Anna Beug è medico di medicina generale ed educatrice medica a Dublino, in Irlanda. Lavora da oltre vent’anni in un’area svantaggiata del centro sud della città, dove ha sviluppato una profonda esperienza clinica a stretto contatto con contesti di fragilità e vulnerabilità. Fin dall’inizio della sua carriera affianca all’attività clinica un forte impegno nella formazione. Insegna agli studenti del Trinity College di Dublino e, oggi, gran parte della sua attività didattica si concentra nella formazione post-laurea. Lavora con medici in formazione specialistica, sia individualmente che in gruppo, e collabora con colleghi esperti a livello nazionale, in particolare negli ambiti della salute mentale, delle competenze comunicative e del dolore persistente. In continuità con questo percorso, è recentemente entrata a far parte della faculty del Master in Medicina Narrativa Applicata di Fondazione ISTUD.

- Anna, in che modo la pratica narrativa ha influenzato il tuo lavoro?
Ho conosciuto la pratica narrativa circa dieci anni fa, quando sono venuta a conoscenza del modello di pratica CIC (Conversazioni che Invitano al Cambiamento) – il lavoro del dottor John Launer (vedi risorse). Già abbastanza affermato come clinico e insegnante, i principi della pratica narrativa sembravano essere qualcosa che avevo cercato a lungo. Negli ultimi anni, le idee narrative, e la CIC in particolare, hanno influenzato profondamente la mia pratica clinica e il mio insegnamento. Sono un facilitatore CIC accreditato, tengo regolarmente workshop CIC sia online che di persona e ho iniziato a introdurre la pratica narrativa nella formazione dei medici di base qui a Dublino.
La CIC si basa sulle idee degli studi narrativi, del pensiero sistemico, della teoria della comunicazione e della teoria educativa. È un approccio che promuove una precisa attenzione al linguaggio e l’idea che gli obiettivi di ogni conversazione non debbano essere predeterminati. Offre a coloro che vogliono imparare questa pratica le competenze precise per dare alle storie dei pazienti “spazio per respirare” e una metodologia di formazione strettamente coordinata e disciplinata per aiutare i medici ad acquisire queste competenze.
Da un punto di vista personale, il mio incontro con la pratica narrativa ha cambiato significativamente il mio approccio nella relazione di cura. Ho imparato qualcosa di cruciale sulla curiosità, un’attitudine essenziale per far emergere la narrazione. Ho imparato a essere più tollerante nei confronti di una posizione di “non sapere”. Ho fatto progressi nel separare l’ascolto dall’esigenza di risolvere subito. Sono affascinata da “l’ arte di fare domande” e dal comprendere qualcosa in merito al loro enorme potere. So che non posso dimenticare i miei obblighi di medico e che devo imparare a combinare la narrazione con la normativa.
Le capacità narrative sono qualcosa che ho dovuto imparare a usare in modo flessibile. Sono sempre in lotta contro il tempo, ma anche piccoli momenti di ascolto possono essere di grande impatto. Il mio lavoro nel campo della salute mentale e del dolore persistente mi ha insegnato che le storie di sofferenza apparentemente intrattabili sono spesso le più difficili da ascoltare. Mi mettono a confronto con i miei fallimenti come professionista della cura e, avere una tecnica per guidare il mio ascolto in questi momenti, è stato utile e gratificante. Ho imparato che, se riesco a trovare un modo per dare spazio a queste storie, posso fare un’enorme differenza per i miei pazienti.
All’inizio temevo che una maggiore apertura alle storie dei pazienti mi avrebbe rallentato e sopraffatto, ma man mano che sono diventata più abile nelle tecniche narrative si è verificato il contrario. Parlo di meno, spiego di meno e faccio domande più brevi, più interessate e più creative. Un altro effetto inaspettato legato alla pratica narrativa è la gioia che provo nell’ascoltare i dettagli sorprendenti e inaspettati delle storie dei pazienti che altrimenti andrebbero persi. In un mondo medico sempre più stressante e burocratico, prestare attenzione alle narrazioni mi ricorda l’umanità del lavoro, l’arte della medicina.
- Cosa hai imparato insegnando i metodi narrativi? Quali sono le sfide principali?
Insegnare la pratica narrativa è stato per me impegnativo e allo stesso tempo estremamente gratificante e ho avuto la fortuna di ricevere riscontri molto dettagliati dai miei tirocinanti. Mi hanno illustrato le sfide che affrontano nell’esplorare questi metodi e nel cercare di applicarli alla pratica quotidiana. Per molti anni la loro onestà nel condividere le loro difficoltà mi ha guidato nell’adattare il mio insegnamento.
Una delle preoccupazioni più urgenti dei medici quando viene loro chiesto di adottare un atteggiamento più curioso riguarda il tempo. Comprensibilmente, temono che far emergere le storie significhi ottenere storie più lunghe. Sebbene talvolta ciò accada, spesso accade il contrario. Il mio lavoro di educatrice sembra consistere nel dare loro incoraggiamento, supporto e tecniche per provarci. Molto rapidamente scoprono che, se si dà spazio, i pazienti non solo arrivano al cuore della questione molto più in fretta, ma possono anche offrire idee molto utili su come gestire i loro stessi problemi. A volte ho detto ai tirocinanti: ‘Se riusciamo a farci da parte, saranno i nostri pazienti a fare gran parte del lavoro per noi’. Questo tipo di atteggiamento richiede la disponibilità a rinunciare al controllo, a condividere il potere in modo molto più equo con i nostri pazienti e a comprendere che a volte “cercare una cura” è solo un’opzione in medicina. Ritengo importante ricordare agli studenti che le competenze narrative possono essere utilizzate con flessibilità. Nelle emergenze il medico deve essere concentrato e deciso. Nelle visite molto semplici, che riguardano malattie minori, le abilità narrative non sono così critiche. Credo che queste competenze contino di più nelle consultazioni più complesse e, certamente, nella medicina di base, la mia esperienza mi insegna che le pratiche narrative possono trasformare questi incontri sia per il medico che per il paziente.
Ho incontrato una vasta gamma di reazioni ai miei tentativi di insegnare la pratica narrativa ai medici. Le resistenze sono diverse e di natura personale. Ho anche riflettuto a fondo sulle mie stesse resistenze, che continuano a emergere ogni giorno. Uno dei grandi punti di forza del metodo CIC per me è che viene insegnato in un contesto supervisionato. Le tecniche vengono esercitate chiedendo agli studenti di “supervisionarsi” a vicenda mentre parlano di dilemmi professionali. Questo crea uno spazio sicuro in cui è possibile mettere in pratica le competenze narrative. Inoltre, offre ai medici un’esperienza diretta di ascolto delle proprie storie e permette loro di diventare più riflessivi sulle loro interazioni reciproche e con i pazienti. La supervisione formale, obbligatoria per molti professionisti che lavorano nell’ambito della salute mentale, è quasi del tutto assente in medicina. La CIC, secondo la mia esperienza, può contribuire in qualche modo a colmare questa lacuna.
Adottare un atteggiamento narrativo significa per il medico fare un passo indietro, cedere potere al paziente e spazio alla sua storia. Significa immaginare di non dover necessariamente risolvere tutto ciò che si ascolta e avere fiducia nel fatto che, quando tutto il resto fallisce, l’ascolto conserva comunque il suo valore. Il grado di resistenza a queste idee è strettamente legato al rapporto che ogni medico ha con la conoscenza, con il potere e con il bisogno di “aggiustare” le cose. L’educazione medica e la cultura dominante nella società occidentale rafforzano questi valori, che spesso affondano le radici in esperienze profondamente personali. Non credo che le pratiche narrative possano essere adottate su larga scala dai medici, se non si presta un’attenzione reale alle condizioni di lavoro e al sostegno rivolto ai clinici stessi. Pretendiamo che i medici siano premurosi, curiosi e compassionevoli, spesso in circostanze proibitive. Ma credo che dovremmo chiederci chi, a sua volta, sta offrendo cura, compassione e curiosità verso di loro.
- Perché dovremmo ascoltare le narrazioni dei pazienti?
Affronterei questa domanda considerando le conseguenze del mancato ascolto delle narrazioni dei pazienti, nella speranza che questo ci aiuti a vedere le capacità narrative non come la ciliegina sulla torta, ma come parte della torta stessa. Sono convinta che le storie non ascoltate siano una delle maggiori cause di difficoltà e rischio nella pratica clinica. Quando le storie non vengono ascoltate, si perdono diagnosi fondamentali e si ignorano le preoccupazioni individuali dei pazienti. Ritengo che, quando i pazienti non si sentono ascoltati, tendono a richiedere visite più spesso, sono comprensibilmente più insoddisfatti e possono persino essere più motivati a presentare reclami o ad avviare procedimenti legali. Credo che combinare le abilità narrative in consultazioni mediche strutturate sia non solo possibile, ma fondamentale in questo momento di vera crisi nell’ambito della professione medica.
In un momento in cui gli alti tassi di burnout rappresentano un’enorme minaccia per il personale medico, voglio ricordare ancora una volta la gioia che può derivare dal dare spazio, anche solo in minima parte, alle storie negli incontri clinici. Può ricordarci la nostra comune umanità e aggiungere profondità e persino umorismo al nostro lavoro. Può aiutarci a lasciarci toccare dalle nostre interazioni senza esserne sopraffatti e può aiutare i nostri pazienti a vederci come una risorsa umana, e quindi finita. Credo che, con il giusto sostegno, introdurre le idee narrative nell’educazione medica tradizionale sia possibile, purché si resti consapevoli delle immense pressioni e aspettative che gravano sui giovani medici.
Vorrei soffermarmi brevemente un’opinione che mi capita spesso di incontrare, ovvero che i medici non vogliano ascoltare. A mio avviso, si tratta di un’eventualità rara. Ho incontrato medici che non sanno come ascoltare, e medici talmente provati dal burnout da non riuscire più ad ascoltare. Non ho dubbi che molte persone scelgano la professione medica spinte non solo da ideali di cura, ma anche attratte dallo status e dal potere che essa sembra offrire. Riconosco che l’ascolto — e più in particolare l’indagine narrativa — non siano valorizzati nell’educazione medica, ma credo che un cambiamento sia possibile, purché introdotto tenendo conto della realtà concreta del lavoro clinico.
Sono consapevole dell’esistenza di una grande varietà di metodi narrativi, molti dei quali si concentrano proprio sul rapporto tra i medici e le storie. Ho cercato con curiosità di conoscerne il più possibile. Il metodo CIC è stato per me particolarmente significativo, perché l’ho trovato pratico e trasmissibile, e ne apprezzo il modo in cui si occupa esplicitamente del mondo reale della pratica medica.
Ho trascorso tutta la mia vita professionale circondata dalle storie degli altri. Dopo aver curato tre generazioni all’interno della stessa comunità, mi è sempre più chiaro che le storie sono in continuo movimento ed evoluzione. Queste storie mi mettono alla prova, mi stancano, mi entusiasmano, mi commuovono, e sono grata per tutto ciò che mi hanno insegnato. Attraverso la pratica narrativa, ho anche compreso quanto sia necessario confrontarsi con la propria storia e con la storia del proprio rapporto con la medicina. Non esiste altro modo per farsi da parte e permettere davvero che le storie dei pazienti possano emergere e trovare ascolto.
Risorse:
1. https://www.conversationsinvitingchange.com
2. Launer, J. (2018) Narrative-Based Practice in Health and Social Care, Conversations Inviting Change. Seconda edizione. Routledge.
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