MEDICINA NARRATIVA E PERSONALIZZATA: RICONOSCERE L’UNICITÀ DEL PAZIENTE – INTERVISTA AD ALESSANDRO GRINGERI

Alessandro Gringeri è medico, ematologo, senior medical advisor per Fondazione Charta. La sua esperienza, maturata in ambito clinico e farmaceutico internazionale, si distingue per una particolare attenzione alla dimensione relazionale della cura, che ha approfondito frequentando anche il Master ISTUD in Medicina Narrativa Applicata. Oggi dedica parte del suo impegno alla promozione di questo approccio come strumento concreto e trasformativo. Coniugando rigore scientifico e ascolto, riflette su come la parola — quando davvero accolta — possa diventare parte integrante della pratica clinica.

“Fishing Boats in the Lagoon, Venice” – Beppe Ciardi
  • Cominciamo dal tuo percorso personale: com’è stata per te l’esperienza del Master in Medicina Narrativa Applicata? Cosa ti ha lasciato, professionalmente e umanamente? In che modo ha cambiato — se lo ha fatto — il tuo sguardo sulla cura e sul ruolo del medico?

La partecipazione al Master, oltre a darmi modo di conoscere nel concreto come applicare la Medicina Narrativa nella mia pratica clinica e gli strumenti per la ricerca basata sulle narrazioni, mi ha permesso di venire in contatto con esperti di livello nazionale e internazionale, di poter rivolgere a loro domande (anche molto pratiche) e di avere da loro consigli su un approccio metodologico ben strutturato.

Inoltre, forse ancora più importante, il master mi ha aperto un nuovo orizzonte, una nuova prospettiva, o meglio, una nuova profondità all’approccio empatico che già ritenevo di avere nel mio rapporto con il malato e la sua malattia, con un diverso modo di ascoltare.

  • Quando  Partiamo da un gesto semplice, ma non scontato: quando un medico si prende il tempo di ascoltare davvero la storia di un paziente, cosa succede?

Dedicare, fin dall’inizio dell’incontro con il malato, un tempo – e non ci vogliono ore, ma qualche minuto di qualità – per ascoltare con attenzione, per guardarlo negli occhi, per capire i suoi bisogni profondi, che vanno al di là del desiderare la guarigione o migliorare la convivenza con la malattia, le difficoltà, le resistenze e le paure verso la terapia (e spesso anche verso le metodiche diagnostiche), trasforma il rapporto, lo approfondisce. Dal punto di vista puramente clinico, permette di meglio capire la sintomatologia, di evitare sottovalutazioni pericolose o diagnosi affrettate e, infine, di ottenere una maggiore adesione e concordanza alle scelte terapeutiche.

  • Integrare la narrazione nella pratica clinica significa anche trovare un equilibrio tra rigore scientifico, protocolli e ascolto empatico. Nella tua esperienza, quali difficoltà o resistenze — che siano culturali, personali o legati all’organizzazione — emergono nel tentativo di coniugare questi aspetti? Pensi che la medicina narrativa resti una sfida oppure stia diventando una componente sempre più naturale della cura?

La Medicina non è una scienza esatta e si basa su frequenze statistiche calcolate a volte su decine di migliaia di osservazioni. Queste evidenze ci permettono di capire la risposta “prevalente” della malattia a determinati farmaci. Ma ogni individuo è diverso dall’altro e la stessa terapia può avere efficacia diversa: la medicina si sta progressivamente orientando verso una medicina cosiddetta di Precisione, ritagliata sul soggetto e le caratteristiche del suo DNA, del suo corpo fisico e della sua malattia. Rimane assente la persona, il suo sentire, il suo rapporto con la famiglia e la società, e il suo spirito. Parlare di questo oggi in Italia è difficile, è talvolta schernito, spesso considerato come minimo superfluo e superficiale. Parlandone nei convegni però si scopre che questi argomenti riescono ad aprire una breccia, per ora in una minoranza, ma che non può non contagiare progressivamente sempre più operatori sanitari. La stessa ricerca basata sulle narrazioni è spesso considerata di serie B, perché è una ricerca qualitativa e non quantitativa. Ma anche questa progressivamente conquisterà più operatori, con l’esempio di quanta conoscenza può portare.

  • La medicina narrativa non riguarda solo la singola storia personale, ma anche il contesto culturale e sociale in cui il paziente vive. Nel tuo lavoro con le malattie ematologiche, come utilizzi gli strumenti della medicina narrativa per raccogliere queste informazioni? Pensi che questa prospettiva possa portare vantaggi concreti nella gestione della cura?

A mio parere, l’individuo, inteso come entità singola e a sé stante, non sussiste: siamo sì come cellule, ma che da sole non sono niente, mentre insieme ad altre cellule costituiscono un tessuto, che insieme ad altri tessuti forma un organo, il quale a sua volta è inserito in un insieme di organi collegati fra loro. L’individuo, anche contro la sua volontà, è inserito in gruppo famigliare o di conoscenze, che a loro volta fanno parte di un certo ambito sociale (scolastico, lavorativo, amicale, di quartiere, ecc.). Analizzare l’individuo malato come una singola entità è come studiare una singola cellula senza sapere come interagisce, influenza ed è influenzata dal tessuto di cui fa parte e come questo si rapporti con tutto l’organo e quindi con l’intero corpo.

Malattie croniche, come quelle ematologiche per esempio, necessitano – e non è un optional – di conoscere il supporto che il paziente potrebbe ricevere dalla propria famiglia o dall’ambito sociale in cui è inserito, o viceversa, quali ostacoli alla cura e in genere alla vita e alla sua qualità, possono essere posti proprio dall’ambito sociale. Questo consentirebbe di meglio modulare la terapia e l’assistenza, prendendosi veramente cura del malato e non solo della malattia.

  • Guardando alla tua esperienza con la medicina narrativa, c’è un progetto che ti ha coinvolto in modo speciale — o uno che vorresti veder nascere?

È difficile scegliere tra uno dei numerosi progetti presentati durante le lezioni del Master e direttamente dagli altri partecipanti con le loro tesi. Oltre all’enorme interesse delle “evidenze” che hanno raccolto tramite i loro progetti, questi mi hanno stimolato la voglia di concepirne altri, che possano raccogliere queste che chiamo “evidenze” suscitate dalle narrazioni e dalla loro analisi, anche per diffondere la pratica della Medicina Narrativa e delle grandi possibilità che ha.

  • Qual è, per te, il potenziale più profondo della medicina narrativa? Che impatto reale può avere sulla qualità della cura, sull’esperienza del paziente, sul ruolo e la formazione del medico e sulla visione stessa di salute?

L’approccio della Medicina Narrativa al malato, in breve, consente un vero rapporto operatore sanitario e paziente, lo stabilire e rinforzare l’empatia, reciprocamente (anche chi presta la cura ha bisogno di essere “capito”, spesso, per esempio, nella sua frustrazione e impotenza nel fornire una più efficace e/o tollerabile terapia), nell’ottenere una migliore adesione al trattamento (concordanza) e quindi migliori risultati o comunque una migliore qualità di vita correlata alla salute, nel diminuire il ricorso, anche questo reciproco, alla medicina difensiva o, peggio, alle reazioni violente verso gli operatori sanitario o l’uso di un linguaggio “violento” nella comunicazione con il malato e i suoi famigliari.

Inoltre, la Medicina Narrativa insegna agli operatori sanitari che il malato non è la sua malattia, che fare la diagnosi giusta è tanto, ma non basta, che la terapia deve essere individualizzata non solo sulle caratteristiche individuali della malattia e sulla farmacogenomica specifica del paziente, ma anche sulla persona che è malata.
Ci sarebbe ancora tanto da dire, ma molta è oggi la produzione di libri e articoli che molto meglio descrivono i benefici della Medicina Narrativa. Quello che suggerisco io è di iscriversi al Master di ISTUD, di visitare il sito medicinanarrativa.eu e tutto il materiale che offre e non ultimo di partecipare alle interessantissime “letture” della European Narrative Medicine Society.

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