Essere in contatto con le emozioni, senza soccombere? – di Giorgio Piccinino

Giorgio Piccinino è sociologo, psicologo e psicoterapeuta. Partner del Centro Berne di Milano. Docente e supervisore per la scuola di specializzazione in psicoterapia e per il Corso triennale di Counseling. È autore, fra l’altro, di “Il piacere di lavorare. Viaggio in se stessi per ritrovare la passione del fare” (Erickson) e di “Nati per amare. Deterioramento e riattivazione della pulsione affettiva” (Mimesis).

Sito personale dell’autore: https://www.piccininogiorgio.it/mobile/


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Lavorare senza soccombere di fronte alle emozioni è una necessità proprio indispensabile per chiunque operi nelle professioni d’aiuto, eppure mi sembra che prima di pensare a difenderci dovremmo verificare se sappiamo vivere con le emozioni. Si parla molto di intelligenza o di competenza emotiva, ma non sempre con la dovuta precisione, cosa vuol dire per chi si prende cura degli altri vivere con le emozioni e saperle gestire?

Emozioni come fonte e come veicolo

Innanzi tutto, le risposte emotive sono allo stesso tempo la fonte e il veicolo delle decisioni e dei comportamenti presi sotto pressione e dunque impattano grandemente nella vita delle persone “in sofferenza”.

Sono le emozioni di base universali a farci agire. La paura, la rabbia, la tristezza e la gioia (per qualcuno sono emozioni di base anche il disgusto e la compassione) stimolano comportamenti immediati da milioni di anni, sono loro a farci scegliere più o meno consapevolmente le azioni protettive o costruttive orientate alla nostra sopravvivenza. Sono loro a indicarci che qualcosa o qualcuno ci impedisce di ottenere ciò che desideriamo o di essere ciò che vogliamo (la rabbia), cosa ci minaccia (la paura), cosa stiamo perdendo o ci manca (la tristezza) e cosa ci fa essere felici e ci fa davvero bene (la gioia).

Sono loro ad attivare la razionalità, la progettualità, la creatività, come dicevo sono la fonte dei nostri comportamenti, ma anche il loro veicolo, nel senso che ognuna di esse ha un proprio modo per evidenziarsi e di comunicare a noi stessi e agli altri cosa ci sta accadendo. 

In termini temporali prima percepiamo il dolore e poi decidiamo che fare.

Rabbrividiamo, piangiamo, ci batte il cuore, ci manca il fiato, ridiamo, sorridiamo, ci chiudiamo, aggrediamo, insultiamo e questo esprime e fa capire cosa sta accadendo in modo molto più chiaro ed evidente di qualsiasi racconto magari costruito per farci benvolere o dimostrarci forti.

Difesa e contatto

Dunque, figuriamoci se i pazienti, come ben sappiamo se ci facciamo narrare per davvero le loro disgrazie, non ci investono con le loro emozioni. Chi si prende cura delle persone viene sempre aggredito o anche solo stimolato dalle emozioni dei pazienti, anche quando quelle stesse emozioni sono raggelate o al contrario convogliate in reazioni autodistruttive.

È inevitabile e per questo prima di pensare a difenderci dalle emozioni dovremmo imparare a entrarci in contatto, a volte addirittura suscitarle, poi a capirle e a saperle gestire. Il vantaggio è che se sappiamo gestirle non soccomberemo mai.

Il bisogno dell’espressione

Le emozioni espresse dai pazienti sono la loro storia reale, dovremmo favorirne l’espressione, portarle a galla, farle emergere proprio per capire cosa “bolle in pentola” sotto i coperchi che molti vi impongono. 

Sarà la vergogna, sarà il pudore, sarà il perbenismo, sarà che non si deve fare la vittima, sarà che si deve dare una certa immagine di sé, ma quanti nascondono soprattutto la paura e il dolore nella sofferenza? Cosa si vuol far narrare se non l’emozione che agita “là sotto” e che spesso, proprio perché non emerge, finisce per rendere la vita ingestibile?

E poi le emozioni devono potersi esprimere per poter poi essere contenute e non diventare disperazione, angoscia o panico. È infatti quando si esasperano che le emozioni dettano direttamente i comportamenti senza passare al vaglio della razionalità.

A complicare il problema c’è anche il fatto che non sempre le emozioni mostrate sono genuine: pensiamo a quanto è frequente per le persone aggressive nascondere la paura, alcune hanno da sempre il divieto di mostrare le proprie debolezze, altre non hanno il permesso di chiedere aiuto, altre ancora annacquano le loro emozioni con dei sentimenti nel loro immaginario più accettabili. 

Di solito è la paura a essere nascosta nelle situazioni di pericolo benché sia proprio lei la reazione naturale, universale, automatica e arcaica (e dunque in natura quella appropriata) da avere. Non è forse l’emozione che più ci attiva ad agire per sopravvivere e non è forse l’insensibilità e il freezing la condizione umana più passivizzante? A cosa sono serviti da milioni di anni i neuroni specchio se non per sintonizzarci alle reazioni degli altri esseri umani e creare appartenenza e solidarietà?

Un’alleanza per curare

Solo se capiamo le emozioni dei pazienti possiamo poi agire o retroagire in modo utile per loro. Il medico non ha il ruolo di modificare la storia del paziente né le sue emozioni, può farle però emergere, può accoglierle, contenerle, orientarle al fine curativo, utilizzarle insomma.

Quanto è utile per chi soffre sentirsi accolto nella propria debolezza, sentire che chi ti cura ti capisce veramente, che si occupa di te proprio perché sa cosa stai passando e, almeno per un certo grado, sa condividere il tuo stato. 

Non si tratta di entrare in empatia (altra parola usata male) cosa impossibile visto che nessuno è in grado di provare le stesse emozioni di un’altra persona, si tratta di condividere, di essere partecipi con vera pietas alle preoccupazioni e al dolore. Sintonizzarsi per allearsi e suscitare alleanza.

La competenza emotiva sta nel saper reagire ai diversi tipi di emozione (o ai sentimenti che ne sono un’espressione più tenue, ma di origine culturale e quindi per nulla universali) con le risposte specifiche più adatte. Per esempio, alle manifestazioni di rabbia si dovrebbe sempre reagire con serietà e attenzione, alla paura serve un atteggiamento di sollecitudine e protezione, di fronte al dolore e alla tristezza bisognerebbe mostrare compassione. Senza dimenticare che la gioia dovrebbe essere condivisa e, seppure secondo misura, sollecitata e premiata con riconoscimenti.

Il principio universale di base è che le emozioni spiacevoli sono tali proprio per il loro scopo evolutivo di segnalare le situazioni in cui gli esseri umani entrano in sofferenza e dunque non devono mai essere considerate negative, anzi devono essere accolte come espressione e segnale di un disagio specifico tipico proprio di quella persona.

Gestire le emozioni per non soccombere

Con queste premesse, come dicevo, è ovvio che queste stesse emozioni devono essere contenute quando rischiano di sfociare in atti inconsulti aggressivi o autolesivi, ma perché questo non accada è necessario lasciarle fluire e comprenderne il senso e la gravità. Non possiamo allontanarci o indignarci proprio quando le persone esprimono la loro vera sofferenza. È l’accoglienza che aiuta a far defluire le emozioni, a “farle fuori”, a ridurne l’intensità e l’impatto sulla ragionevolezza dei pensieri. Solo successivamente, quando l’energia emotiva si scoglie (e questo accade sempre se non si tratta di una crisi psicotica o di nevrosi rilevanti), si possono “pretendere” risposte collaborative e razionali.

Lo scopo della gestione delle emozioni è quello di ridurne l’impatto passivizzante o drammatizzante nelle relazioni e sviluppare invece speranza e positività. Lo ripeto ancora, le emozioni sono più forti del pensiero razionale, lo contaminano in modo anche pericolosamente irreversibile solo quando sono traumatiche o persistenti nel tempo. Dunque, chi lavora nelle professioni d’aiuto dovrebbe avere la capacità di gestire le emozioni degli altri (ma anche le proprie) mantenendo la lucidità necessaria per “decidere” che atteggiamento generale prendere caso per caso. 

Gestire le emozioni significa dunque accoglierle e lasciarle emergere per mantenerne la funzione naturale di allarme e stimolo per l’azione, con una solidarietà e un contenimento che ne eviti l’esasperazione. Ciò che si vuole ottenere è ottimismo, determinazione, fiducia in sé e verso gli operatori, collaborazione, armonia con le persone care, tutti elementi che impattano in modo determinante nelle guarigioni o nei progressi della cura, ma anche in quel ben essere esistenziale che dovrebbe accompagnare, qualunque sia il decorso della malattia, la permanenza in ospedale o il ritorno a casa.

Conclusioni

Per tornare al tema iniziale: per non soccombere di fronte alle emozioni bisogna dunque saperle gestire, non evitarle o difendersi, o schermarsi e rendersi insensibili. Ai giovani medici troppo coinvolti si dice spesso: “vedrai che ti abitui, fra un po’ non ci farai più caso”, ma questa sarebbe proprio la fine del prendersi cura: l’oggettivazione, il protocollo, l’indifferenza, il distacco finiscono per essere la disumanizzazione non solo del paziente, ma anche del medico. Sarebbe proprio un peccato e poco appassionante lavorare così!

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