“THE LATE SHIFT” DI PETRA VOLPE: UN FILM NECESSARIO SULLA SANITÀ E SUL RUOLO INVISIBILE DEGLI INFERMIERI

Scienza e Carità, 1897 – Pablo Picasso

Conoscendo la sanità e tifando per la sanità pubblica, non possiamo non commentare il bellissimo film di Petra Volpe, già regista de La sala professori e de L’ultimo turno, The late shift. Se nel film dedicato alla scuola i protagonisti erano insegnanti, studenti, genitori e management, qui i ruoli principali sono affidati agli infermieri e ai pazienti, mentre i medici restano sullo sfondo e il management è praticamente invisibile.

Fin dall’inizio colpisce lo squilibrio: pochissimi infermieri rispetto all’alto numero di pazienti da curare. Per la maggior parte donne, questi professionisti si fanno carico di tutto: prendere la temperatura, somministrare antibiotici e analgesici, preparare i pazienti a esami e interventi, riuscire a trovare una vena, cambiare il sacchetto di una stomia. E soprattutto ascoltare, perché i pazienti si confidano con chi vedono più spesso. Il management non porta nuove risorse, serve solo a raccogliere eventuali reclami scritti. Nessuna gratificazione, nessun riconoscimento: turni iniziati col sorriso finiscono spesso tra lacrime e sfinimento.

Sebbene i protocolli di gestione del rischio siano rispettati – come scrivere il nome del paziente sul bicchierino dei farmaci – la protagonista,  l’infermiera Floria, arriva a confondere due terapie. Non è un errore dovuto a lassismo, pigrizia o negligenza, ma al sovraccarico di lavoro che spegnerebbe la lucidità a chiunque. Così accade che un paziente riceva morfina e dorma un po’ di più senza conseguenze, ma un altro, allergico, sviluppi una reazione anafilattica. Floria avvisa subito il medico, che interviene e comprende. Il paziente si salva, e il film mostra chiaramente che la colpa non è dell’infermiera, bensì di un sistema logorato che spinge oltre i limiti anche i più esperti e competenti.

In questo mondo privo di un management attento i protagonisti inventano soluzioni dal basso: una familiare aiuta a spingere una barella, due pazienti si ritrovano a giocare a scacchi, una stagista inesperta dà comunque il massimo di sé. Ma la vera energia nasce dalla narrazione altra, quella che va oltre la temperatura o la scala del dolore: Floria scrive in cartella che una signora anziana con demenza ama cantare, e così, per calmarla, inizia a intonare una ninna nanna finché la paziente canta con lei. Oppure accoglie in silenzio la confessione di una donna con tumore al seno metastatico, che le dice che proseguirebbe la chemioterapia soltanto per i suoi figli: Floria non la influenza, non la giudica, ma resta accanto a lei prendendole la mano.

I medici sono sullo sfondo. Gli internisti risultano più presenti, mentre i chirurghi appaiono distanti non solo emotivamente, ma anche fisicamente: lavorano in un altro piano dell’ospedale, nelle sale operatorie, lontani dalla vita quotidiana della corsia. Operano dalla mattina alla sera e spesso non se la sentono di comunicare notizie spiacevoli. Forse uno stereotipo, ma confermato anche dai dati: a furia di vedere pazienti addormentati, si rischia di perdere la capacità di parlare davvero con loro.

Il finale, struggente e che non voglio anticipare, lascia sospesi. Il titolo originale, The Late Shift, tradotto malamente come “L’ultimo turno”, apre un interrogativo: è tardi per l’infermiera protagonista? È tardi per il sistema sanitario? È tardi per medici e personale tutto per provare a salvaguardarlo? I titoli di coda, illuminanti, parlano della futura carenza mondiale di infermieri.

Secondo il rapporto State of the World’s Nursing 2025 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la forza lavoro infermieristica è cresciuta da 27,9 milioni nel 2018 a 29,8 milioni nel 2023, ma la carenza resta grave: 5,8 milioni di infermieri mancanti nel 2023, con una proiezione di riduzione a 4,1 milioni entro il 2030.

È vero che in Svizzera gli infermieri sono meglio retribuiti che in Italia, ma la sostanza del lavoro e la scarsità di risorse non cambia. Oggi però ho visto sui social una foto meravigliosa: un gruppo di infermieri latinoamericani che, con orgoglio, salivano su un carro a rappresentare il carro del vincitore. Sì, perché vincitori lo sono davvero: sebbene invisibili al management, hanno in mano non solo il corpo, ma anche la mente e l’anima dei pazienti. È questo il senso profondo della professione.

Come ricorda Paola Gobbi, infermiera: “Il problema della mancanza di infermieri, e più in generale di professionisti (e operatori) sanitari e sociali, è il problema di una intera collettività. Senza interventi immediati, e di lungo respiro, che vanno dal rendere la professione più attrattiva tra i giovani, tali da incentivare l’iscrizione e la frequenza ai corsi di laurea, a condizioni organizzative migliori, in termini quali quantitativi, a veri percorsi di carriera con adeguati riconoscimenti economici i paesi occidentali non riusciranno a dare risposte ai bisogni assistenziali della popolazione, né di chi è ricoverato per acuzie, né della popolazione anziana e fragile presa in carico al domicilio, sul territorio e nelle strutture residenziali. Perché senza infermieri non c’è salute. E questo – ce lo ricorda anche il film nelle commuoventi scene della fine del turno, riferite ai pazienti di Floria che serenamente affrontano la notte – non è uno slogan”.

Attenzione allora: salviamo questa categoria, invitiamo i ragazzi a iscriversi a Scienze infermieristiche, abbassiamo gli stipendi dei parlamentari e alziamo quelli degli infermieri. Perché senza infermieri non ci sarà assistenza e cura.

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

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