IL RACCONTO LETTERARIO DELLA MALATTIA: MARIO TOBINO E CORMAC  MCCARTHY – di Federico Pezzo

Federico Pezzo si è laureato in Italianistica presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna con una tesi di Teoria della Letteratura sullo scrittore statunitense Cormac McCarthy. Si interessa principalmente di modernismo e postmodernismo in letteratura.

Nel racconto Lo strumento della voce umana (pubblicato nella raccolta Per le antiche scale nel 1972) lo psichiatra Anselmo, protagonista e alter ego dell’autore Mario Tobino, si confronta con «il Meschi», un malato incapace di comunicare a parole con il mondo esterno, ma incredibilmente dotato nel suonare il sassofono. Davanti a questo caso prodigioso, Anselmo non può fare a meno di tormentarsi per la sorte dell’anziano paziente e inveisce contro la «maledetta follia» che consuma l’uomo come le termiti consumano il legno.

È lecito immaginare che situazioni simili l’autore le abbia vissute in prima persona nei lunghi anni di servizio come primario nell’ospedale psichiatrico di Maggiano, presso Lucca. Infatti, più di ogni altro in Italia, Mario Tobino ha saputo intrecciare la propria poetica con la professione di medico, facendo sì che queste due vocazioni, apparentemente opposte, si alimentassero proficuamente l’un l’altra. Nella sua carriera Tobino è stato autore di numerosi romanzi, racconti e poesie (nonché di una commedia teatrale).

La sua produzione si caratterizza per un’acuta attenzione alle dinamiche psicologiche dei personaggi e alle loro relazioni interpersonali, come pure per la presenza costante del tema della malattia, sia fisica che mentale. L’ultima, pur essendo descritta con l’esattezza che è lecito aspettarsi da uno scrittore-medico, non viene raccontata come mero fatto clinico, ma è presentata anche e soprattutto mediante le sue implicazioni sul piano sociale ed emotivo. La malattia, per Tobino, non è solo una fonte di disagio per il paziente, bensì un evento che influenza fortemente la vita e le relazioni di tutte le persone coinvolte.

Le libere donne di Magliano

Nel 1953 Tobino pubblica Le libere donne di Magliano (lo scrittore camuffa un po’ il nome della località dove ha lavorato come psichiatra per tanti anni: Maggiano). Il romanzo è autobiografico ed è scritto in forma di diario, quindi la prospettiva principale è quella di un medico. Ma è interessante l’attenzione riservata anche al punto di vista dei malati e di tutti coloro che oggi definiremo caregiver (ovvero i familiari o in generale coloro che forniscono un aiuto domiciliare al malato) . Le donne del titolo sono infatti soprattutto pazienti dell’istituto, ma anche suore, infermiere, e persino lavoratrici e contadine della provincia lucchese.

È particolarmente importante il personaggio di Lella, una donna descritta con magistrale eleganza nella fragilità della sua malattia e negli alti e bassi del decorso. Tobino entra in un rapporto molto empatico con la donna, instaurando un legame di faticosa condivisione del dolore. Lella sembra continuamente migliorare per poi invece regredire ancora: «e da alcuni giorni la Lella non è più al reparto medici, è “dentro”, tra le matte, ora di nuovo anche lei completamente trattata da matta». E Tobino le sta accanto nel moto altalenante del suo male, condividendo con lei quanto è in suo potere condividere. E tutto questo viene raccontato in una forma diaristica che restituisce con immediatezza sia i pensieri e le azioni del medico, sia la vita dei personaggi che abitano all’interno e attorno all’ospedale. 

Per le Antiche Scale

 Torniamo alla già citata raccolta di racconti Per le Antiche Scale. Il fil rouge che lega tra loro queste storie è il dottor Anselmo, che compare sempre come protagonista. Questa volta l’autobiografismo non è esplicitato in pieno, ma risulta comunque evidente che, attraverso la figura di Anselmo, Tobino mette in scena sé stesso. In ogni racconto Anselmo si trova sempre di fronte alla malattia mentale, ma questa ogni volta viene raccontata da una prospettiva diversa, ed è commovente la delicatezza con cui l’autore sa descrivere l’unicità del dolore di ogni paziente. I racconti più interessanti tra tutti sono quelli in cui non è affatto chiaro il confine tra sanità e psicosi – come nel caso dell’innocuo Idelfonso, colpevole soltanto di amare un po’ troppo il vino. «Ognuno ha le sue spine. La meditazione, la difficoltà di Idelfonso erano semplicemente sul bianco o sul rosso».

E, del resto, in tutta la raccolta (come pure nelle Libere donne) la malattia, più che legarsi a doppio filo ai singoli ospiti del manicomio, sembra piuttosto aleggiare sopra tutta la struttura come una gigantesca cappa inquietante. Nell’intera produzione di Mario Tobino si avverte quella tendenza – che stava iniziando a diffondersi nello Zeitgeist del secondo Novecento – a vedere il disagio mentale più come un fatto sociale che come una malattia da curare in maniera tradizionale (su questo tema, ad esempio, ha scritto molto Michel Foucault, dalla sua tesi di dottorato del 1961, Folie et déraison. Histoire de la folie à l’âge classique in avanti).

Ecco perché, più ancora che un supporto materiale, Tobino e i suoi alter ego letterari sembrano offrire ai pazienti una condivisione umana della sofferenza. Questo è un approccio efficace sia per la malattia mentale che per quella fisica; a tal proposito, viene in mente un esempio paradigmatico tratto dall’opera di un altro grande autore contemporaneo, questa volta statunitense: Cormac McCarthy

The Road

I due protagonisti del suo romanzo postapocalittico The Road (2006) – un padre e un figlio di cui non è dato sapere i nomi – a un certo punto, verso il termine del loro viaggio insieme, si trovano a dover fare i conti con un male sconosciuto che colpisce il ragazzo. Inizialmente il padre sembra impotente. Suo figlio vomita e delira in preda alla febbre, e lui non è in grado di curarlo in alcun modo. In un mondo totalmente devastato da una catastrofe di proporzioni bibliche, qualsiasi malattia rischia di essere fatale, visto che non ci sono medici da contattare, e anche solo trovare cibo e acqua non contaminati sembra essere un’impresa dall’esito non scontato.

Durante la sua malattia, il ragazzo per la maggior parte del tempo giace privo di sensi, e nei pochi momenti di veglia sembra incapace di formulare frasi di senso compiuto ad eccezione delle continue suppliche rivolte al padre: «don’t go away». E il padre non se ne va, «[not] even for just a little while». E condivide con lui quanto è in suo potere condividere. Alla fine il ragazzo sopravvive, ma quel che conta, quel che resta impresso al lettore, è la capacità di McCarthy di descrivere sia la malattia che la forza dell’empatia e della condivisione del dolore in maniera delicata e allo stesso tempo tremendamente potente. 

Due modelli fondamentali

Che sia fisica o mentale, la descrizione letteraria della malattia – così come della cura e della guarigione – è un esercizio incredibilmente complesso, ma proprio per questo, quando riesce, è anche un indicatore di straordinaria abilità. La malattia, con tutte le sue sfumature e complessità, non è solo una somma di sintomi e diagnosi: ogni singolo paziente porta con sé un vissuto unico e personale che plasma la sua percezione del percorso di terapia. Tobino e McCarthy hanno affrontato magistralmente questo tema, come abbiamo appena visto, e le loro narrazioni rimangono un modello per chi vuole raccontare la malattia in tutte le sue forme.

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