Digital o Non-Digital? Qualche riflessione sullo scrivere e la Medicina Narrativa

3Questo commento non vuole rappresentare una “soluzione” al dibattito sulle digital health technologies: al contrario, vuole essere un tentativo di problematizzare il contesto in cui queste tecnologie si inseriscono, insieme alla Narrative Medicine e alle Medical Humanities. Non vi sono, dunque, pretese di esaustività, o di indicazione di una “via maestra”: al centro di questo dialogo, cerchiamo di porre lo sforzo di dotarci di strumenti – teorici e pratici – di indagine, per provare a comprendere l’inevitabile ambiguità che risiede negli interstizi di queste tecnologie.

Di fatto, il discorso, le pratiche e le tecniche della biomedicina sono state soggette a un cambiamento molto accelerato rispetto ai secoli precedenti: le tecnologie informatiche hanno portato una innegabile “rivoluzione” nelle pratiche di cura e di gestione della salute pubblica, nella medicina preventiva. Evidenziare i fattori di mutamento, però, non è sufficiente – sia che si propongano le digital health technologies come l’unico orizzonte possibile, sia che si tratti di “demonizzarle”. Al contrario, tenere contemporaneamente presenti le divergenze e le continuità – in definitiva: le ambivalenze – del contesto in cui ci troviamo può essere un buon punto di partenza per tentare una cartografia del presente: siamo al centro dell’intersezione di storie multiple.

Come evidenziano Rose e Novas (Biological Citizenship, in Ong A. e Collier S.J. (a cura di), Global Assemblages: technology, politics and ethics as anthropological problems), lo spazio della biomedicina contemporanea non è stato forgiato da un singolo evento: se il rimodellarsi della percezione e della pratica medica è stato realizzato attraverso le interconnessioni tra cambiamenti avvenuti su diversi piani, l’emergere del fenomeno della cittadinanza biologica è strettamente connesso con una nuova codificazione dei doveri, dei diritti e delle aspettative delle persone rispetto alla loro condizione di malattia (e alla loro stessa vita), e con una riorganizzazione dei rapporti con le autorità biomediche e le modalità con cui le persone si rapportano al sé. Nel contesto biomedico, non solo è cambiato il nostro rapporto con la salute e la malattia, ma anche cosa pensiamo di aver diritto a sperare, o ad esigere. Solo in parte la biologia viene accettata come un fato: il “non sapere”, la rassegnazione – nell’odierna economia morale – sono comportamenti sempre più disapprovati.

Verso la metà del XX secolo, la salute è divenuta un valore etico. Incoraggiati a interessarsi della propria salute, “attivati” dalle culture della cittadinanza, molti si sono rifiutati di rimanere “meri” pazienti: al punto che buona parte della letteratura sociologica e umanistica arriva a parlare di patient consumerism, per indicare il tentativo del “cittadino biologico” di “riappropriarsi” della capacità di indagare il proprio corpo e la propria condizione di malattia.

Il cittadino biologico ha anche questa specificità: non cerca una comunità in base allo stile di vita, al pensiero politico, all’appartenenza sociale, etnica o di genere, al contrario individua come elemento comune con altre persone l’esperienza quotidiana della malattia, del dolore, della disabilità. L’identità di cittadino biologico implica, di fatto, un ripensamento del corpo e – allo stesso tempo – una nuova modalità di socializzarlo. In questo senso, il momento della scrittura, per molti pazienti, rappresenta un passo necessario nella costruzione della conoscenza di sé e della propria condizione di malattia. Nel caso dei blog, dei forum e dei social network, la scrittura si trasforma in una codifica ancora più complessa: presuppone un destinatario (o molteplici destinatari), e un’interazione che può essere, contemporaneamente, un vincolo alla libera espressione di sé e un’ulteriore opportunità di interazione.

L’associazionismo on-line, i forum di persone che affrontano la stessa condizione di malattia, sono alcune delle diverse forme che il digital writing può assumere: il punto centrale è rappresentato dalla necessità di rispondere a dei bisogni che i pazienti effettivamente hanno (primo tra tutti, la condivisione del dato esperienziale della illness), e dalla necessità di creare una comunità che sia un luogo non solo dove “sfogarsi”, ma anche dove poter essere compresi.

Come evidenzia una ricerca condotta dal team dell’Area Sanità di Fondazione ISTUD sull’utilizzo di blog e forum da parte di persone affette da Sclerosi Multipla “Persone con sclerosi multipla in rete: quali orizzonti, il monitoraggio e lo studio di queste tecnologie ha permesso di far emergere una chiave interpretativa per comprendere gli stati d’animo, i desideri, le paure, le problematiche dell’esperienza della malattia. Blog e forum, in primis, si configurano come strumenti per informarsi: il forum on-line diviene uno spazio virtuale dove le persone che condividono un’esperienza comune – quella della malattia – si scambiano informazioni, si confrontano su differenti aspettative e interessi, sulla quotidianità del dolore. Si può affermare che il forum riprenda il valore etimologico del concetto di agorà, tramite una funzione aggregativa e di spazio di discussione dei problemi della comunità dei cittadini biologici: vi si trovano meccanismi di identificazione e di legittimazione reciproca, strategie di convivenza quotidiana con la malattia e col dolore e – in alcuni casi – anche con la solitudine, supporto emotivo, sostegno, in un’economia della speranza in cui la narrazione e le fasi della malattia sono strettamente legate. Il web, quindi, si configura come un forte strumento di aggregazione e di consulenza peer to peer, tramite il quale si attivano dinamiche associative dal basso: a molti, appare uno spazio ideale per condividere emozioni, e per aprirsi al mondo in una condizione che porterebbe invece all’isolamento (Leggi anche: Social network a misura di malati. Intervista a Maria Giulia Marini su La Repubblica, 3 dicembre 2013).

Per queste motivazioni, la pratica del digital writing sembra in contrasto con quella del manual writing: se della scrittura digital si evidenzia l’intenzione di connessione – immediata, e quasi senza confini – e di apertura, quella manuale rischia di essere messa in secondo piano, se non (di fatto) abbandonata. Una delle domande che possiamo porci è se sia davvero così poco importante mantenere l’abitudine di scrivere a mano.

Studi afferenti alle neuroscienze hanno dimostrato come questi due diversi modelli di scrittura influiscano sull’attività cerebrale. Ad esempio, prendere appunti a mano ha conseguenze profonde, e in positivo, sull’apprendimento e sulla capacità di rielaborazione e di riflessione. È vero, scrivere a mano più lento, a volte meno immediato, e non si può appuntare tutto. Tuttavia, prendere gli appunti a mano forza il cervello a lavorare in maniera più profonda, e – potremmo dire – più efficace: la concentrazione e la rielaborazione cambiano qualitativamente. Mueller e Oppenheimer evidenziano come la tecnologia offra sì strumenti innovativi e sempre più utili per comunicare, con enormi capacità di dinamismo e di apertura al mondo: ma si può anche argomentare, sulla base di evidenze neuroscientifiche, che un minor tempo non implica un apprendimento più semplice – anzi, forse è proprio il contrario: lungi dall’assorbire le informazioni più disparate, imparare e apprendere rimangono attività più profonde.

E questo, può valere anche per la riflessione che la persona, nell’affrontare una condizione di malattia o di disabilità, compie su se stessa. In questo senso, la scrittura a mano può aiutare a ripensare se stessi in maniera più intima, più introspettiva.

La Medicina Narrativa costituisce uno strumento terapeutico che consente di recuperare il valore del paziente come “persona” affetta da una malattia o da una condizione cronica che ne ha modificato il corso della vita. I pazienti, attraverso la narrazione delle proprie storie individuali e collettive, sperimentano l’opportunità di una rielaborazione e trasformazione profonda: sfruttando il potenziale della narrazione, questi imparano a raccontarsi, fino a sviluppare una più matura consapevolezza di sé e della propria storia clinica.

Sicuramente, le digital health technologies continuano a dare nuove possibilità e opportunità non solo a chi lavora nell’ambito della Medicina Narrativa e delle Medical Humanities, ma anche a pazienti e caregiver. La tentazione, però, di “schierarsi” dalla parte del digital o del manual writing potrebbe finire con l’essere un errore metodologico.

Le due modalità di scrittura hanno scopi differenti e aprono diversi scenari, con tangibili differenze di apertura e di introspezione. Entrambe possono rispecchiare esigenze diverse, ma presenti – allo stesso tempo – nel soggetto/oggetto della nostra pratica: ossia, la persona, e la sua rete sociale e di cura di riferimento che si trovano ad affrontare una condizione di malattia.

Proprio nel riconoscere la compresenza e la legittimità di queste due spinte narrative, le “storie multiple” che compongono la realtà individuale e collettiva, può risiedere un’altra chiave di lettura del dibattito tra il digital e il manual writing.

 

Qui sotto potete trovare alcuni articoli sul rapporto tra Digital e Manual Writing:

Alessandra Fiorencis

Laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Specializzata nel campo dell’antropologia medica, ha condotto attività di formazione a docenti, ingegneri e medici operanti in contesti sia extra-europei che cosiddetti “multiculturali”. Ha partecipato a diversi seminari e conferenze, a livello nazionale e internazionale. Ha lavorato nel campo delle migrazioni e della child protection, focalizzandosi in particolare sulla documentazione delle torture e l’accesso alla protezione internazionale, svolgendo altresì attività di advocacy in ambito sanitario e di ricerca sull’accesso alle cure delle persone migranti irregolari affette da tubercolosi. Presso l’Area Sanità di Fondazione ISTUD si occupa di ricerca, scientific editing e medical writing.

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