UNA PAROLA IN 500 PAROLE: UMANITÀ 

“Umanità” deriva dal latino humanĭtas, che indicava non solo l’appartenenza alla specie umana, ma anche gentilezza, cultura, compassione. È affine a humanus, “umano”, e si oppone a inhumanus, colui che non partecipa della civilizzazione dell’animo. Ma c’è un’origine ancora più profonda: la parola humanus viene da humus, “terra”, il suolo da cui l’essere umano è tratto. Da qui anche humilis, “umile”, che ci ricorda la natura fragile e terrena dell’essere umano. In questo senso, l’umanità non è solo una condizione biologica, ma una qualità morale e relazionale, radicata nella consapevolezza dei propri limiti. 

Nel contesto della medicina narrativa, il termine assume un significato ancora più profondo. L’umanità permette di vedere il paziente non solo come portatore di una malattia, ma come persona. È la lente attraverso cui la sofferenza viene riconosciuta e accolta. Se l’autenticità riguarda l’espressione di sé, l’umanità riguarda il riconoscimento reciproco: io vedo te perché ti ascolto, ti credo, ti rispetto. Questo implica un’umiltà narrativa, cioè la disponibilità del medico o del professionista sanitario ad accogliere la storia dell’altro, lasciandosi toccare dalla sua fragilità. Saper ascoltare, in questo senso, è già un atto di cura. 

Questa visione si intreccia con l’etica del “care” (la cura), che pone al centro la relazione. La filosofa Martha Nussbaum ha evidenziato come la vulnerabilità sia una componente essenziale dell’umano. Non è un limite da correggere, ma una condizione da accogliere. L’umanità si manifesta proprio nella capacità di stare accanto, di riconoscersi nell’altro anche nella sua sofferenza. Curare, quindi, non è solo applicare conoscenze, ma entrare in relazione con chi è fragile, con humilitas

Il viandante sul mare di nebbia – Caspar David Friedrich

Ma questa umanità può essere messa in crisi. In ambito sanitario, la fretta, la standardizzazione, il tecnicismo rischiano di ridurre il paziente a un caso clinico. Recuperare l’umanità nella cura significa tornare a guardare la persona nella sua interezza: corpo, mente, emozioni, storia. Come per il consenso informato — che non è solo un atto formale ma un momento di riconoscimento reciproco — anche l’umanità richiede tempo, linguaggio condiviso, presenza. 

E richiede anche umiltà: la capacità del curante di non porsi come superiore, ma come testimone partecipe della storia dell’altro. La medicina narrativa ci insegna che curare è anche sapersi lasciar toccare: dai racconti, dalle paure, dalle speranze. Umanità non è solo ciò che si dà: è anche ciò che si riceve. 

Parlare di umanità in sanità non è retorico. È un atto politico e culturale. Significa chiedersi: come vogliamo essere curati? Come vogliamo curare? Quale spazio diamo alla fragilità e all’empatia? 

Umanità è ciò che resta quando tutto il resto manca. È ciò che fa sentire visti, anche nel momento della massima esposizione. E ci ricorda che la cura — prima ancora di essere sapere — è relazione, radicata nella terra comune dell’essere umano. 


Bibliografia:

  1. Vocabolario Treccani – voce “umanità” https://www.treccani.it/vocabolario/umanita 
  2. Martha C. Nussbaum (2006)Frontiers of Justice: Disability, Nationality, Species Membership Harvard University Press
  3. Rita CharonNarrative Medicine: Honoring the Stories of Illness (2006) 
  4. Joan Tronto (1993)Moral Boundaries: A Political Argument for an Ethic of Care 

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