FRAGILITÀ DEGLI OPERATORI SANITARI. DARE VOCE A Ciò CHE SI TACE – di Elena Vavassori

Elena Vavassori

Elena Vavassori è Medico Anestesista-Rianimatore presso la Fondazione Poliambulanza Istituto Ospedaliero di Brescia. Da alcuni anni si occupa di medicina narrativa e ultimamente si interessa di medicina tradizionale cinese, in un connubio di saperi e interessi sempre alla ricerca del contatto con l’umano. 


Antonello da Messina, Ecce Homo, 1475

L’immagine pittorica che mi viene in mente pensando alla fragilità, ed alla fragilità dell’uomo, è l’Ecce Homo (1475) di Antonello da Messina che ho avuto modo di contemplare alcuni anni fa e che ancora ricordo con la stessa emozione di allora. Guardando quel volto e quello sguardo, il volto e lo sguardo di Cristo, ciò che più mi ha emozionato sono le lacrime che rendono il divino umano. Il volto di un uomo come noi che lo stiamo guardando e con il quale possiamo condividere senza vergogna le nostre lacrime. 

Ed è da una storia di lacrime che è nata l’idea di raccogliere le narrazioni dei colleghi anestesisti-rianimatori nel tempo del Covid, quando la pandemia travolgeva ogni esistenza ed in cui ogni istante era tutti i giorni ed allo stesso tempo un unico giorno, un’unica trama. Durante il briefing mattutino in Terapia Intensiva, alcuni colleghi piangevano nel dover raccontare le morti avvenute nella notte. Nel raccontare le vite non salvate, di chi se ne è andato senza poter avere vicino nessun altro se non loro stessi che già erano impegnati a soccorrere qualcun altro che arrivava. 

Nei loro racconti, il linguaggio metaforico consentiva di dire tutta la complessità del momento vissuto: Adesso mi sento in uno stato di guerra/. /Foglia di un albero durante una ventosa giornata autunnale/Don Chisciotte della Mancia che combatte contro i mulini a vento. / Sui volti di ognuno c’era un velo, una coltre e ognuno sembrava chiuso nella propria disperazione/.

Non dimentichiamo che tutto ciò si inseriva nella storia personale di ognuno e nei motivi per cui avevano scelto di fare il medico. Ma anche di ciò che il medico rappresentava ai loro occhi, la figura del dottore che superando anni di studio e sacrifici entrava in quella che si credeva essere una cerchia di eletti.

Fare il medico al tempo del Covid ha significato fare i conti certo con la propria passione, ma ora come non mai indissolubilmente legata all’incertezza, alla paura, al proprio sentirsi fragili, alla scoperta del limite del proprio sapere. Le lacrime trovavano qui il loro proprio senso e valore da quel non uscire vittoriosi nella lotta tra la vita e la morte. Le lacrime espressione di una vulnerabilità che non può più essere più trattenuta (si sa, i medici non piangono). 

La nostra cultura disciplina chi può piangere (le femmine) ma anche il dove, il come e il quando poter piangere ed a mio parere questo tabù nel tempo del Covid è stato rotto e superato: quasi che le lacrime fossero l’unico linguaggio in grado di connettere chi stava da chi si era perduto, il mondo dei vivi da quello dei morti, nel comune dolore della perdita. Si potrebbe anche pensare che in quei briefing le lacrime rappresentassero il suono del dolore ed allo stesso tempo un sapere nuovo più forte e non più dimenticabile. Allora sotto la bontà dei cieli/Io sono nudo come quando nacqui. /Dietro il sottile velo delle lacrime/allora sono solamente io. 

Ma in quel momento buio, in cui era cambiato il paesaggio nel quale vivere la propria professione, si è andati alla ricerca di una luce. Ed ecco che altre metafore hanno dato voce al sentire dei medici-rianimatori: Nessuna lacrima non è stata asciugata, e questo scalda il cuore e ti permette di sperare nel futuro. /Mi sentivo uno delle centinaia di rematori su una antica nave. 

La prima volta che, dopo un turno notturno e dopo aver parlato al telefono coi parenti delle persone ricoverate in terapia intensiva, ho visto appeso alla cancellata esterna dell’ospedale uno striscione con scritto: Grazie per quello che fate, siete degli eroi, non ho trattenuto le lacrime pensando che poco prima avevo detto parole che spezzavano la speranza che una vita potesse continuare. 

Allora chi è l’eroe? Gli eroi sono tutti giovani e belli, cantava Guccini. E la fragilità la intendiamo come imperfezione e sconfitta? Oppure come scelta di abitare e vivere il limite così da poterlo trasformare in resilienza e, perché no, in creatività? Spingendo così lo sguardo da un’emozione e da un pianto paralizzante verso un orizzonte fino a quel momento non conosciuto. Il mondo della fragilità come mondo di risorse, con la possibilità di aperture possibili. Può essere questo il nuovo eroe? Colui che sa e può piangere senza vergogna, colui che è uomo e come nel dipinto di Ecce Homo non guarda al Cielo cercando risposte o pietà per la propria sorte, ma accoglie e attraversa la prova che non ha scelto ma a cui è stato chiamato e guarda a noi con sguardo dolente cercando in noi una nuova luce, anche per noi stessi.

Trovo rischiosa invece, in sanità ma anche nella vita la figura dell’eroe che abita la nostra cultura e immaginazione: colui che ci offre salvezza sempre, insofferente alle regole ed ignaro dei limiti e del rischio, proiettato verso un mondo in cui ci siano solo certezze e non angoscia, incarnando aspettative e promesse che non può mantenere perché non è padrone né del tempo né del proprio destino e tantomeno del tempo e del destino degli altri. Infatti, tutti siamo a conoscenza di denunce subite i medici definiti eroi perché, appunto, investiti di quel mito dell’eroe come essere perfetto, intoccabile e imbattibile di fronte alle avversità. La figura dell’eroe così intesa non credo porti beneficio agli operatori sanitari, come non mi convincono i colloqui con lo psicologo per affrontare l’ansia e lo stress che il tempo del Covid ha generato in molti di noi. 

Credo sempre più invece in una formazione che porti nella quotidianità un linguaggio nuovo di cui non vergognarsi che è quello delle emozioni. Nella mia realtà sperimento questa cosa ogni volta che presento e leggo narrazioni di persone sofferenti o dei loro familiari, perché trasformare un destino (come quello della malattia) in esperienza raccontata unisce i destini di ognuno e questo rende la sofferenza comprensibile in modo immediato. E da qui possono partire i rimedi. Recentemente, presentando le narrazioni sul dolore cronico, ho iniziato leggendo ciò che ho definito una dichiarazione d’amore di una moglie verso il marito malato:

Io amo mio marito, amo anche il suo malessere, ho sempre pensato che l’amore sia un sentimento onnipotente, capace di vincere ogni ostacolo. Ne sono convinta, ma ciò non toglie che amare senza limiti e confini sia quanto di più complesso si possa provare nella vita.

Ciò ha suscitato in chi ascoltava emozione e, finalmente, qualche lacrima. E allora, senza vergogna, come trasformare questo amore, questo sentimento che il medico legge così raccontato in una storia non scritta da lui nella classica anamnesi, e come inserirla nel percorso di cura di quella famiglia? Accettando e proteggendo la voce di questa donna riconoscendole il valore della verità. E così facendo accettare il bene prezioso della propria e altrui fragilità intesa come sensibilità, tenerezza, dignità, e come elemento costitutivo e strutturale della relazione di cura e non estraneo ad essa. Questo ci rende tutti più forti, e anche un poco eroi.

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