Transitional care, malattie rare e sanità: intervista con la professoressa Laura Mazzanti

Questo mese abbiamo il piacere di ospitare un’intervista davvero interessante, realizzata in collaborazione con Laura Mazzanti, del Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche dell’Università di Bologna. Con la professoressa Mazzanti abbiamo discusso dell’infanzia, della sanità e soprattutto del problema del transitional care.

MGM: Il transitional care – le cure transizionali – prevede la continuità assistenziale dal mondo dell’infanzia, all’adolescenza fino all’età adulta: in alcune situazioni è più semplice quando stiamo parlando di un bambino sano che passa d’ufficio dal pediatra di libera scelta – quindi quando non c’è necessità di competenze specialistiche – al medico di medicina generale. Ma in altri casi, come nel Suo professoressa, che si occupa di bambini con malattie rare in endocrinologia è molto più complesso da realizzare…

Sì, è così, per noi la situazione è molto complessa, perché le malattie rare sono complesse. Occupandoci di malattie rare, noi vediamo i bambini piccoli, dal momento della nascita fino a quando hanno in alcuni casi anche 20 e 22 anni per alcune patologie dove manca un centro esperto, come la sindrome di Williams, vediamo persone di 30-35 anni… Per alcune particolari condizioni mettiamo in atto una vera e propria medicina personalizzata; per la transizione la maggiore difficoltà è fare i conti con patologie croniche in particolare su diversi aspetti: sul management clinico generale, i continui controlli clinici, ma soprattutto dove sussistono eventuali deficit cognitivi dovuti alla patologia del bambino o a disturbi comportamentali per i quali è più difficile trovare una figura nel mondo dell’adulto che sappia mettere in atto gli accorgimenti necessari per la cura del paziente. Mancano le risorse, le strutture, il personale dedicato.

MGM: Esistono delle linee guida che esplicitano in Italia la necessità di applicare il transitional care?

Certamente, esistono le linee guida, poi ogni azienda ospedaliera ha dei propri protocolli. Gli enti più attivi sono le società scientifiche, come quelle di endocrinologia pediatrica, che affrontano spesso questo tema in modo specifico per diverse condizioni, in particolare quelle di interesse endocrinologico quali: il deficit da ormone della crescita, la sindrome di Turner… o malattie rare come la sindrome di Williams… Un ruolo importante in queste decisioni è rappresentato anche alle associazioni dei pazienti. Per alcune condizioni in campo endocrinologico è più facile avere un aggancio fra lo specialista pediatrico e quello dell’adulto, questo avviene ad esempio, con pazienti con sindrome di Turner o di Klinefelter. Tuttavia, c’è ancora molto da fare per garantire un efficace transitional care. Bisognerebbe essere molto più severi nel garantire l’adeguamento dei centri alle linee guida. Controllare di più. Inoltre, spesso le difficoltà riscontrabili dipendono dalla sede dei centri, potrebbe essere che il centro dove il paziente era in cura da bambino sia molto distante dal centro dove verrà seguito da adulto… Il centro pediatrico deve accompagnare le famiglie alla transizione molto precocemente, già in adolescenza in modo da ottenere una piena condivisione del percorso di cura con le famiglie. Il percorso di transizione che mettiamo in atto noi nella nostra struttura parte con la redazione di una relazione con tutta la storia clinica del paziente, a cui seguono diversi incontri fra il team del centro pediatrico e quello dell’adulto. I diversi passaggi possono essere più o meno veloci a seconda della compliance del paziente o in base a quanto le famiglie hanno recepito in merito alla patologia, alle condizioni del paziente e del percorso di cura. Il compito più importante in questa fase è generalmente svolto dal centro pediatrico.

MGM: Il carico della mancanza di cure transizionali da chi viene portato? Da voi operatori? Dalle famiglie? Dai ragazzi grandi che si trovano ancora in ambienti pediatrici?

Un po’ da tutti, è un percorso che dovrebbe essere più strutturato; le linee guida ci sono ma dovrebbero essere più efficacemente applicate da tutti i centri. Purtroppo spesso mancano le risorse per poter creare un team multidisciplinare davvero completo. Bisogna allargare le competenze, aggiungere medici dell’adulto nel team pediatrico. Idem per il paziente, che si trova nelle sale d’attesa o pediatriche assieme a bambini, una volta già cresciuto. Inoltre, il paziente deve affrontare il passaggio da un centro pediatrico che fornisce maggiore accudimento, con un clima più incline al prendersi cura, ad un centro dell’adulto dove è necessaria maggiore consapevolezza da parte del paziente e autonomia nella gestione della propria condizione di salute. In alcuni casi, questa consapevolezza può essere impedita, ad esempio per pazienti con sindrome di Williams dove esiste una compromissione anche cognitiva e un discreto ritardo mentale: a volte è difficile trovare un centro dell’adulto che possa affrontare anche questo aspetto in concomitanza.

MGM: Forse c’è un vantaggio a non avere il Transitional care per le malattie rare- anche se non lo dovremmo dire: i pazienti e le loro famiglie hanno voi come unico punto di riferimento per la vita. Una specie di patto di fedeltà…come considera quest’idea? Mi viene in mente il servizio sanitario inglese dove non esiste il pediatra di libera scelta ma i bambini fin da piccoli hanno il loro medico di famiglia e in caso di necessità intervengono poi i diversi specialisti…

Il distacco delle volte è difficile sia per la famiglia che per il medico che segue. A volte capita di farci garanti del paziente per tutta la loro vita. Il medico che segue da sempre il paziente può rimanere comunque un punto di riferimento, ma questo atteggiamento non va estremizzato. Anche la maturità del soggetto ne risentirebbe. Nell’ambulatorio dell’adulto è il soggetto a doversi fare carico, a seconda dell’entità del ritardo mentale, della propria condizione (anche se in molte casi la disabilità è soprattutto fisica). Anche i controlli da parte dei medici diminuiscono nel tempo, ad esempio per pazienti con deficit da ormone della crescita da visite semestrali, si passa ad annuali o a visite più dilatate nel tempo. È necessario quindi portare il soggetto ad una maggiore maturità. Esistono anche dei questionari che vengono somministrati al paziente per valutare il suo grado di maturità e progettare così al meglio la transizione.

MGM: Parliamo delle famiglie e dei bambini con malattie rare che crescono e diventano adulti? Quali per loro le sfide?
Le sfide sono molte. Nel campo endocrinologico pediatrico abbiamo in cura pazienti che man mano diventano adulti, che devono così fronteggiare confronti sempre più difficili con i loro pari che non hanno questo tipo di disabilità. Molto importante avere dei gruppi di supporto costituiti dalle famiglie, dallo specialista e da uno psicologo. Nel nostro contesto, questo gruppo lo abbiamo soprattutto per alcune condizioni come per la sindrome di Turner, che ha una certa complessità nella gestione. Si riunisce una volta al mese ed è utile sia ai genitori delle bambine che alle pazienti adulte, che trovano importante poter condividere fra loro e con lo psicologo dubbi e difficoltà dovuti alla loro condizione. Tutti i centri dovrebbero avere uno psicologo dedicato.

MGM: le direzioni generali e sanitarie, e i decisori in materia di politica sanitaria come si rivolgono vero le questioni delle malattie rare e del transitional care?

Dipende dalla regione. Per Emilia Romagna c’è attenzione per questo tema, verranno fornite anche risorse a tale scopo. Però, la partenza viene soprattutto dai professionisti e dalle famiglie. Ci stanno aiutando in questo percorso e nella costituzione di un vero e proprio transitional care in endocrinologia; recentemente è stato messo a punto un protocollo, un cosiddetto PDTA per strutturare i diversi passaggi del percorso di transizione, che è stato anche riconosciuto dalla nostra direzione e che di conseguenza speriamo venga presto attuato.

MGM: E noi come società cosa siamo chiamati a fare?

Ci vuole una sensibilizzazione nei confronti di chi ha una patologia cronica. Ci vuole proprio il riconoscimento che il soggetto deve aver cura di sè per tutta la vita, quindi organizzare dei percorsi, dare accesso alle cure. Credo che la società, il SSN, le associazioni debbano lavorare molto su questo, facendo prevenzione facendosi garanti per la loro salute e qualità di vita.

MGM: Medical Humanities e medicina narrativa: penso a film su Malattie rare come L’Olio di Lorenzo sull’adrenoleucodistrofia, Misure straordinarie sul morbo di Pompe, e al festival Uno Sguardo Raro di video sulle malattie rare…. penso alle narrazioni delle persone che hanno le malattie rare, di coloro che vivono assieme a loro, alle vostre narrazioni… Cosa ne pensa? Aiutano a sensibilizzare e informare non solo la classe medica ma anche la società più allargata?

Molto importanti per formare non solo la classe medica ma anche la società. Viene percepito dalla popolazione cosa vuol dire aver una malattia rara. È uscito di recente film con Owen Wilson, bambino con una grave deformazione facciale, doveva andare a scuola con un casco spaziale. Serve a sensibilizzare. Dall’altro lato ci mostrano anche come le famiglie necessitino un’enorme forza di volontà. Le situazioni peggiori per noi sussistono quando manca l’accettazione da parte dei genitori della diversità del proprio figlio.

(foto: La Repubblica.it)

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

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