Digital e Manual Writing. Opinioni dal Team dell'Area Sanità di Fondazione ISTUD

20150226_133803Come ulteriore spunto per il dibattito riguardo al Digital e Manual Writing, pubblichiamo le riflessioni di Antonietta Cappuccio e Luigi Reale, del team dell’Area Sanità di Fondazione ISTUD.

D. Digital writing e manual writing: nella tua esperienza, come vivi queste due modalità diverse di scrittura?

A.C. Scrivere a computer, o in inglese typing, è ormai un fatto quotidiano: è più veloce, è leggibile da tutti, risulta ordinato e allo stesso tempo può essere reso accattivante grazie a stili diversi, colori e grandezze differenti e l’inserimento d’immagini. Grazie al computer riusciamo a scrivere documenti di 50 pagine con una velocità impensabile in precedenza, inoltre è possibile scambiarsi i documenti con colleghi e amici e permettere anche a loro di fare revisioni, correzioni, integrazioni. È una modalità di scrittura dinamica, veloce e direi professionale. Onestamente, però, se devo scrivere un mio pensiero, se devo raccontare qualcosa di intimo, preferisco usare la carta. Scrivere a mano mi permette di essere creativa, di utilizzare lo spazio in maniera differente, vincendo la paura del foglio bianco! È impensabile scrivere a mano un intero report di ricerca, ma alcune parti, i passaggi chiave, quelli che hanno bisogno di maggiore riflessione, continuo a scriverli a mano. Scrivere a mano, per me, non è una disciplina da abbandonare, ma anzi la nostra scrittura ci dà carattere, personalità… Anche se spesso non è leggibile dagli altri!

L.R. Rispondo da “non nativo” digital, ma da chi ha vissuto durante l’infanzia l’importanza della scrittura manuale, il rispetto del rigo e del quadretto, l’obiettivo della bella calligrafia. Solo in tarda adolescenza ho iniziato ad essere proiettato nella scrittura elettronica prima, e nell’era digital poi, restando tuttora affascinato dalla velocità di esecuzione della scrittura, dalla possibilità di tornare sulle parole e dal passare da una comunicazione codificata fatta di sole parole ad una comunicazione arricchita da simboli, immagini, suoni. Pur vivendo attivamente questa nuova modalità di comunicare, rimango scettico quando leggo, ad esempio, che la riforma scolastica finlandese prevede la scrittura a mano come una attività facoltativa. Oltre ai benefici più volte dimostrati sull’attività cerebrale della scrittura a mano, utilizzare carta e penna permette di dare una forma personale ai propri pensieri e ai propri sentimenti, è un modo ulteriore per comunicare ad altri la nostra identità, serve a trasferire tratti di personalità come i grafologi insegnano.

D. Nella tua esperienza lavorativa, ti è capitato di ritrovare riflessioni simili (anche dal punto di vista dei pazienti) sul Digital e Manual Writing? E quali vantaggi mantiene raccogliere le storie on-line?

A.C. Da quando ho iniziato a lavorare in ISTUD, ho letto centinaia di storie, scritte sia a mano che a computer. Nessuno ha scritto apertamente di preferire un mezzo rispetto ad un altro: abbiamo ricevuto storie di più di dieci pagine e storie di solo poche righe attraverso entrambe le modalità, la differenza è nella volontà di aprirsi delle persone. I pazienti, i caregiver che hanno scritto la loro esperienza sono persone che hanno bisogno di condividere la propria storia spesso perché non si sentono pienamente ascoltate e accolte nella loro vita quotidiana, o perché nella frenesia di tutti i giorni non trovano il modo di fermarsi e raccontare la loro vita. A volte, invece, è semplicemente più facile scrivere e parlare a uno sconosciuto pronto ad ascoltarti, a volte lo stimolo a raccontarsi deriva dalla voglia di condivisione della propria esperienza per poter essere utili a persone che condividono lo stesso percorso. E non è la scrittura digitale o manuale a fermare la loro voglia di esprimersi. Nel nostro lavoro, abbiamo deciso di spostarci verso l’on-line non solo per motivi pratici: minore spreco di carta, facilità di lettura, conservazione più sicura… Il motivo principale dello switch da manuale a on-line è stata la volontà di creare uno spazio sicuro dove le persone potessero sentirsi libere si esprimere se stesse, senza la paura che le loro narrazioni venissero lette da altri o fossero riconducibili a loro stessi. Prima, infatti, le storie cartacee venivano raccolte dai medici che collaboravano ai progetti e poi le inviavano a noi, inoltre le storie venivano spesso scritte in ospedale durante le attese in sala d’aspetto o dopo la visita, e non in un setting tranquillo e sereno. La scelta di questa modalità vuole quindi andare incontro ai pazienti e ai loro familiari, rendendo la narrazione facilmente accessibile e sempre più sicura, ma in tutti i nostri progetti non sparirà la possibilità di scrivere manualmente!

L.R. Quando arrivano storie di malattia, sempre più di frequente sono scritte in formato digitale. Questo agevola notevolmente la loro lettura, non ha costi, permette subito di concentrare l’attenzione sul contenuto che resta l’unico tratto distintivo. Il “condimento emozionale” fatto di emoticon, sigle, immagini, e così via, rientra comunque in una grande decodifica digital che non ci dice se dietro lo smile c’è un effettivo sorriso, o se dietro le lacrime ci sia un vero disagio. Le poche storie scritte a mano che ci vengono consegnate, sono spesso di persone molto riflessive, che hanno fatto con tempi necessariamente più lenti, quell’esercizio di riflessione, rielaborazione e di racconto. Non credo ci possa essere una chiave di lettura univoca sui pro e i contro dei due tipi di scrittura. Ritengo che in un ambito come quello sanitario, dove la tecnologia alla quale si demandano esami, decisioni terapeutiche e così via, e che sembra aver assunto un ruolo prioritario nelle decisioni diagnostico-terapeutiche, abbia al tempo stesso contribuito ad allontanare e spersonalizzare il rapporto tra curante e curato. Ritengo quindi importante non scoraggiare ma anzi incentivare coloro che vogliono raccontarsi e vogliono farlo ancora alla vecchia maniera.

Alessandra Fiorencis

Laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Specializzata nel campo dell’antropologia medica, ha condotto attività di formazione a docenti, ingegneri e medici operanti in contesti sia extra-europei che cosiddetti “multiculturali”. Ha partecipato a diversi seminari e conferenze, a livello nazionale e internazionale. Ha lavorato nel campo delle migrazioni e della child protection, focalizzandosi in particolare sulla documentazione delle torture e l’accesso alla protezione internazionale, svolgendo altresì attività di advocacy in ambito sanitario e di ricerca sull’accesso alle cure delle persone migranti irregolari affette da tubercolosi. Presso l’Area Sanità di Fondazione ISTUD si occupa di ricerca, scientific editing e medical writing.

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