Il burden of illness in un’indagine sui percorsi di cura per Beta-Talassemia Major: intervista a Gian Luca Forni e a Marco Bianchi

Il progetto “Il valore per la persona con Beta-Talassemia Major. Strumenti per migliorare la qualità della vita e i servizi sanitari”, a cura di Fondazione ISTUD, ha l’obiettivo di rilevare il carico della beta-talassemia major sulla qualità della vita delle persone che ne sono affette, non solo dal punto di vista fisico, ma anche psicologico, emotivo, sociale ed economico. Il progetto è stato realizzato grazie alla collaborazione di UNITED Onlus (Unione Assocazioni per le Anemie Rare, la Talassemia e la Drepanocitosi) e di SITE (Società Italiana Talassemie ed Emogloinopatie) con il supporto non condizionato di Novartis. Per approfondire l’apporto che l’indagine qualitativa ha dato alla ricerca, ospitiamo un’intervista al dott. Gian Luca Forni (Dirigente Responsabile della SSD Ematologia dell’Ospedale Galliera di Genova, componente del Direttivo della “Società Scientifica per lo Studio delle Talassemie ed Emoglobinopatie”, docente presso la Scuola di Specializzazione in Ematologia dell’Università di Genova, Presidente del SITE) e a Marco Bianchi, presidente di UNITED Onlus. 

D. È importante integrare le indagini quantitative con quelle qualitative, che vanno a toccare la sfera emozionale e del vissuto personale?

GF. È sicuramente importante, in particolare per i pazienti con beta-talassemia major. Questa è una patologia ipercronica, abbiamo pazienti con cinquant’anni di vissuto con questa malattia: i pazienti convivono con una patologia che cambia – negli anni – insieme a loro, così come cambia anche la prognosi. I pazienti sono i primi testimoni di questa evoluzione. I metodi quantitativi sono più adatti per indagare il breve-medio termine, mentre i metodi qualitativi ci offrono un quadro più completo, andando a toccare quella sfera che le metodiche quantitative non evidenziano.

MB. Sì, in quanto aiutano a capire le dimensioni che le indagini quantitative non trasferiscono completamente. Nel caso della nostra patologia, c’è una parte importante: il vissuto, che dalle indagini quantitative non traspare. Quando mi hanno proposto questo tipo di indagine, ero molto contento. A noi, come associazione, serve a capire non solo le differenze territoriali, ma anche come si reagisce in base alla cultura e alla tradizione del paziente nelle varie zone. A parità di trattamento, alcuni possono essere contenti, altri meno. Questo è molto importante da capire.

D. In base alla sua esperienza, che valore dà in più all’indagine la testimonianza delle persone?

GF. La testimonianza del singolo evidenzia maggiormente degli aspetti che vanno oltre la parte più sanitaria, quindi anche tutto il vissuto del paziente al di fuori dell’ambiente in cui la patologia è vissuta e curata, e questo serve a mettere in evidenza anche le nostre carenze. Noi forse siamo abituati ai risultati – anche lusinghieri – che otteniamo. Però così usciamo dal concetto di prognosi quoad vitam, e andiamo a vedere il quadro emozionale e di vissuto che sta intorno al paziente.

MB. La parte narrativa è importante per trasferire la parte emozionale che nelle domande chiuse non si riesce ad esprimere. Anche come associazione, abbiamo scritto dei libri che riportavano le testimonianze della condizione quotidiana dei pazienti, e credo che la narrazione faccia emergere un vissuto che è impossibile da trovare con le metodiche quantitative. Credo che la narrazione sia più vicina alla realtà dei pazienti. A volte può risultare anche contraddittoria, ma nel momento in cui uno inizia a narrare è più onesto nei confronti della risposta, rispetto a quando risponde a delle domande chiuse.

D. Da questo lavoro, che si è avvalso anche dello strumento narrativo, quale valore principale emerge per una persona affetta da beta-talassemia? Quale disvalore?

GF. Dobbiamo ancora analizzare in modo completo i risultati*, quindi teniamo conto dei primi che abbiamo. In questi, sembra esserci una differenza che può sembrare strana: la percezione che i pazienti danno della qualità della vita è inaspettatamente buona, mentre hanno evidenziato carenze per quanto riguarda il grado di realizzazione sul lavoro che la patologia comporta. Si avverte la mancata possibilità di realizzarsi pienamente, soprattutto nella sfera del lavoro. Queste due cose sono antagoniste: da una parte c’è una buona qualità della vita, dall’altra vedono irrealizzata la sfera lavorativa. Dovremmo approfondire meglio questo aspetto per capire il perché di questo apparente dualismo, quali ne siano i meccanismi. Ma questa indagine serve proprio per passare a un’ulteriore fase di approfondimento: i risultati andranno elaborati meglio, anche in équipe, per poter trarre delle conclusioni, anche sul modo in cui seguire questi pazienti. E viceversa anche i pazienti – visto che sono coinvolti – potranno avere nuovi spunti per ragionare sul modo in cui affrontano la patologia.

MB. La mia impressione è che quello che sta emergendo è un atteggiamento diverso a livello personale, che non sempre corrisponde da persona a persona. È anche vero che nei centri dove le persone sono curate in modo più puntuale e più aggiornato, mi sembra di leggere una maggiore soddisfazione, un atteggiamento più positivo: una minore chiusura e una maggiore soddisfazione personale, come se si convivesse con una patologia non grave. In altri, invece, traspare una patologia considerata grave da loro stessi. Le cure, il rapporto coi medici, traspaiono. Se il medico riesce a dare fiducia verso la clinica, c’è sicuramente maggiore soddisfazione, e un atteggiamento più positivo delle persone, anche nei confronti della propria vita. Come associazione, un aspetto sicuramente positivo è la collaborazione con la società medica, il fatto di fare indagini di tipo narrativo insieme ai medici, per vedere anche il loro vissuto – perché a volte noi pazienti consideriamo solo il nostro punto di vista. Questo tipo di ricerca unisce i due protagonisti, il paziente e il medico: credo sia positivo lavorare insieme per avere dati che possano essere utili a entrambi. La nostra è una patologia che viviamo “in difesa”, nel senso che non è una patologia in crescita: ci difendiamo dal disinteresse dei medici. Per noi è importante l’interesse per la nostra patologia, anche per via di complicanze che bisogna conoscere per poterle trattare globalmente. Inoltre, a volte viene trascurato l’aspetto del dialogo, che per noi invece è molto importante: se persona condivide l’obiettivo della cura, c’è più compliance, migliora l’aderenza al trattamento. In questo progetto, come federazione di associazioni nazionali, volevamo vedere le differenze a livello delle cure, ma anche dell’atteggiamento di pazienti e medici. Chiaramente ci sono aspetti materiali che non si possono trascurare: mancanza di sangue vuol dire non poter fare la terapia, e quindi non avere una vita piena. Se non ci sono complicanze, una persona può fare una vita normale, ma deve avere il sangue e le terapie.

*Studio in fase di conclusione.

Alessandra Fiorencis

Laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Specializzata nel campo dell’antropologia medica, ha condotto attività di formazione a docenti, ingegneri e medici operanti in contesti sia extra-europei che cosiddetti “multiculturali”. Ha partecipato a diversi seminari e conferenze, a livello nazionale e internazionale. Ha lavorato nel campo delle migrazioni e della child protection, focalizzandosi in particolare sulla documentazione delle torture e l’accesso alla protezione internazionale, svolgendo altresì attività di advocacy in ambito sanitario e di ricerca sull’accesso alle cure delle persone migranti irregolari affette da tubercolosi. Presso l’Area Sanità di Fondazione ISTUD si occupa di ricerca, scientific editing e medical writing.

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