Voler viver voler morire

Tra Voler Vivere e Voler Morire

“Vivere” e “morire” sono due parole del metalinguaggio semantico naturale (NSM): il che significa che sono degli universali di pensiero presenti in tutte le lingue del mondo. Assieme a vivere e morire ci sono anche due universali che sono “volere” e “non volere”, che potremmo quindi collocare vicino ai primi due: “voler vivere”, “non voler morire”-  “non voler vivere” e “voler morire”.

Forse è su questi quattro quadranti che si spiega l’esistenza umana, o meglio la quintessenza delle medical humanities.

 

Il Voler Vivere

Nel primo caso, il voler vivere” c’è proprio la fioritura della gioia di vivere, la naturalezza della Primavera che risorge dopo il morto inverno, la progettualità, la luce dopo il tunnel, la creazione del nuovo. E’facile creare il nuovo quando si è bambini, e si è stupefatti di fronte a ogni nuova scoperta. Più difficile è ritrovare quella vitalità in là con gli anni, quando molto si è visto, molto si è fatto e i traumi, più o meno piccoli o grandi, sono entrati dentro la nostra corteccia d’albero e dentro la nostra corteccia cerebrale. Uno stereotipo è il pensare che sia ancora più difficile ritrovare la forza di non spegnersi e di andare avanti quando si ha una malattia: dalle narrazioni che abbiamo analizzato dei pazienti, viene fuori invece che la gioia per la vita, l’aggrapparsi alla quotidianità, la volontà progettuale si scatena proprio se si riesce a individuare un nuovo stile di vita per convivere con una malattia. Come dire, nei soggetti sani forse c’è meno apprezzamento della vita, e del sentire il corpo che sta bene che non nelle persone che una volta che hanno superato la prima montagna dovuta alla malattia cominciano a stare bene. Proustianamente, in questo inseguire la vita, molti ricercano il tempo perduto, quello in cui si poteva fare ogni cosa, i gradi di libertà erano molti, tanti più di quelli attuali, e allora si arroccano sul ricordo. Poi però molti pazienti fanno lo scatto e procedono, e imparano a godere delle piccole cose che entrano nel loro quotidiano. C’era un ragazza ammalata di una rara forma di tumore osseo da quando aveva ventidue anni, che è scomparsa qualche anno fa, e che per dieci anni ha vissuto con questa malattia: ha scritto un diario “Un punto nero nell’immenso azzurro del mare”, che ho letto dopo la sua morte.

Nel Diario di Marina, non c’è “ricerca del tempo perduto”, perché non c’è vecchiaia davanti: c’è un’irruzione straordinaria di voglia di vivere a tutti i costi, non un’ebbrezza in ricerca di oblio, ma una saggezza di fondo nel sapere apprezzare, ad esempio, una colomba che arriva senza ramoscello sul davanzale dell’arca che è la stanza  dove c’è il suo letto d’ospedale, un voler volare a vedere esposizioni d’arte in tutte le parti del mondo, e un saper tagliare gli affetti inutili per cucire nuovi legami sani e di sostegno.

La voglia di vivere viene fuori anche dalla narrazione di una donna spagnola; Pilar, che non ha scritto niente ma molto ha fatto per convivere con un tumore all’inizio insorto attraverso la scoperta di polipi nasali, poi il cancro ha invaso il retro del bulbo ottico e l’unica cosa che i medici hanno dovuto/saputo/potuto fare è stato, dopo una serie standard di protocolli di chemio e radioterapia, “quello di portare via l’occhio, un pezzo di naso- che parzialmente è stato ricostruito-“. Questa giovane donna, Pilar, ha scelto di vivere comunque, nella progettualità e nel bello: è architetto, per cui attratta per sua natura dal senso estetico. Ma dopo l’intervento all’occhio, avvenuto oramai sette anni fa, ha deciso di non tentate altri interventi per inserire un occhio fasullo, ma ha preferito aprire una bellissima panetteria in centro a Madrid, poi dato che gli affari andavano così così per la crisi, si è messa a disegnar gioielli e a venderli in rete. Mi scrive che si è iscritta a un master sul Mediterraneo Antico e che vuole approfittare di questa seconda opportunità che la vita le ha dato per studiare la bellezza, il pensiero greco e sentirsi viva e felice. E aggiunge “non ho mai sentito la perdita del mio occhio come una Perdita, per me è stata la Porta alla Vita. E’ la mia medaglia, mi sento molto orgogliosa di poter mostrare che la vita merita d’esser vissuta

Meraviglia per me e credo anche molti di noi: una fede fatta di fiducia nelle cose che succedono al di qua dello spartiacque tra la vita e la morte le ha dato e le continua a dare energia e vitalità.

 

Non voler morire

La seconda molecola di significato “il non voler morire” è qualcosa di più attenuato nella sua vitalità: se nel voler vivere c’è infatti “la forza vitale”, dove “vitale” significa anche essenziale, nel senso che è l’unica via per la sopravvivenza. Il “non voler morire” comporta una negazione, un allontanamento – “Allontana da me questo calice”. in questa partita a scacchi con la morte, alcuni si salvano come e quando vogliono, altri, vivono con maggiore passività. Nelle narrazioni dei pazienti noi leggiamo di come si impara a vivere giorno per giorno in condizioni “estreme”, ma difficilmente viene detto “non voglio morire”. Si esplicita molto di più la paura di morire, la paura che accada qualcosa di “brutto”. Nel trauma della comunicazione delle diagnosi di malattie gravi i pazienti” si sentono cadere il mondo addosso”, “tremare la terra sotto i piedi” o dicono direttamente “ho avuto paura di morire”. Come se mentre il voler vivere fosse dettato da un desiderio progettuale e da un istinto di sopravvivenza che però raramente fa i conti con la paura, e comunque la supera, il “non voler morire” connotasse con sé non solo la paura, ma anche la rabbia, la ribellione, di un soggetto passivo verso qualcosa di più grande e potente. E’un grido flebile di potenza contro un potere immane, quello di vita o di morte.

Nel Mahabharata vi è una parte del poema legato alla bellezza del pensiero del genere umano che “rimuove” l’idea della morte, la cancella, pur conoscendone l’ineluttabilità, perché talmente intriso di spirito vitale che la inserisce in un oblio quotidiano: se ogni istante avessimo il ” memento mori”, saremmo così paralizzati da non riuscire nella nostra progettualità. Questo punto è smentito invece dalle storie dei pazienti, ma anche degli   anziani che proprio perché hanno il “memento mori”, dopo un primo Timor Panico invece lottano, e trovano una propria forma d’arte per essere vitali fino alla fine. Sempre nel Mahbharata c’è un dialogo tra l’Eroe, Yudishtira e un ragazzo qualunque sulla morte: l’eroe ha paura di morire e dice al ragazzo che persino gli dei compiono sacrifici per non dover morire. Il ragazzo gli risponde: “… io ti dico che la morte è negligenza ed ignoranza, e che vigilare è l’immortalità. La morte è una tigre acquattata nei cespugli. Noi facciamo figli per la morte, ma la morte non può divorare chi si è scrollato la vita di dosso come polvere. La morte non ha potere davanti all’eternità. Il vento e la vita scorrono partendo dall’infinito. La luna beve il respiro della vita. Il sole beve la luna e l’infinito beve il sole. Il saggio si libra tra i mondi”. Per la filosofia induista quindi emerge l’importanza di relativizzare tra la vita e la morte- il saggio si libra tra i mondi. Eppure una cosa non deve essere relativizzata: il sapere, la conoscenza o meglio la consapevolezza. Morte è negligenza, ignoranza, sciatteria, e assenza di morte – e quindi ben più che una vita sola, ma immortalità è la veglia, la comprensione.

Quando leggo tra le righe delle narrazioni di una anziana signora che sa benissimo che per suo marito si stanno contando i mesi ultimi, e che comunque organizza un viaggio anche a venti chilometri da casa perché possano passare giorni felici in un luogo di vacanza con vicine tutte le strutture necessarie, ecco mi sento di fronte a una saggia che si libra tra i mondi.

 

Non voler vivere

Nel terzo e nel quarto quadrante ci sono gli altri due universali possibili “non voler vivere” “voler Morire”. Qui mi aiuto con un testo pubblicato su il “Diritto a Morire” – THE DEATH TREATMENT – When should people with a non-terminal illness be helped to die? un articolo comparso su The New Yorker, scritto nel 2015, da Rachel Aviv.

Faccio un inciso: credevo di essere una persona molto libera, all’insegna della promozione dell’Articolo 13 della Costituzione Italiana, “la libertà personale è inviolabile”. La libertà di scelta dunque estremizzata tra il vivere e il morire è sancita e ammessa dalla nostra costituzione. Ho  partecipato a campagne, denunciando l’arretratezza del sistema italiano, per la definizione del testamento biologico, dell’eutanasia per i pazienti di fine vita e per la libera scelta del suicidio assistito quando le condizioni di vita della persona sono talmente pesanti che è proprio il volere della persona l’essere aiutato a morire. Così per Welby, Eluana Englaro, DJ Fabo e altri meno noti che vivono in condizioni che sono oggettivamente talmente disperate nel rispetto del desiderio di morire.

“Non voglio – più – vivere” è la molecola semantica- il terzo quadrante-  su cui poggia “The death treatment” – il trattamento della morte, in Belgio, che avviene regolarmente e in modo regolarizzato attraverso il Dr. Distelmans, un medico che aiuta a morire le persone depresse. Un mondo sconosciuto: conoscevo i depressi che si suicidano perché non desiderano più vivere, ma non l’aiuto dato da medici a realizzare il non volere vivere. Wim Distelmans è un oncologo, e conoscendo la preparazione di questi specialisti, spesso collegati al dover prestare cure di fine vita, si occupa di garantire “la dolce morte”, ovvero l’eutanasia per pazienti con tumori molto avanzati che non sono più guaribili e che desiderano non prolungare più la vita.

Fin qui tutto rientra nel normale dibattito, certamente intriso di dilemma morale, se addormentare lentamente ma irreversibilmente una persona negli ultimi giorni di vita – cosa che accade regolarmente in tanti ospedali italiani – o se invece dare una morte molte più rapida, attraverso dosi molto più elevate di ipnoinducente. Nel 2017 ha realizzato l’eutanasia su un minore- a 17 anni- un ragazzo ammalato di tumore: e anche questo rientra nei margini possibili di intervento di un oncologo coscienzioso che “supera l’ipocrisia” dei sei mesi legali per aspettare la maggiore età ed agire secondo quanto previsto dal protocollo per i maggiorenne, e che si basa sulla richiesta autonoma del minore.

Ma informandosi su chi si reca di Diestelmans veniamo a scoprire che non si tratta solo di pazienti ammalati di tumore ma anche di pazienti che hanno “mal di vivere”, pazienti depressi che si recano da Lui per morire. E questo oncologo, che non è né psichiatra, né psicoterapeuta, dopo una serie di primi accertamenti, realizza il loro “non voler vivere”, non solo protetto dal governo Belga, in nome della massima espressione di libertà della persona, ma diventato per il Belgio stesso un’icona della massima espressione di libertà.

Le persone che vanno da Wim Distelmans per chiedere la morte sono spesso “etichettate” depresse, ma se leggiamo nei loro scritti, sono malate di solitudine, per abbandoni da parte di figli e compagni.

Nella narrazione di un anestesista italiano che piange una sua paziente scomparsa, quello che mi ha colpito è la rete di presenze da un lato (fili tangibili, sorella, badante), ma di enormi buchi dall’altro; ne esce il quadro di un’anziana signora che aveva rapporti pessimi con il figlio adottato, il quale desiderava solo vederla “morta” per prendere l’eredità. La solitudine massima: l’abbandono del figlio- forse il legame più importante della sua vita-  e la rottura del mito della “sindrome di Enea”. I figli non portano più sulle spalle i genitori, e questi si ammalano sia in Italia sia in Belgio: forse di solitudine. La richiesta di smettere di respirare di Pier Giorgio Welby, e degli altri non era portata avanti da una persona sola ma da un intero nucleo familiare, stretto e unito, pur con le sue difficoltà.

E allora la nemica che porta al non voler più vivere, non è una depressione come etichetta psichiatrica, ma il senso profondo di solitudine e di vuoto.

L’articolo The Death Treatment si sofferma su una paziente, Godelieva che chiederà di essere “suicidata” da Diestelman. Godelieva entra in analisi fin dall’età di 19 anni, vuole laurearsi in storia, mentre suo padre le impone medicina. Questa sembra essere l’origine del trauma, o perlomeno della vicenda.  Un bravo counselor/psicoterapeuta o altro le avrebbe chiesto: “ma vuoi veramente laurearti in Storia? Sei giovane, puoi farlo! Oppure puoi studiare storia per conto tuo! Oppure puoi iscriverti a un gruppo di studio! Oppure è solo un alibi?”.

La mia sensazione, che traggo dall’articolo, è quello di una psicanalisi “vecchio stile”, troppo volta ad accusare ancora i genitori e poco risolutrice delle questioni: non esiste famiglia perfetta e non esiste genitore perfetto. Tutti noi abbiamo subito più o meno condizionamenti, anche quando ci hanno detto “fai quello che vuoi”: ci rimaneva la libertà incondizionata da gestire e le sue conseguenze.  L’analisi è strumento utilissimo se poi porta all’azione, anche minuscola, ma smette di rivangare nel passato, il pozzo senza fondo da cui è difficilissimo uscire.  La vita di Godelieva va avanti dopo il suicidio del primo marito, un tunnel neri di depressione, due figli che la vedono sempre triste, Godelieva poi ha una seconda primavera con un nuovo compagno: ma senza sapere perché viene abbandonata di nuovo. E’ oramai in menopausa, sta sfiorendo, dice che è sola ai figli, ma i figli sono proiettati sulle loro carriere e sui loro propri figli. Il trauma è profondo, è vero, incalcolabile.  Come diceva Maggie Smith in “The quartet”, un film sull’invecchiare, “diventare vecchi è difficile, molto difficile e non è un gioco per ragazzine”, con un sorriso nostalgico e consapevole- quel sorriso del saggio che si libra tra i mondi. Tornando alla famiglia della Godelieva, io leggo il fallimento di un sistema sociale e delle sue relazioni di aiuto e della capacità di creare vitalità.

Nell’articolo, si dà anche un altro indizio: pare che l’esplosione dei suicidi in Belgio sia dovuto alla secolarizzazione, ossia alla mancanza di fede in Dio. Chi crede in Dio non si suicida. Chi non crede in Dio, è più atto al suicidio. Questo è il significato assegnato alla religione cristiana, una dicotomia molto riduzionista e forse offensiva per l’etica laica, che è fatta di amore, relazioni, legami, aiuto, sostegno, preziosità per la vita. L’iper semplificazione che chi non crede in un “aldilà” perda la volontà nel provare a vivere un buon “diqua” o perlomeno un “diqua” fatto di alti e bassi lascia allibiti nel 2015- anno in cui è stato scritto il pezzo.

Torniamo all’oncologo Distelmans che con il suo LEIF (Life End Information Forum) promuove sessioni informative sul diritto a morire con bambini delle scuole primarie (età degli ascoltatori, 9 anni) con la complicità del governo Belga. Sappiamo che i bambini sono come spugne: quello che ascoltano a quell’età, li segnerà per molto tempo, forse per sempre. Andare a parlare loro di morte come bene rifugio quando sono nel pieno della loro fioritura, curiosità, vitalità, voglia di giocare, mi sembra un atto di perversione, un atto contro natura.

Ma si procede oltre: Distelmans porta medici e allievi a scoprire il vero dolore nei campi di concentramento degli ebrei. Vuole quindi istillare nei medici e nei futuri ricercatori la differenza di come si muore in modo “orribile” e come si può “morire dolcemente”: pleonastico dire che le persone che si sono più risentite di questo gesto   sono stati gli ebrei che hanno affermato che Auschwitz deve rimanere un monito per la vita e non per insegnare a uccidere in modo dolce.

Perché il Dr. Distelmans invece di portare i medici nei campi di concentramento non porti i pazienti “soli” – depressi? – a vedere “cose belle” anzi “meravigliose”? La Sicilia, oppure il mar dei Caraibi? Oppure la Toscana in Primavera? La Provenza a giugno quando c’è la fioritura della lavanda? O, semplicemente Bruges in Belgio, a vedere le case che si riflettono nei canali.

Forse è Wim Distelmans che non si sa divertire, non è sufficientemente creativo nella scelta di aiuto dei propri malati.

Ai figli delle vittime di Distelmans che potevano certamente svegliarsi sul senso di solitudine dei propri cari (ma è ancora di moda questa parola?)  prima di ricevere la lettera che “l’ultima volontà del genitore, quella di morire” sono state assecondate, rimane il mostruoso senso di colpa.   Nel caso di Tom, il figlio della Godelieva, si manifesta in attivismo contro l’eutanasia presso associazioni religiose. Ed è un peccato che il voler vivere venga valorizzato come bene quasi sempre presso istituzioni religiose e non anche per associazioni laiche come bene spirituale.

E questo è il terzo quadrante, “non volere vivere”, dove la disperazione è talmente grande e la vita così priva di significato che la si rifiuta, non si è in grado di vederne una piccola sfumatura di verde, in un abisso di colore nero.

 

Voler morire

Rimane il quarto quadrante, il Voler Morire, due atomi di significato che uniti assieme lasciano una disperazione totale, e che potremmo ammettere solo nelle grandi mitologie dei viaggi degli Eroi, dei Martiri, dei Santi, di coloro che si battono per un ideale per cui credono che ne possa valere la vita. L’Epica del Voler Morire è glorificata nelle canzoni militari, nei monumenti ai Caduti, negli inni nazionali. Ma è ben diversa la spinta e l’attitudine al Voler Morire, “mi butterei anche nel fuoco per …” rispetto al Non voler Vivere…”Gli Eroi sono Tutti giovani e Belli”.

Ma l’inquietante è Il “non voler vivere” è qualcosa che continua a ripetersi e nelle nostre narrazioni la causa più profonda è Lei, Lady of Solitude, nessuno con cui poter parlare delle cose belle e dei piccoli traumi, ecco il vero trauma, in questa società non più liquida, dove non esiste solo il panta rei, tutto scorre, ma il tutto si distorce, si disperde, si vanifica e sparisce. Di fronte a una cartella parallela di un medico che scrive di una sua paziente “non voleva più vivere ma in compenso voleva continuare a fumare” si rimane sconcertati: come se il problema più vistoso per questo medico da sistemare fosse la lotta al fumo. La disperazione della paziente non è nemmeno presa in considerazione.

 

 

Ringrazio per questo articolo:

Marina Neri, autrice del diario “Un Punto Nero nell’Immenso azzurro del mare“, UR Editore, 2011;

Pilar Lorente per la sua vicinanza e affetto;

Carol Ann Farkas che mi ha inviato il caso “The Death Treatment“, New Yorker, 2015, scritto da Rachel Aviv;

I partecipanti al Master in Medicina Narrativa Applicata, in particolare Giorgio Bardellini, Marina Mariani, Maria Stella Aloisi e Ubaldo Sagripanti che hanno commentato assieme il testo;

Ringrazio tutti i medici e gli infermieri e gli altri professionisti che aiutano i pazienti e i loro familiari a districarsi tra queste due forze, l’impulso alla vita e il desiderio di morte;

Ringrazio anche i pazienti e i loro familiari che continuano, anche se alcuni di loro non ci sono più, per aver condiviso con noi le loro esperienze, cacciando via così la solitudine.

 

 

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

Questo articolo ha 3 commenti.

  1. carla budriesi

    Grazie Maria Giulia ! E’ un testo profondo (a caldo direi “bellissimo”, ma non sembra l’aggettivo giusto parlando di storie così drammatiche), mi hai dato tanto da pensare.

  2. Vavassori Elena

    Consiglio un libro per me straordinario che racconta di un trapianto di cuore e di quella fitta rete di incontri e di relazioni in lotta col tempo per renderlo possibile. Una frase che è l’inizio di tutto :” …quella frase che per maggiuor efficenza standardizza il dramma: un paziente del reparto è in stato di morte cerebrale. Constatazione che suona come una sentenza definitiva e invece per Thomas,no,rivela un altro significato,designa al contrario l’innesco di un movimento,l’avvio di un processo”. Il voler vivere di quella donna che riceverà il cuore,sua unica possibilità di sopravvivenza e che non potrà mai dire grazie ” parola radiosa che cadrebbe nel vuoto”. Ed anche il suo non vole morire ” ormai le ore non hanno più altro uso che essere disponibili,perchè l’evento del trapianto si possa materializzare,un cuore può spuntare fuori in ogni istante,devo essere in vita,devo tenermi pronta. MAYLIS DE KERANGAL- RIPARARE I VIVENTI- FELTRINELLI EDITORE,2015

  3. ELENA VAVASSORI

    “Vivere” e “morire” sono parole che non significano solo “vita” e ” morte”,ma indicano a mio parere dei processi. Qualcosa che avviene in un certo tempo, ma anche la possibilità che ” morire” divenga “vivere”. Ho appena terminato di leggere uno splendido romanzo RIPARARE I VIVENTI scritto da Maylis De Kerangal ( edito Feltrinelli) che racconta ( ma non solo) do in trapianto di cuore:
    Ecco cosa pensa Claire,la donna che riceverà il cuore nuovo ” Vogliono rassicurarla,sostenerla. non è questo. Quel che la tormenta è l’idea che di cuore nuovo,che qualcuno sia morto oggi perchè tutto questo succeda,che possa invaderla e trasformarla,convertirla-storie di trapianti,talee,fauna e flora” […] ” Sopratutto non potrà mai dire grazie,è lì tutta la storia. E’ tecnicamente impossibile,grazie,quella parola radiosa cadrebbe nel vuoto”. E’ un testo che consiglio: da quanti punti di vista si può guardare ad una morte? ” Quella frase che per maggiore efficienza standardizza il dramma: un paziente del reparto è in stato di morte cerebrale. Constatazione che suona come una sentenza definitiva e invece per Thomas,no,rivela un altro significato,designa al contrario l’innesco di un movimento,l’avvio di un processo” Chi è Thomas ? Leggete il libro. Ciao e grazie.

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