Sconfiggere la vergogna nelle narrazioni di illness

“La vergogna è un’emozione che divora l’anima.” Carl Gustav Jung

Maria Giulia Marini al Trinity College
Maria Giulia Marini al Trinity College

La vergogna è un sentimento che ha a che fare con l’umiliazione, l’inadeguatezza, la disgrazia e l’inferiorità. Per provare vergogna dovrebbe sempre esserci qualcun altro, “l’altro” che giudica e moralizza sia con la comunicazione verbale che con quella non verbale. La vergogna, tra tutte le possibili emozioni, secondo me, è la più sociale: quando qualcuno è arrabbiato o felice, perlomeno qualcun altro è presente o meno, ma la vergogna ha a che fare con un punto di vista terziario, che può aver a che fare sia con il microcosmo che con il macrocosmo della società d’appartenenza. Per il microcosmo sono previsti la famiglia, il lavoro, la scuola e gli amici: per il macrocosmo “gli altri”, la società della comunità più ampia, la città, la nazione di appartenenza e il mondo internazionale e globalizzato.

Prima d’entrare nel mondo della sanità, esaminiamo la parola “vergogna” in italiano e in inglese. In italiano, la parola vergogna deriva dal latino “vereri” e possiede un significato leggermente differente rispetto la parola inglese: significa provare una dolorosa e umiliante perturbazione interiore ed è molto legata alla parola “verecondia” che sorprendentemente ha a che fare con un tipo appropriato di comportamento e rispetto per gli altri, generalmente proprio dell’upper class, dei nobili, e nella relazione fra uomini e donni. “Verecondia” era una virtù per le donne, sì, l’opposto dell’orgoglio, legata non all’”umiliazione” ma al rispetto.

Anche se non sono una madrelingua, comprendo dai miei studi che la parola “shame” derivi da “Skam”, una parola proto germanica che ha un impatto molto forte, legato a un peccato commesso: “shame on you” è come una maledizione.

Pertanto, avendo a che fare con queste sfumature di differenti interpretazioni quando stiamo parlando di “vergogna” o di “shame”, ci muoviamo dalle storie di queste due differenti parole: l’italiano ha a che fare con il nobile sentimento di “umiltà”, che non è totalmente o esclusivamente un’umiliazione. Simbolico il rituale della gente di villaggio che si toglieva il cappello di fronte ai cavalieri e i nobili, così come i paesani non mostravano le loro mani sporche perché si sentivano inadeguati. Sono giusto una serie di esempi per spiegare perché “vergogna-shame” abbia a che fare con le classi sociali, i credo sociali e ruoli sociali.

Robert Plutchick, nella sua ruota delle emozioni per studiare le evoluzioni dei sentimenti, ha fornito un’interessante spiegazione riguardo gli ingredienti della vergogna: ha detto che questo sentimento è originato da due emozioni primarie, il disgusto e la paura. La loro combinazione crea la vergogna e l’imbarazzo, così come l’umiliazione.

Se riprendiamo la classica definizione di Arthur Kleinmann sappiamo che con la parola “disease” chiamiamo in campo un modello biomedico, il corpo/mente come una macchina rotta da riparare, con la parola “illness”, la vita interiore di un paziente malato, e con la terza parola, “sickness”, il modo in cui una malattia è considerata dalla società. Perciò la parola “shame” cade soprattutto sotto la definiione di sickness con impatti costanti con l’illness, l’”interiorità” del paziente. Due reami che possono essere sintonizzati, quello del paziente e quello del contesto sociale: in questo caso, anche con alti e bassi, le emozioni e valori predominanti sono l’inclusione, l’attenzione, la compassione, la condivisione di paure e anche di rabbia. C’è un allineamento dinamico tra la persona malata e gli altri, che cambia consistentemente nell’affrontare lo sviluppo della malattia.

Quando non vi è sintonizzazione tra il regno della persona malata e quello degli altri esterni, la condivisione è molto difficile da raggiungere, e l’esclusione e la solitudine sono conseguenze per entrambi i lati: la shame-vergogna può essere uno dei “colpevoli” della discriminazione.

Quando la vergogna è presente nella malattia? Quando la malattia danneggia il corpo nella sua estetica? Quando la malattia blocca la funzionalità? Quando qualcosa di bizzarro comincia ad apparire, l’”anomalia irregolare”? Tutte queste possono essere valide, ma la loro predominanza è molto differente in base all’ecosistema in cui vive la persona malata.

La vergogna è una delle emozioni più difficili da smascherare, perché quando qualcuno si sente in imbarazzo, lui/lei non vorrà parlare delle cause di questi sentimenti. Proprio in questo genere di situazioni la medicina narrativa può correre in aiuto: i pazienti, nella zona sicura dell’anonimato possono finalmente rafforzarsi attraverso la scrittura, con apertura e intimità. Sebbene l’intervista orale con il paziente spesso non ammette l’espressione del sentimento d’umiliazione, le parole “vergogna” e “vergognarsi e provare imbarazzo” sono riportate più facilmente dalla penna o dalla tastiera.

La medicina narrativa si basa sull’interazione tra pazienti e professionisti sanitari, con attenzione su quando la malattia si è rivelata, su come la malattia è considerata e trattata e sui possibili risultati sanitari. Le nostre narrazioni sono in pratica tutte reali, e non appartengono alla “fiction” del “fantasy fantastico”. Lo scopo della medicina narrativa è di creare relazioni allineate tra curanti e pazienti, per permettere ai pazienti di raggiungere e manifestare i fattori per il coping, cioè padroneggiare lo stress indotto dalla malattia. Alla Fondazione ISTUD abbiamo raccolto più di 6000 narrazioni di pazienti, familiari e medici e la maggior parte di queste storie sono strutturate e spiegano la malattia seguendo le fasi del “cadere in malattia”, dell’”essere malati” e i due possibili futuri “migliorare o peggiorare” tengono conto che il lieto fine potrebbe essere la risoluzione di una profonda depressione malgrado la seria invalidità fisica sia ancora presente.

 

I fattori di coping

Quando leggiamo – spesso da due storie separate e indipendenti – studiamo se le narrazioni sono ricche di abilità di coping, il controllo di eventi stressanti come la malattia, o se vi è una carenza di questi fattori. Carver è uno dei nomi di riferimento sugli studi di coping e ha sottolineato cinque variabili che accrescono il coping:

– piacevolezza

– apertura

– consapevolezza

– responsabilità

– ottimismo

E tre fattori negativi di coping:

-rifiuto

– isolamento

– pensieri ossessivi

Nelle narrazioni ci accertiamo se sono presenti i fattori di Carver. In ogni caso il coping dopo il trauma di una malattia è estremamente multifattoriale e va molto oltre questi elementi menzionati.

 

Narrazioni dei pazienti sulla vergogna e il coping

Nel nostro mondo occidentale, le malattie della pelle che danneggiano l’estetica della faccia e del corpo come l’acne, la psoriasi, la dermatite atopica, l’orticaria, sono vissute con vergogna dalla maggior parte delle persone affette. Ecco alcuni estratti dalle narrazioni di pazienti affetti da psoriasi:

“Togliermi i vestiti era causa d’imbarazzo e guardarmi allo specchio rappresentava un trauma. Oggi ho vinto i problemi più leggeri, la fototerapia mi ha fatto sentire meglio. Ho provato questo a causa della psoriasi, non ho perso niente, non devo lasciarmi andare giù…le brutte malattie sono altre…”

“Mi è stato detto che non c’era nulla da fare. Dovevo solamente essere più sereno e meno nervoso. Ma come farlo? C’erano periodi in cui ero una crosta deambulante, senza lasciare casa per vergogna e per via delle persone attorno a me, la mia famiglia, faceva osservazioni al riguardo e mi vergognavo che loro si vergognassero. La psoriasi mi ha insegnato che non dovremmo mai giudicare dalle apparenze, che tutti soffriamo per qualcosa e che dobbiamo andare oltre, ascoltare e diventare buoni e sensibili.”

“Dopo la comparsa della psoriasi nella mia famiglia, al lavoro e con i miei amici mi sono sentito pieno di vergogna. Vestirmi era impossibile, guardarmi allo specchio non era una cosa carina. Se oggi dovessi descrivere la psoriasi con un’immagine per me sarebbe una brutta immagine ma credo che ci sono cose peggiori nella vita. Oggi sono rassegnato”.

Nelle tre narrazioni sulla psoriasi qua sopra le parole “vergogna” e “vergognarsi” sono state automaticamente tradotte con “shame” e “feeling shameful”.

Se le malattie della pelle evocano un senso così intenso di vergogna – dalle nostre narrazioni, molto più presente nelle persone malate che nel mondo esterno, dimostrando che vi è un giudice interno sull’estetica veramente crudele, che non mostra alcuna compassione per la malattia ma continua a criticarla, abbiamo imparato inoltre dalle narrazioni quanto questi pazienti fossero abili a reagire. Prima di tutto la razionalizzazione che vi sono malattie peggiori. L’essere aiutati, specialmente per le persone giovani, dai loro genitori che li accettano e amano in maniera incondizionata. E infine, imparare ad approcciare la malattia con più sensibilità e di conseguenza aiutare gli altri a rispondere in maniera simile.

In ogni caso vi sono altre malattie, considerate dal sentire comune (non è mia intenzione creare nessuna classifica relativa la gravità delle malattie, ma preferisco rispettare ognuna così com’è) più gravi: come ad esempio il cancro. Il cancro ha a che vedere con la sopravvivenza, con la paura di morire, con medicinali e test invasivi e “crudeli”: in ogni caso, qual è uno dei fattori più comuni presi in considerazione dai pazienti, addirittura prima delle possibilità di sopravvivenza? “Dottore, perderò i miei capelli?”. La perdita di capelli ha a che far con l’identità, ma anche con l’estetica, con il codice sociale della nostra società. Al momento vi sono svariate campagne che cercano di mostrare donne e uomini calvi dopo la chemioterapia, come la Monna Lisa calva, per educare la gente e rafforzare l’autostima dei pazienti. Comunque la vergogna, in special modo per una donna, di mostrarsi sena capelli, è sempre presente. I capelli sono più potenti del desiderio di vita: questo forse ha a che fare con il lascito del passato quando tagliare i capelli di una donna rappresentava una stregoneria (e ancora lo è nell’agosto 2017 ad Agra in India). Come affrontare la perdita di capelli? Strategie di coping attuate da donne con perdita di capelli sono narrate attraverso l’utilizzo di bellissime sciarpe di seta e cotone, qualcosa che sta divenendo più popolare dell’uso di parrucche che appaiono troppo artificiali.

Vi sono diversi casi d’imbarazzo quando affrontiamo pazienti che si sono sottoposti alla creazione di stoma e al conseguente utilizzo di borse per il cancro all’ileo e al colon: abbiamo raccolto le loro narrazioni, solamente in pochi casi la parola “vergogna” era stata menzionata, ma era comunque leggibile tra le righe. “Non voglio guardarmi”, “Non voglio toccare la borsa” fino a “Ne sono disgustato”. Qui abbiamo un corpo mutilato con una borsa esterna a raccogliere le loro feci. La vergogna è definitivamente presente, in ogni caso il miracolo della vita giunge almeno nella metà dei pazienti, e insegna loro la condivisione con i loro familiari e ai loro fornitori sanitari il fatto che il senso d’umiliazione può essere battuto. Le associazioni di pazienti contano molto e aiutano alla pari i pazienti alla moda a vivere con lo stoma…Dopo un buon coping, il risultato è una sorta di pacificazione con il corpo traumatizzato e “ora, dopo l’intervento chirurgico, sono felice d’indossare un bikini e andare regolarmente a nuotare”, questo è il lieto fine di una narrazione di una ragazza. Il risultato d’essere in grado di mostrare ancora il proprio corpo, sempre con borse meno invasive e visibili, è un’azione ricorrente delle attività di coping: anche in questo caso era stato portato a termine un profondo lavoro di razionalizzazione. “Sono vivo grazie allo stoma e ora è parte di me”.

I nomi attribuiti a stoma differenti sono sintomi di un coping raggiunto e segni per comprendere se la vergogna sia ancora presente. Sotto ci sono le quattro possibilità: accettazioni emotiva, accettazione tecnica, passiva (rassegnazione), stato, e difficoltà, molto più lontano dal coping.

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Credo fortemente che se non vi fosse stata una raccolta anonima di queste narrazioni dai pazienti con stoma, l’imbarazzo e la difficoltà di vivere con la vergogna non sarebbero emerse attraverso la semplice investigazione orale.

 

Un’altra narrazione sul cancro

Una signora spagnola, ora 52enne, ha avuto un cancro, inizialmente iniziato attraverso la scoperta di polipi nasali, ha poi invaso il retro del bulbo oculare, cosicché la sola cosa che i dottori hanno potuto fare, dopo una serie standard di chemio e radioterapia, è stata “toglier via l’occhio, e ricostruire parte del naso”.

Dopo l’intervento oculare realizzato sette anni fa, ha deciso di non intraprendere alcuna azione aggiuntiva per mettere un occhio finto. Nei suoi scritti, racconta che si è da poco iscritta ad un master sull’antico Mediterraneo e desidera sfruttare questa seconda opportunità che la vita le ha donato per studiare la bellezza greca e pensare, e sentirsi viva e felice.

“Non ho mai percepito la perdita del mio occhio come una perdita, per me era la Porta della Vita. La mia medaglia, mi sento molto orgogliosa ad essere in grado di mostrare che una seconda vita merita d’essere vissuta.”

Se questo è un esempio estremo in cui il corpo è coinvolto seriamente, la vergogna è comunque presente nelle narrazioni di persone anziane: in questo caso il sentimento non è associato a malattie particolari, ma con l’umano deterioramento del corpo e della mente attraverso gli anni. La vergogna perciò è più difficile da decifrare, perché non è così chiaramente espressa dalle persone anziane. Le continue lamentele degli anziani sui loro dottori, i luoghi che visitano, il cibo che mangiano e il loro costante atteggiamento di “guardare al passato, quando ero giovane…” come l’età d’oro, quando il corpo era forte e la mente più rapida (forse meno arguta)…tutto questo può essere un sentore di vergogna.

Una vecchia donna, a me molto cara, dopo molti giorni di continue lamentele, ha cominciato a piangere esponendo le sue paure d’essere discriminata, incapace d’usare la tecnologia, “Sono piena di vergogna per il mio cuore che non risponde al giusto ritmo, e ho il terrore d’essere messa in una casa di riposo. Inoltre sono un disastro con internet e tutto ciò che ha a che vedere con la tecnologia”. Nessuno attorno a lei sospettava tutto questo, perché appariva come una donna molto attiva ed energica. La vergogna era silenziosa, difficile da smascherare, ed era celata da tutte queste rimostranze e sentimenti nostalgici. La buona notizia è che dopo una condivisione con amici e parenti, e la chiara richiesta d’aiuto, la vergogna per questa signora si è sciolta come neve al sole.

Tutto questo per sottolineare che in alcuni casi la vergogna è “verbalizzata”, è scritta e riportata, come nelle narrazioni delle persone con malattie della pelle, ma in altri casi questo sentimento è spesso mascherato da altri. Dato che la vergogna è legata al mostrarsi al pubblico, il non-detto qui è molto presente, e per facilitare un buon coping, ci vorrà del tempo prima che questa emozione venga svelata. Si prova vergogna perfino di provare vergogna. In ogni caso, per quello che sappiamo, il primo passo per iniziare il coping è il prestare attenzione alle emozioni percepite.

 

La vergogna e i provider sanitari

In uno studio portato avanti in Italia, sono state analizzate le narrazioni di pediatri su bambini e adolescenti affetti da asma grave per vedere se questo approccio di scrittura permettesse di accordare le costruzioni culturali sia dei medici che dei pazienti, includendo le emozioni e i valori della malattia e i cammini di cura. Dalle 68 cartelle parallele, le narrazioni complete di un caso clinico che includono anche la “illness”, la “sickness” e la qualità della relazione, i fattori di rischio più frequenti per i rapporti erano il giudizio morale dei medici (73%), e la rabbia dei pazienti (50%). Il meccanismo completo che ha indotto i pazienti ad esplodere di rabbia è spesso un senso di vergogna per qualcosa che non sarebbe andato fatto: tenere un animale a casa, genitori che continuano a fumare, o la mera sensazione di sentirsi giudicati dai dottori per come erano vestiti, per come parlavano o per come si comportavano. Infatti vi sono commenti nei loro scritti riguardo lo stile genitoriale povero o eccessivo delle madri dei bambini. A volte i dottori sono valutatori delle qualità dell’essere un buon genitore, e possono essere profondamente giudicanti quando scorgono possibili ammanchi in queste abilità. “La ragazza dovrebbe andare a vivere con il padre perché la madre è totalmente inadeguata, manca d’empatia”. Tutto questo, se non definitivamente legato alla vergogna, crea in ogni caso una relazione imbarazzante tra dottore e paziente, il quale è portato ad un rifiuto del cambio di terapia nella metà dei casi (50%) e ad un grado minore di attività recuperate. Questo per dire che il sentimento di sentirsi umiliato e giudicato, crea nei pazienti il bisogno di abbandonare il medico e i trattamenti suggeriti per scegliere curanti meno moralizzanti. I medici in grado di controllare quest’attitudine al giudizio possono gestire, oltre l’accettazione e l’ascolto, le emozioni dei pazienti di paura e tristezza e fornire rassicurazione e conforto. Quest’ultimo atteggiamento migliora l’alleanza con i pazienti e l’efficacia dei trattamenti.

Nella lista delle “cose da fare” per un buon curante, quando possibile, vi è il frenarsi dal cadere nella trappola del giudizio morale, verbale e non, per evitare i sentimenti di inadeguatezza e inferiorità che contribuiscono alla vergogna e conducono i pazienti a un comportamento passivo o ad una reazione aggressiva, entrambe controproducenti in una via di cura. La gentilezza è l’antidoto al giudizio morale, ed è sia razionale (intelligente) ed emotiva (compassionevole).

 

Medicina nella società (post)contemporanea

La società (post)contemporanea che possiede un sistema sanitario fatto di test di laboratorio, investigazioni e immagini, rifiuta sempre più la presenza del corpo e dell’anima, mettendo in enfasi la mente e la tecnologia razionale. Come se assistessimo ad una separazione schizoide: da un lato la medicina incorporea, senza carne, ossa, sangue, senza l’interezza del corpo, ma soprattutto microchirurgia e tecniche laser, recettori invisibili e neurotrasmettitori, e dall’altro lato il corpo e l’anima nella loro integrità d’esseri umani. Cambiamenti nei corpi e nelle menti, causati dalla malattia e dalla vecchiaia, e altri eventi possibili, esisteranno sempre per il singolo e per la società. Appartenendo alla storia del genere umano, tutti noi sosteniamo il catalogo delle emozioni inclusa la vergogna.

Pertanto, cercando di rispondere alla domandi di come attivare il coping con la vergogna, ecco cosa abbiamo imparato leggendo le narrazioni di pazienti e dottori: alcuni dei fattori Carver sono ancora presenti: consapevolezza (razionalizzazione, senso di realtà), piacevolezza (il condividere con gli altri, cercare relazioni amorose, essere estroversi, essere gentili e anche con limiti, in grado di accettare e perdonare), responsabilità (iniziare a curare la malattia, collocare la malattia nei confronti di altre malattie più gravi con un comportamento responsabile) e allontanarsi dal pensiero ossessivo di vergogna di fare qualcos’altro, un’attività creativa.

Oltre i fattori ordinari, l’Orgoglio potrebbe essere un antidoto interessante alla vergogna: se la vergogna si origina dalla paura e dal disgusto, l’orgoglio, secondo Plutchick, è un’emozione secondaria, nata da “madre Gioia” e “padre rabbia”. Come abbiamo visto la vergogna blocca la persona nella sua vita, limitandone le potenzialità d’avere una vita sociale corroborante. Una dose moderata di rabbia, assieme alla gioia, può essere utile per continuare a vivere nella posizione esistenziale della vergogna. Mi permetto di scrivere questo perché ho imparato personalmente molto dalla medaglia della signora dell’occhio perso e dalle donne che hanno il coraggio di mostrarsi dopo la mastectomia al seno, senza chirurgia plastica aggiuntiva ma con cicatrici decorate da tatuaggi. In Giappone c’è un’arte chiamata Kintsugi: quando un vaso si rompe, loro non utilizzano colla invisibile, e nemmeno lo gettano via. Con la tecnica Kintsugi, inseriscono dell’oro lungo tutti i pezzi rotti e ricostruiscono di nuovo il vaso. Avranno un nuovo vaso, sul quale ogni nuova rottura sarà simbolo d’orgoglio con il suo manto dorato. Le cicatrici sono tutte lì e tutte visibili: più cicatrici ci sono, più prezioso sarà il vaso.

“Quando fai un buco nel tuo vestito, non ripararlo con rattoppi invisibili, ma cuci gli stracci e ricamalo per renderlo ancora più bello.” (Detto anonimo italiano).

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Il 19 settembre ho tenuto una lettura intitolata: Sconfiggere la Vergogna nella malattia post-contemporanea. Un’analisi tratta dalle narrazioni dei pazienti al Trinity College di Dublino all’interno dell’evento “Cultures of shame in medicine: an interdisciplinary workshop.” Cliccando qua è possibile caricare la presentazione intitolata Sconfiggere la vergogna nelle narrazioni di illness, mentre qui puoi scaricare il programma dell’evento.

 

Riferimenti:

  • Assessing Coping Strategies: A Theoretically Based Approach, Charles Carver et al, Journal of Personality and Social Psychology Copyright 1989 by the American Psychological Association, Inc. 1989, Vol. 56, No. 2, 267-283
  • Narrative medicine: bridging the gap between medical humanities and evidence based care, Maria Giulia Marini, Springer Edition, 2016
  • The emotions, Robert Plutchick, University press of America, 1991
  • The illness narratives: suffering, healing, and the human condition, Arthur Kleinman—Basic Books, 1988
  • Living with a stoma, 2016
  • Narrative medicine to evaluate the relationship between clinicians and patients living with severe asthma A. Cappuccio , M. Latella , G. Pelaia , F. Menzella , G. Pellegrini , M. G. Marini, 12.01 – Medical Education, Web and Internet, 2016

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

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