Accendere la luce sul caregiving

Carol Ann Farkas, Professor of Medical Humanities, MCPHS University, Boston USA

 Maria Giulia Marini, Director of Innovation for Health Care Area, Fondazione ISTUD, Milano, Italy

Forse perchè riguarda principalmente “l’altro lato della luna”, la Donna.

 

Nel mondo circa il 70% delle donne è attualmente impegnata in un’attività di caregiving. Il prendersi cura è un’attitudine, che si traduce in azione, e praticata ovunque da figlie, compange, mogli, madri, zie, nipoti e assistenti a pagamento.

 

Durante la nostra recente visita ad Harvard, il prof. Arthur Kleinman, psichiatra e antropologo, ha descritto il caregiving come “la risultante d un’attitudine, una, tensione ispirata dalla cultura e dalla civilizzazione, e mero istinto naturale”. È un fenomeno biologico e sociale. La cultura intensifica o attenua lo svilupparsi umano della tendenza alla cura. Noi impariamo a curare. Tuttavia, esiste una componente di genere in molte società: i ragazzi assumono un ruolo sociale “careless” (poveri di cure), le donne  invece “careful” (piene di cura). Questa non è un’eredità patriarcale ma una legge matriarcale, quella di lasciare gli uomini fuori dall’esperienza di caregiving – qualcosa che è considerato potere delle donne, e non degli uomini.

 

Certamente, mentre il caregiving può essere potente, non è sempre potere. Non tutte le cure prestate volontariamente a persone in situazioni di fragilità e vulnerabilità possono prestare cura essere la risposta, come uno stato di dominazione e controllo da parte di altri. Noi dobbiamo tenere in considerazione anche il “fardello” della cura prestata: i caregivers, per la maggior parte donne, sono molto spesso lasciate da sole per molto tempo a prendersi cura dei membri della famiglia o di amici che soffrono per condizioni croniche. In un caso su due, le donne che diventano le sole responsabili delle cure di altri devono cambiare o  addirittura perdere il loro lavoro (dati pubblicati, Fondazione ISTUD).

 

Quindi la domanda che ci poniamo di seguito è: “Come siamo arrivati fino a qui? Le donne che prestano le loro cure sono in una posizione di scelta o di potere?  Sono gli uomini a essere stati esiliati dal caregiving o hanno obbligato le donne a diventare devote, dedicate e donatrici di cura?”

 

 

La mitologia greca e latina offre delle leggende di antiche società in Grecia, in particolare Creta, che una volta venerava la Dea dei Serpenti:  la società del  potere matriarcale. Le donne erano adorate per il loro potere riproduttivo, ed è stato loro attribuita l’invenzione dell’agricoltura in una società pacifica ed equa. Gli uomini, secondo le principali fonti storiche, sono subentrati per massacrare questa adorazione e le sue tradizioni, disperdendo il potere delle donne. Nella mitologia noi abbiamo chiari esempi della brutalità maschile: la bellissima fanciulla Europa fu rubata alle sue terre da Zeus, che aveva preso le forme di un toro furioso; Medusa fu una  bella Amazzone trasformata in un mostro da Athena – la dea della razionalità- e poi decapitata da Perseo; Persefone, figlia di Demetra, Dea del Raccolto furapita da Ade. Questi fatti rappresentano il punto di svolta dal sistema matriarcale a quello patriarcale, che raggiunge il suo picco nel concetto di “pater familiae”. Nessun potere alle donne, eccetto il prendersi cura dei figli, delle persone anziane e ammalate. Il potere femminile è stato rappresentato da Esthia, o Vesta, la dea della casa, del focolare Alle donne è stato imposto di stare a casa da quel momento, con poche eccezioni. I risultati: l’attitudine, il comportamento e il fardello del caregiving è stato relegato alle donne – che ancora sono costrette a costruire forti reti di assistenza all’interno delle loro comunità.

Le donne hanno cominciato ad essere volte alla loro emancipazione, relativamente di recente quando misurate rispetto all’intero arco della storia occidentale.

Oggi, tuttavia, entrambe le società occidentale e orientale sono profondamente cambiate. Le donne sono più libere, stanno lasciando le loro case, stanno raggiungendo l’autorealizzazione e autosufficienza attraverso l’educazione e il lavoro. E ancora, il problema con il quale molte di noi si confrontano, è bilanciare il prendersi cura di casa e famiglia e le responsabilità e ambizioni sul posto di lavoro. Il Prof. Kleinman si pone una domanda vitale: “Ma perché gli uomini sono stati esclusi? Non vedo dei vantaggi per la società nel permettere solo alle donne la pratica dell’abilità e dell’arte del caregiving, quindi creando un singolare dominio, che è tuttavia non valutato a lungo termine dalla comunità. Il caregiving deve essere un dominio condiviso in cui le persone di ogni genere dovrebbero prendersi cura degli altri, dai bambini agli anziani ai deboli. La nostra sensazione è che se releghiamo tutto alla donna nella famiglia il caregiving esce dalle professioni sanitarie assistenziali. Infatti, il caregiving rischia di diventare anemico all’interno delle professioni.”

Infatti, mentre le donne forse una volta hanno dovuto proteggere il potere che avevano in qualità di caregivers, quando erano senza alcun altro potere all’interno della società, oggigiorno le donne e gli uomini possono condividere questo potere / fardello / missione. È anacronistico in questo momento di rapido cambiamento sociale per le donne persistere a sopportare e difendere questo potere assoluto.

 

Tuttavia, condividere il potere di caregiving richiede un profondo scambio in ogni sfaccettatura della società, con le professioni sanitarie come primo obiettivo e cruciale punto di partenza. Per esempio, recentemente, le donne medico non sono solo percepite ma sono oggettivamente migliori curanti rispetto agli uomini, in quanto capaci di integrare all’interno della professione un’eredità di assistenza tramandata, rafforzata, per secoli.  Questi i dati di uno studio “La differenza di genere dei pazienti è stata analizzate in base al tasso di sopravvivenza in seguito a infarto miocardico acuto, in base al genere del medico che ha trattato il paziente. Utilizzando i dati su pazienti con infarto ammessi negli ospedali della Florida fra il 1991 e il 2010, è stato evidenziata una più elevata mortalità per pazienti di sesso femminile trattate da medici di sesso maschile. Pazienti di sesso maschile e femminile sperimentano gli stessi esiti quando trattati da medici donne.. È stato inoltre scoperto che le donne medico e gli uomini medico che si aprono di più nei confronti delle donne pazienti hanno maggior successo nella cura di pazienti donne.” (“Patient–physician gender concordance and increased mortality among female heart attack patients,” Brad N. Greenwood, Seth Carnahan, and Laura Huang, PNAS, 2018). Ricordiamo che stiamo parlando non di esiti leggeri per i pazienti, come la soddisfazione ma di tassi di mortalità. Come questi e altri ricercatori hanno dimostrato, le donne medico semplicemente spendono molto più tempo nell’ascolto del paziente rispetto a quanto fanno i loro colleghi uomini. L’ascolto è il primo atto di caregiving.

 

Nondimeno, le cure devono essere condivise, e per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo andare oltre le aspettative dei ruoli tradizionali di genere, in modo da ripensare attivamente i pattern educativi di tutte le professioni di cura, medici, infermieri, e tutti i membri del team di cura. Il Prof. Kleinman ha proseguito con forza nella critica delle “tendenze preoccupanti” nel sistema educativo sanitario:  “C’è qualcosa di tossico nel modo in cui agli studenti è insegnata la medicina oggigiorno, qualcosa di disumanizzante, che è pericoloso non solo per i pazienti, ma anche per gli stessi futuri medici. C’è qualcosa nel ‘curriculum nascosto’ delle scuole di medicina che indebolisce l’abilità degli studenti di empatia con i pazienti, per ottenere informazioni dai pazienti che possono avere un beneficio biosociale e anche relazionale. Troppo spesso gli studenti imparano che ascoltare e parlare con i pazienti non abbia la stessa importanza dell’intervento, la prescrizione, il trattamento. È complicato raccogliere le storie dei pazienti, per coinvolgerli. Tuttavia, senza le adeguate capacità, senza lo sviluppo di empatia, gli studenti tendono a entrare in burn out al quarto anno della scuola di medicina. Inoltre, l’intero sistema di cura è troppo frenetico, gerarchico, con troppo bullismo, pressione, con tempo di riposo, relax e riflessione non sufficiente – tutti fattori che contribuiscono all’insoddisfazione del curante e all’inabilità a fornire le cure infermieristiche. Il rinforzamento della riflessione critica è un atto richiesto per essere un buon donatore di cura: deve esserci il tempo e lo spazio per i curanti, per l’ascolto e la riflessione sui loro pazienti che stanno raccontandosi a loro”.

 

Uno studio di Bowman del 2009, “The Devil is at Third Year”, “il diavolo è al terzo anno” si focaliza sull’erosione dell’empatia fra i medici del futuro, che apparentemente comincia dal terzo anno della scuola di medicina. Bowman utilizza la Jefferson Scale of Empathy, dove l’empatia è definita come la capacità di comprendere le esperienze, i pensieri e la prospettiva del paziente. Le sue scoperte: “l’escalation di cinismo e l’atrofia di idealismo sono stati riconosciuti più a lungo come parte del  modo di socializzare degli studenti nella scuola di medicina e del loro adattamento al ruolo di professionista… Questa tendenza al ribasso è anche stato osservato nell’erosione etica degli studenti di medicina durante il loro tirocinio clinico… è una amnesia socializzata”.

E questo è dove la medicina narrative applicata può aiutarci a comprendere l’empatia, come un passo  cruciale verso il contenimento di questa “amnesia socializata”, e incoraggiando il caregiving come una pratica condivisa fra i caregiver senza riguardo al ruolo professionale e al genere. Un esempio: il gruppo ISTUD in Italia ha raccolto 123 narrazioni di pazienti con sclerosi multipla: il messaggio chiave trasmesso dai pazienti era  imparare da questo, vero, semplice, “Amor Vincit Omnia”: l’amore vince su tutto.   Dalle loro parole, i  pazienti instaurano relazioni e il legame è il primo  importante fattore di coping nelle loro esperienze di malattia. Dicendo questo ai medici,  tuttavia, alcuni di loro svalutano questa tendenza che i professionisti definiscono “romantica” asserendo che i pazienti necessitano di informazioni realistiche circa le sfide che dovranno affrontare in quanto vivono con la sclerosi multipla.. Questi neurologi non erano contenti di un tale alto livello di energia emozionale nelle emozioni di questi pazienti. Possiamo supporre che probabilmente questo è un sistema di autodifesa da parte di questi medici, a cui non è stato esplicitamente insegnato come superare la vulnerabilità e la disabilità dei loro pazienti, specialmente quelli più giovani. Meglio nascondersi dietro a ragionamenti tecnici, per coprire l’impotenza del ristabilire la salute e guarendoli da questa condizione.

E ancora, l’empatia è erosa dalla distanza di questo “ sguardo clinica”, come la prof. Rita Charon ha argomentato “Una medicina praticata senza una consapevolezza genuina e formale su a cosa i pazienti vanno incontro soddisfa degli obiettivi tecnici, ma è una medicina vuota, o nel caso migliore, una mezza medicina” E più di questo, la pratica tecnica copre la parte emozionale, la paura dell’impotenza, il sentimento di inadeguatezza, la rabbia per non avere nelle proprie mani l”Elisir di lunga vita”.

 

Cosa fare, pragmaticamente, per favorire lo sviluppo dell’empatia? Il Prof. Kleinman sostiene la necessità di esigere che i futuri operatori sanitari si facciano carico degli atti di assistenza più intimi e semplici, in quei periodi prima e dopo essere stati immersi – ed empaticamente impoveriti – nella loro educazione formale: “Ci sono troppe prove ed esami nel resto del programma di studi perché gli studenti possano fare un’esperienza di assistenza di questo tipo. Ma c’è un programma molto intelligente e interessante a Leiden, in Olanda, in cui i futuri studenti della scuola di medicina risiedono durante il periodo estivo nelle case dei pazienti.  Essi compiono le attività di caregiving: per confortare, rassicurare, lavare, nutrire, pulire, vestire e ancora  tutte le altre azioni necessarie. È un periodo educativo molto significativo; gli studenti non sono ancora impegnati con tutti i loro esami, e funziona. L’altro periodo in cui si potrebbe studiare scienze mediche umanistiche potrebbe essere l’ultimo anno del percorso medico”.

Riteniamo che questo programma svolto presso la scuola dell’Università di Leiden potrebbe essere esteso a livello comunitario fin già nella scuola superiore, integrando il caregiving in qualsiasi studio o lavoro si voglia intraprendere. Molti degli studenti della MCPHS- Massachusetts College of Pharmacy and Health Sciences- University di Boston fungono da esempio ispiratore per questo tipo di assistenza: i nostri studenti diventano tecnici di ambulanze mentre ancora frequentano le scuole superiori; lavorano in centri diurni e case di cura; fanno volontariato come scrittori, traduttori  a difesa dei pazienti in pronto soccorso, lavorano nei centri di emergenza dello stupro e nei posti di rifugio per senzatetto; partecipano a viaggi di servizio medico nelle regioni svantaggiate degli Stati Uniti e dei Caraibi. Una parte di questo servizio è obbligatorio come parte del loro programma di studio; la maggior parte di esso è animato dagli studenti stessi, che vedono l’assistenza delle loro famiglie e comunità come perfettamente interconnesse. Possiamo imparare dal loro esempio: il caregiving non dovrebbe essere solo nelle mani dei fornitori di assistenza sanitaria e delle istituzioni, ma nelle mani dell’umanità, un caregiving sociale gestito da ragazzi e ragazze, donne e uomini. E il paradigma femminile del caregiving si sta muovendo più velocemente verso entrambi i generi, uomini compresi, finalmente  dedicati a questo tema nelle nuove generazioni di oggi e a venire.

 

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

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