Un’apologia del tempo lungo

“I’m sick to death of this particular self. I want another.”

Orlando, Virginia Woolf

 

Apologia del tempo lungoNel romanzo di Virginia Woolf, “Orlando”, il/la protagonista attraversa quattrocento anni per trasformarsi e conquistare la sua vera “essenza”. Nasce uomo sotto Elisabetta I d’Inghilterra e vivrà come donna libera all’inizio del ventesimo secolo. Percorre due ere, due eoni – l’evo moderno e quello contemporaneo – per compiere la sua metamorfosi: Lord Orlando, nel corso dei secoli, si sveste del suo maschile molto rigido e colmo di falsi assolutismi di genere in cui “tutti gli uomini sono…” e “tutte le donne sono…”, scandito in una vita incastonata da onorificenze, di grande valore per gli altri, ma di alcun valore per Sé stesso, per realizzare l’altro Sé desiderato dalla Woolf. Intorno al 1610 – ma questa data è solo una probabilità – l’orrore e la pietà per un soldato che gli muore accanto in guerra, lo faranno addormentare in un Non Luogo d’Oriente per portarlo a rinascere come Lady Orlando. Qui comincia la sua lotta per affermare l’essere “donna”, attraverso il diritto all’inclusione nella conversazione con poeti uomini quali Swift e Pope che ne celebrano la bellezza, ma ironizzano sulla sua intelligenza femminile; o attraverso il diritto di proprietà privata da cui lei è esclusa perché non ha eredi maschi. Il romanzo si conclude con l’incontro di un avventuriero venuto a cavallo e pronto a ripartire per non si sa quali ideali verso il Nuovo Continente: qui, in un atto d’amore estremo con il Cavaliere inquieto, termina la Sua metamorfosi, conquistando finalmente la sua libertà, autonomia, e indipendenza.

Che Orlando sia il manifesto della natura duplice di Virginia Woolf è chiaro e non sarà l’oggetto di queste mie poche righe. La peculiarità di Orlando è che in queste due ere il personaggio della Woolf, per riprendersi dalle prove continue della vita che tocca le sue parti più intime e che la addolora mortalmente, cade per giorni in una letargia (oggi la chiameremmo ipersonnia) a cui i medici – e dunque il pensiero razionale e scientifico – non sanno dare alcuna spiegazione. Ogni volta che Orlando si risveglia, uomo o donna che sia, sceglie di essere e intraprendere il Nuovo. Ecco la straordinarietà del romanzo: perché i cambiamenti siano profondi e non effimeri ci vogliono due elementi, il Tempo e il Sonno.

Il primo elemento, il Tempo, è dilatato nei secoli, fino a diventare l’evo, l’Aion – dove la storia, così come le fasi di una vita, si divide in fasce secolari: per i greci, l’Aion è tradotto come il susseguirsi delle ere storiche, fino a ricomporre l’eternità. L’Aion è rappresentato da un animale fantastico, con testa di leone su un corpo umano alato avvolto da sette spire di serpente, a simboleggiare il cosmo con i suoi sette ordini stellari che trascendono la storicità. È un tempo mitologico, che usa creature ancora più antiche di quelle dell’olimpo greco-romano, ma si rifà alla cultura sanscrita e persiana. La Woolf mentre immaginava l’immortalità di Orlando, viva ancora oggi nell’attuale presente, seppur non conosciamo se sia Donna, Uomo, Androgino, Ermafrodito o altra possibilità umana, animale o divina, ci riconduce ad una creatura eternamente dinamica, che continua a permutare attraverso i secoli.

L’altro ingrediente, il Sonno, rappresenta una quasi morte, un riposo senza sogni, un oblio, una pausa lunga, che equivale a un “non fare”, un ritrarsi dalla mondanità, un “abbozzolarsi”, per dar vita a nuova fioritura da un seme letargico e poter giungere alla maturità.  Il mondo scientifico e fattivo dell’Occidente, basato sull’efficienza, non può comprendere il mistero della trasformazione che avviene proprio attraverso il ritirarsi dalle questioni del mondo, assimilando anche filosofie Orientali.

Ma io scrivo di Medicina Narrativa e vi chiedo cosa c’entra la storia di Orlando con i racconti delle persone malate. Iniziamo a rivolgere lo sguardo ai pazienti e alle loro storie familiari che si trovano a convivere con malattie non più solo “croniche” ma “eoniche”, quasi eterne, nella loro percezione – un susseguirsi di ere, di fasi, di cicli. È interessante sapere che quando Virginia Woolf iniziò la stesura di Orlando stava male, oggi la etichetteremmo affetta da una grave forma depressiva: di fatto lei portava con sé il suo mal di esser donna in una società ostile con il suo femminile emancipato, rivendicativo e libero. Fu attraverso la scrittura di Orlando, durata quasi un anno, che si curò: prescrisse Lei stessa a Sé stessa la sua terapia, un eone lungo quattrocento anni e la capacità di voltare le pagine della propria vita attraverso il letargo (da Lethes, oblio, e Argos, inerzia), ossia l’inerzia nell’azzeramento della propria memoria. Il/la protagonista è di fatto altalenante tra felicità e infelicità per la quasi totalità del libro, eppure attraverso le sue esperienze di amore giovanile, guerra, poesia, politica, società e di nuovo amore adulto – intercalate dall’oblio del sonno – riesce a trovare la sua felicità finale, aperta al Nuovo che le viene incontro. Il fatto che Virginia fosse “anormale” e “malata” per la società d’allora, in quanto innamorata della donna a cui dedica il romanzo, è stato per lei l’occasione per riattraversare attraverso la narrazione il dolore dell’essere vittima di un’infinità di costrizioni sociali, nel mondo antico delle impari opportunità, per arrivare nel mondo odierno ad amare la sua diversità. Vi è una compresenza tra il tempo reale di scrittura e il tempo secolare necessario per la metamorfosi.

Le persone “malate”, quando si raccontano nelle loro narrazioni, soprattutto nel caso delle disabilità, desiderano inizialmente essere normali, conformi alla norma, e cercano a tutti costi una chiave per essere accettati dall’Altro, famiglia, amici, lavoro, ambiente più esterno. Ma la ricerca della Normalità può essere una idiota chimera se diventa un’inutile ossessione che ruba il tempo alla scoperta del proprio vero essere: per amarsi diversi – anche se malati – e amare il mondo attorno, per dirla alla Arthur Frank, riferimento della Medicina Narrativa con il suo “cantastorie ferito” (“The Wounded Storyteller”), è opportuno trovare un proprio stile per convivere con la propria diversità e fare di ciò che sembra fragilità un punto di forza. Ma questo non si ottiene in tempi efficienti e concitati, richiede tempo lungo e tanto letargo tra una prova e la successiva, così come ci insegna Virginia.

Se nell’altro mio scritto mi ero concentrata sulla necessità di un tempo istantaneo e fulmineo (Kairos) per intuire e correggere le rotte di navigazione nella cura dei pazienti, qui affermo l’importanza di convivere anche con tempi di maturazione lunghi. La saggezza proverbiale insegna: “la gatta frettolosa fa i gattini ciechi” e Carl Gustav Jung scrive che l’Anima, quell’indefinito che definisce la nostra vera natura essenziale, ha tempi molto più lenti della Mente.  I latini, da bravi spiriti pragmatici, conciliavano entrambe le dimensioni del tempo con un paradosso Festina lente – affrettati con lentezza. Ricordiamoci che accanto alla voracità del tempo infinitesimale, la nostra natura, e soprattutto quella dolorante e sofferente, ha bisogno anche di stare nei tempi lunghi. Le decisioni che ci auto curano verranno prese con calma, così come le scelte per cui opteremo con chi ha cura di noi. Un esercizio di equilibrio tra velocità e lentezza.

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.