CULTURA, SISTEMA, NARRAZIONE: RIPENSARE LA CURA – INTERVISTA A MARCO TESTA

Marco Testa è cardiologo presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Sant’Andrea di Roma, specializzato in cardiologia clinica e molecolare. Docente alla Sapienza Università di Roma, integra l’insegnamento clinico con le Medical Humanities, promuovendo un approccio centrato sulla persona.
Presidente della Società Italiana di Medicina Narrativa (SIMeN), si dedica alla diffusione della Medicina Narrativa come pratica clinica integrata, valorizzando l’ascolto attivo, la scrittura riflessiva e la formazione umanistica. Con il suo impegno contribuisce a innovare la relazione di cura, rendendola più partecipata e attenta al vissuto individuale.

Arearea (Joyfulness) – Paul Gauguin
  • Cosa rappresenta per te come medico la medicina narrativa?

Grazie per questa domanda che mi permette di ripercorrere quello che ritengo un percorso di crescita personale e professionale, che parte dai primi anni del corso di laurea e arriva fino ad oggi, fino al mio impegno come presidente della Società Italiana di Medicina Narrativa – SIMeN.

La Medicina Narrativa rappresenta per me innanzitutto un ritorno alle origini più autentiche della professione medica. Come già ci diceva Karl Jaspers alcuni decenni or sono, e da allora sempre di più, la professione medica, sta andando in una direzione ipertecnologica che rischia di portarci a riparare un corpo, anzi spesso solo isolati organi, piuttosto che curare una persona.

La Medicina Narrativa ha permesso a me, e così spero sia anche per molti altri, di ritrovare quella dimensione relazionale che avevo intuito già durante gli anni universitari, quando seguivo i corsi di antropologia medica e bioetica del Professor Sandro Spinsanti, un vero pioniere per l’Italia, e non solo, di una necessaria riacquisizione di anima della medicina. È stata una vera e propria rivoluzione copernicana: aver rimesso al centro la persona mi ha dato nuove motivazioni per la mia professione.

Per me la Medicina Narrativa è in primis una “postura”- come ci spiega magistralmente Paolo Trenta – un modo di stare nella relazione di cura che riconosce nell’altro non un oggetto di studio, ma un soggetto portatore di senso, una persona che vive la malattia con tutto il suo bagaglio esistenziale.

Non si tratta di essere semplicemente gentili o umani – quello è imprescindibile per chiunque – ma, in accordo con la Consensus Conference dell’Istituto Superiore di Sanità del 2015, di avere competenze specifiche per utilizzare la narrazione per “acquisire, comprendere e integrare” il punto di vista di tutte le persone che intervengono nel processo di cura con il fine di creare un progetto terapeutico tagliato sempre di più addosso alla persona.

  • Perché serve a essere un curante?

La Medicina Narrativa serve al curante perché gli permette di offrire una medicina migliore, più completa e più efficace. Quando integriamo l’ascolto narrativo con il colloquio clinico e la diagnostica, otteniamo una personalizzazione bio-psico-sociale del percorso di cura che va ben oltre quello che possiamo raggiungere con la sola Evidence-Based Medicine.

Nel mio lavoro di cardiologo, ho scoperto che, quando un paziente con scompenso cardiaco mi dice che il suo cuore è “come un motore che va a singhiozzo”, non mi sta solo descrivendo un sintomo – mi sta offrendo l’accesso al mondo della sua esperienza. Le metafore che utilizzano i pazienti – nei miei studi ho visto come chi accetta un defibrillatore lo descrive come “paracadute” o “rete di salvataggio”, mentre chi non l’accetta lo vede come “intruso” – ci permettono di adattare la comunicazione e supportare i pazienti anche dal punto di vista esistenziale.

Ma la Medicina Narrativa serve al curante anche per proteggersi dal burnout. Come dice Anatole Broyard, “rinunciare a un po’ dell’autorevolezza del medico in cambio di più umanità non è un cattivo affare, perché imparando a entrare maggiormente in relazione con i propri pazienti, il medico può imparare ad amare meglio il proprio lavoro”. Passare da una logica prestazionale a una logica relazionale comporta vantaggi enormi anche per noi operatori: essere riconosciuti come persone, con le nostre competenze ma anche le nostre fragilità, ci aiuta a prevenire l’esaurimento emotivo.

  • Parliamo della Società Italiana di Medicina Narrativa – SIMeN: cosa vi proponete?

SIMeN è un’esperienza peculiare nel panorama internazionale. La nostra missione fondamentale è promuovere e diffondere la medicina narrativa in Italia, rafforzando il legame tra pazienti, caregiver, operatori sanitari, ricercatori e associazioni.

Nel nostro documento programmatico 2024-2027, che abbiamo approvato come nuovo Consiglio Direttivo, ci prefiggiamo obiettivi molto ambiziosi. Prima di tutto, vogliamo essere davvero incisivi nella pratica clinica quotidiana di ogni operatore sanitario. I dati di una recente survey di MioDottore ci dicono che la quasi totalità dei pazienti (97%) e circa la metà dei medici (57%) in Italia ancora non sa cosa sia la Medicina Narrativa – c’è quindi molto lavoro da fare.

I nostri pilastri sono tre: formazione, ricerca e divulgazione. Nella formazione, continuiamo con i corsi per Facilitatori di Laboratori di Medicina Narrativa: nelle scorse cinque edizioni di corso Base e cinque edizioni di Corso Avanzato si sono ad oggi formati circa duecentocinquanta Facilitatori e in questo momento si sta svolgendo la sesta edizione del Corso Base con altri ventisei iscritti. Il compito del Facilitatore è quello di guidare laboratori narrativo-esperienziali e costruire progetti di Medicina Narrativa, applicando nelle pratiche di cura sanitarie ed educative gli strumenti e i metodi della Medicina Narrativa.

Stiamo anche lavorando allo sviluppo di un percorso formativo più orientato alla parte clinico-assistenziale, per formare operatori sanitari che acquisiscano e sappiano sfruttare al meglio competenze narrativa nel corso delle visite con i loro pazienti e nella interazione con i caregiver.

Sul fronte della ricerca, è attivo il Centro Studi CESIMeN e stiamo lavorando per diventare una Società Scientifica sempre più riconosciuta. Collaboriamo con l’Istituto Superiore di Sanità e vogliamo potenziare la produzione scientifica nel campo della Medicina Narrativa.

Ma quello che ci preme di più è creare una consapevolezza che porti pazienti e operatori ad avere sempre più la “pretesa di una cura maggiormente partecipata”, come dico spesso. Vogliamo influenzare la cultura e le istituzioni sanitarie per passare, come già dicevo, da una logica prestazionale a una logica relazionale.

  • Cosa si può fare per vedere le Medical Humanities, e in particolare la Medicina Narrativa, integrate più diffusamente nei percorsi formativi dei futuri medici?

Questa è una delle sfide più importanti che abbiamo davanti. Da otto anni, come ben sa la professoressa Marini che è stata tante volte nostra docente ospite, coordino un corso di Medicina Narrativa per gli studenti del corso di laurea in Medicina e Chirurgia presso la Facoltà di Medicina e Psicologia di “Sapienza” – Università di Roma, e posso dire che l’interesse e la risposta degli studenti sono sempre molto positivi. Quest’anno, per esempio, abbiamo avuto in aula oltre cento studenti per volta nell’occasione di due ADE, per le quali avevo coinvolto rispettivamente Paolo Trenta e Antonia Chiara Scardicchio, ma solo una parte di loro ha frequentato l’intero corso, che consta di trentasei ore di lezione ed è al momento facoltativo. Questi ultimi chiaramente escono dal corso con una consapevolezza e un impegno a vivere la loro professione secondo gli insegnamenti della Medicina Narrativa molto più profondi! Cosa fare per coinvolgere gli altri? Non ho mai voluto rendere il corso obbligatorio, forse sbagliando…

Sul panorama nazionale sebbene ci siano Facoltà in cui da anni esistono insegnamenti di Medicina Narrativa, variamente organizzati come metodologia e durata, siamo lontanissimi dall’inserimento diffuso di questa formazione nei percorsi di laurea in Medicina e Professioni Sanitarie. Questo è un problema sistemico che richiede un cambiamento culturale profondo nel mondo accademico.

Le Medical Humanities sono insegnate, spesso in modo episodico e nel contesto di corsi non dedicati, in più Atenei: questo è già tanto, ma a mio parere quello a cui dobbiamo davvero puntare, non solo nel percorso accademico delle facoltà di Medicina ma in quelli di tutte le Professioni Sanitarie, è proprio un insegnamento di Medicina Narrativa stricto sensu.

Credo che serva innanzitutto una maggiore sensibilizzazione dei decisori accademici sui benefici concreti della Medicina Narrativa. I dati della letteratura scientifica – come quelli analizzati da Palla, Turchetti e Polvani nel loro articolo del 2024 – evidenziano chiaramente i vantaggi: miglioramento della relazione di cura, maggiore aderenza terapeutica, migliore qualità di vita percepita dai pazienti. Serve lavorare a livello istituzionale per far comprendere che la Medicina Narrativa non è un lusso o un’aggiunta accessoria, ma è parte integrante di una medicina moderna, completa, attenta alla persona.

La formazione alle competenze narrative dovrebbe essere considerata alla stregua della formazione in farmacologia o in diagnostica. Siamo nell’epoca della medicina di precisione, delle omiche, e la Medicina Narrativa deve essere considerata proprio alla stregua delle omiche: tramite la narrazione ci permette di essere “precisi” nel trattare quella specifica persona che vive la sua malattia a modo suo.

È inoltre fondamentale che la formazione di Medicina Narrativa venga reiterata oltre la formazione accademica di base. Come SIMeN stiamo sviluppando partnership con Università che hanno il desiderio e la possibilità di attivare percorsi avanzati in ambito di Medical Humanities e Medicina Narrativa e proponendo, già da anni, corsi ECM per tutte le Professioni Sanitarie, da attuare nell’ambito delle strutture sanitarie o anche esternamente.

L’obiettivo finale è che la Medicina Narrativa diventi il modus operandi di un numero sempre crescente di operatori sanitari, e questo può avvenire solo se partiamo dalla formazione di base, dai banchi universitari, e se poi accompagniamo gli operatori durante tutta la loro vita professionale.

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