Cogli l’attimo. Il segreto per una buona Medicina Narrativa

Il tempo nella medicina narrativa
La persistenza della memoria – Salvador Dalì

Il tempo sembra sempre limitato: non importa cosa faccia un team di cura, al giorno ci sono sempre 24 ore.
Il tempo è il mantra incessante che i professionisti sanitari, i medici, gli infermieri, gli psicoterapisti oppongono nel momento in cui, nella relazione tra chi cura e chi è curato, viene proposto un approccio narrativo. O meglio: la scarsità, la mancanza di tempo.
Di certo, in questo mondo alla ricerca di una sempre migliore efficienza, il tempo è denaro. Più corte sono le visite, più grande è la produzione. Per una prima visita, ai medici vengono concessi dai venti ai trenta minuti per prendersi cura del paziente. Nella pratica, le visite possono durare fino a quindici minuti.
E nel momento in cui la Medicina Narrativa propone l’arte dell’ascolto, gli strumenti della scrittura riflessiva, il passaggio dalla disease alla illness, dando a ciascun paziente un ruolo centrale e quindi il giusto tempo, dove possiamo trovare questo “tempo appropriato”?

Il tempo è limitato? Mentre cerchiamo di rispondere a questa domanda, la mitologia potrebbe aiutarci a trovare una possibile via d’uscita a questo dilemma. I greci avevano due divinità per definire il tempo: una era Chronos, un uomo vecchio, che divorava la sua prole: il passato che mangiava il futuro, in una modalità terribile e sequenziale – e il modo in cui lui agiva, era assolutamente lineare. Il tempo divora tutto. Siamo esseri finiti. Il tempo dell’incontro tra medico e paziente è limitato. Tuttavia c’era un’altra divinità, un ragazzo giovane con ali alle caviglie chiamato Kairos, il dio dell’opportunità. Con questa parola in particolare, i greci indicavano la sospensione del tempo, o meglio il tempo “giusto”, quello in cui si coglievano le buone scelte. In fisica, potremmo chiamarlo un salto quantico: il tempo istantaneo, infinitesimale per raggiungere un più alto livello di energia. Nella pratica medica, potremmo definirlo come un altro modo che intuitivamente viene in mente per stabilire una relazione efficace coi pazienti. Non richiede del tempo in più, ma un differente livello energetico, una percezione diversa, alla ricerca di altre domande e altre risposte.

John Launer ci insegna che, per avere delle buone conversazioni che portino al cambiamento, possono bastare anche solo dieci minuti, se sappiamo come gestirli, le domande giuste da porre, e se seguiamo il percorso di chi cura, senza invadere il campo con il nostro “ego” già pieno di giudizi e di diagnosi a priori. Kairos è un invito a cambiare prospettiva, non una richiesta di tempo ulteriore per applicare la Medicina Narrativa: una parte del tempo dovuto dell’educazione e della formazione che devono essere riconosciute, dal momento che solo in poche università le Medical Humanities e la Medicina Narrativa sono soggetti fondamentali di insegnamento, e non materie complementari – New York, Londra, Milano, Roma, Parigi, e probabilmente poche altre accademie. Il tempo è perso, nell’università dove si insegna troppa tecnologia, e quindi il tempo deve essere investito nel riappropriarsi di queste competenze prima che sia troppo tardi, per prevenire il rischio della de-umanizzazione della pratica medica e infermieristica.

Tuttavia, una volta investito il tempo necessario a rafforzare la pratica narrativa, è abbastanza semplice agirla nel contesto ospedaliero, e non richiede il tempo di Chronos, il tiranno. Sono tiranni cinque minuti spesi a scrivere una cartella parallela, lo spazio scritto dei pensieri dell’incontro tra medico e paziente? E il tempo perso in una sala d’attesa dove i pazienti, se vogliono, possono scrivere i loro vissuti con la malattia? E considerando un arco di otto ore al giorno, perché dovremmo dedicare lo stesso tempo a ciascun paziente? Alcuni possono richiedere venti minuti, altri cinque, altri quarantacinque, e altri ancora dieci: dipende da ciascun individuo, e il “tempo giusto” è basato su una percezione non oggettiva, ma soggettiva.

Giustificando le perdite e i risparmi di tempo, siamo già nella sfera di Chronos: qui curiamo il tempo con un cronometro. No, Kairos, il piccolo dio con le ali ai piedi, può volare, leggero nel cielo, e può prendere le nostre mani cosicché possiamo imparare a volare oltre il tempo: se ascoltiamo attentamente alcuni incontri tra medico e paziente, il “contesto” è riempito da test, studi, rimedi, farmaci. “Come ti senti?” è una domanda difficile, che permette l’espressione di un aggettivo qualitativo come “male”, “meglio”, “bene”, o l’espandersi del regno interiore con “paura”, “odio”, “sofferenza”, o “gioiosamente”. Il primo tipo di risposte riporta ai medici, in una sorta di riflesso pavloviano, a cambiare terapia, prescrivere nuovi esami, commentare il livello di emoglobina; non c’è nessun Kairos, Chronos è il vincitore, con la produttività degli studi e delle terapie. Kairos vorrebbe che noi, come bambini liberi, potessimo esprimere le emozioni, cosicché possa iniziare una autentica relazione medico-paziente. Kairos ci porta un altro modo di praticare le nostre professioni di counselor, psicoterapisti, infermieri e dottori.

Di certo, Kairos non sostituisce Chronos, ma se non facciamo nulla per bloccare il nostro comportamento stereotipato coi pazienti, come la medicina difensiva, il “muro” di Chronos sarà rinforzato, e non sarà possibile osare nuove possibilità di cambiamento della cura. Kairos è un atto di luminoso coraggio. E’ prendere spunto dalle parole dei pazienti, che a volte, ad esempio, possono esprimere preoccupazione anche davanti alla possibilità di perdere il lavoro. L’approccio di Kairos non continuerebbe a parlare della malattia, ma chiederebbe “Cosa posso fare per aiutarla a superare la paura di perdere il lavoro?”.

La medicina difensiva sta paralizzando lo sviluppo di una fresca e genuina relazione tra medico e paziente: è un approccio vecchio e conservatore, come il vecchio dio con la barba che mangia la sua prole, che in questi casi divora i pensieri e i sentimenti di medici, infermieri, e pazienti.

Allora, quando ci viene chiesto quanto ci vuole a fare Medicina Narrativa nella pratica, rispondiamo in modo provocatorio: non serve del tempo in più. È un altro modo di prendersi cura delle persone. Senza permettere ai fantasmi del fallimento di sovrastare la costruzione di incontri positivi che possono risparmiare farmaci, test e procedure.

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

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