che siamo, ciò che non vogliamo fare e che di solito è vietato dalla medicina basata sull’evidenza.

La medicina basata sull’evidenza (EBM) presuppone che tutto possa essere ridotto a dati quantitativi, a ciò che si vede nelle immagini degli esami medici e agli studi clinici, e che in un certo senso si debba trovare la risposta al problema seguendo questa parte e ponendo solo la domanda chiusa e non quella aperta, senza dare il tempo alle persone di dire cosa vogliono veramente e cosa conta per loro. Questo è ciò che non vogliamo che accada ed è per questo che pensiamo che la medicina narrativa sia utile. Tuttavia potremmo incorrere in alcuni rischi nel momento in cui si presentasse un problema etico:

  • Il primo errore potrebbe essere di assumere che tutti siano diacronici, che tutti siano a proprio agio nel raccontare le proprie storie e che tutti sono in grado di raccontare la narrazione.
  • Il secondo errore è che nel momento in cui si sviluppano molte competenze narrative, potremmo presumere che siano tutti empatici, che siano in grado di provare empatia cognitiva e che siano tutti in grado di comprendere molto bene la narrazione che il paziente ci sta raccontando o la narrazione che gli operatori sanitari o gli assistenti ci stanno raccontando.

Il problema è l’umiltà narrativa, per cui dovremmo essere consapevoli che potremmo non essere in grado di provare empatia per tutti e potremmo essere così lontani dal contesto culturale di questa persona che non riusciremo mai a costruire una vera empatia con questa persona e questo è molto importante perché è un rischio etico che la medicina narrativa pone.

D’altra parte, parlando di bioetica, credo che la riflessione bioetica richieda non solo di conoscere, ma anche di porsi una domanda etica:

se devo agire quando mi trovo di fronte a un problema etico, quali sono le alternative a questa azione, quali sono i valori in gioco, come posso essere sicuro che la decisione che sto prendendo sia solida e protegga tutti i valori che ritengo più importanti?

C’è una domanda narrativa che la bioetica si trova sempre ad affrontare e la domanda non è solo come dovrei agire quando mi trovo di fronte a questo problema, la domanda è

cosa è successo prima e come siamo arrivati a questo punto, a questa fase, come mai ci troviamo ora di fronte a questo problema etico

e questo richiede una narrazione che deve essere soddisfatta.

La medicina narrativa è davvero importante per la bioetica perché ricorda a quest’ultima che senza competenze narrative la bioetica va incontro a un frammento di etica breve che consiste nel riflettere sulle questioni etiche nella salute pubblica, nel contesto clinico, nella ricerca bioetica e in tutte le ricerche che coinvolgono la vita in tutte le sue forme.

Vuole aggiungere qualcosa?

Vorrei aggiungere qualcosa riguardo al fine vita.

Quando parliamo di fine vita, possiamo parlare di un lungo processo di malattia e di malessere, di un’esperienza di malattia che sappiamo di aver conosciuto come parola chiave, ed è per questo che parliamo di fine vita, oppure possiamo parlare di un incidente che ci pone improvvisamente di fronte a domande etiche su cosa fare in questo caso e penso che questo ci porti a una dimensione completamente diversa del fine vita.

Una zona aperta alla narrazione, perché man mano che procediamo in questo viaggio di fine vita possiamo offrire opportunità narrative a tutte le persone coinvolte.

Quando parliamo di contesti di fine vita improvvisi, invece, non abbiamo questa opportunità, ma abbiamo la possibilità di fornire alle persone che si trovano di fronte a questa improvvisa necessità di prendere una decisione etica con strumenti narrativi.

Credo che questo sia davvero importante perché nel caso di un giovane o di una persona adulta che entra improvvisamente in coma o che è in stato vegetativo, i medici devono decidere se interrompere il supporto vitale artificiale, se spegnere la macchina che permette a questa persona di rimanere in vita, se chiedere ai parenti se l’organo di questa persona può essere utilizzato per la ricerca, per un trapianto e così via.

Quando ci troviamo in queste situazioni e anche se non abbiamo l’opportunità di ascoltare la persona, abbiamo l’opportunità di ascoltare tutti i membri dell’équipe sanitaria che potrebbero avere diverse difficoltà a confrontarsi con il contesto e con le questioni etiche in sé e possiamo anche usare questi strumenti narrativi per impostare una migliore comunicazione nei rapporti con i parenti.

Per esempio, l’altro giorno c’era un’équipe di cure palliative che stava affrontando un problema di una donna che aveva avuto una trombosi e prima era autonoma, ma poi ha avuto un ictus e dopo l’ictus è diventata completamente dipendente e volevano nutrirla artificialmente con il sondino e lei si è tolta il sondino per tre volte, non poteva comunicare verbalmente e aveva molte difficoltà a comunicare con segni non verbali, ma lo ha fatto e il parente di questa donna voleva che l’équipe insistesse sull’alimentazione artificiale anche se lei non voleva nutrirsi.

 L’équipe, i membri del team avevano posizioni diverse su ciò che avrebbero dovuto fare. E ne soffrivano perché una delle cose che succede alla fine della vita è che si hanno molti residui morali, si prendono decisioni che sono contro i propri valori e si hanno questi residui tossici che contribuiranno a far nascere dei rischi o degni errori. E così uno dei rischi che questa équipe stava apprendendo era che probabilmente si sarebbero incontrati per cercare di soddisfare il parente senza pensare a ciò che era importante per questa donna, perché la donna era silenziosa e il parente, invece era rumoroso e volevano un supporto per questa narrazione, come avrebbero interagito con il parente?

Alla fine sono riusciti a comunicare, al parente, la necessità di non introdurre nuovamente l’alimentazione artificiale e di lasciare che la paziente mangiasse quello che voleva, ma poi hanno avuto un altro problema: come preparare questa dottoressa a un lutto patologico perché aveva già avuto un lutto patologico per la morte prevedibile della madre e come stavano sostenendo il parente per il lutto della madre che sarebbe morta presto. Si tratta di una situazione di fine vita e l’apporto narrativo è stato molto importante per l’équipe sanitaria stessa, per comunicare con i familiari e per comprendere i segnali non verbali del paziente.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.