Proteggersi usando la finzione: quando le medical humanities giocano un ruolo migliore della medicina narrativa

Come il lettore avrà compreso, sono in qualche modo a favore delle narrazioni del paziente reale, perché sono così colorate, così intense e vivide da non necessitare di un particolare cambio dei fatti. Per anni ho lottato chiedendo agli operatori sanitari di raccogliere le narrazioni dei pazienti e di scrivere le loro narrazioni; tuttavia, ho scoperto direttamente sulla mia pelle che in sanità parlare di finzione, anche se ispirati a fatti reali, è molto meglio che dire il vero. Anche se questo “vero” è totalmente anonimo, avendo eliminato il nome di operatori sanitari, luoghi e pazienti, alcune questioni reali, o per lo meno percepiti reali dai pazienti, sono forti, così taglienti, che i curanti a volte rifiutano di affrontarli e tendono a rifugiarsi in narrazioni immaginarie, appartenenti al mondo delle medical humanities (meglio leggere “La morte di Ivan Il’ič”, un classico delle medical humanities, che non una narrazione in cui si parla di un paziente lasciato morire da solo. Di fatto entrambi i testi portano alla stessa questione: la dignità del morire. Ma la penna di Tolstoj ci protegge pensando che sia un atto di pura invenzione, mentre vederselo scritto da un figlio disperato e arrabbiato ci rimanda ad una realtà difficile da inghiottire). Ciò è particolarmente vero quando le narrazioni tendono ad essere piene di “giudizio morale” e “critica”, sia per i pazienti che per i curanti.

In uno studio che utilizza la cartella parallela, cioè narrazioni libere dei medici, dei pazienti e della loro famiglia, fatto da pediatri che curano i bambini affetti da asma grave, leggiamo non solo casi meravigliosi di medici completamente dediti ai bambini e ai loro curanti, ma dobbiamo fare i conti a volte anche con questo “stile ironico / cinico” rappresentato da questa frase: “cara balena: la paziente mi ha detto che è stata completamente invalidata nel fare le sue attività quotidiane. Non poteva camminare senza avere il fiato corto, non usciva mai da sola“. “La madre, molto glamour, d’alta società, era super ansiosa…secondo me quella ragazza dovrebbe andare a vivere con suo padre“.
Brevi esempi del contesto delle narrazioni di alcuni medici, speriamo pochissimi, che scrivono in questo modo. E se scrivono in questo modo, probabilmente pensano in questo modo: nessuno di noi è libero dal giudizio, tutti siamo contaminati dai pregiudizi, ma in queste frasi vengono date forti etichette al nostro paziente “balena” e caregiver “una madre glamour”: è retorico dire che, da queste premesse, queste famiglie abbandoneranno i loro medici. Oltre a ciò, quando abbiamo usato nelle classi di formazione questi esempi di cartelle parallele, o anche le intere cartelle parallele, alcuni medici si sono ammutinati, pochi per fortuna, difendendo i loro colleghi sconosciuti a nome della classe medica, e facendo notare che all’università studiano come chiedere l’anamnesi con empatia. A fine corso altri medici e operatori sono venuti a chiedere scusa per il comportamento dei loro colleghi.

Proseguo ulteriormente, prima di giungere alla conclusione: in una lettera scritta dal figlio di un padre morto senza familiari in ospedale, il figlio racconta di aver chiesto molte volte se avesse potuto rimanere quella fatidica notte della morte, ma il medico gli ha detto “tutto andrà bene, vada a casa“, tuttavia le cose sono purtroppo andate diversamente e nel cuore della notte il figlio ha ricevuto la telefonata dall’ospedale “vieni, tuo padre sta peggiorando“, ” è morto“,”possiamo solo dirle che è peggiorato“. Il figlio corse all’ospedale e il padre non era più nel suo letto. Un’infermiera, non guardandolo nemmeno, ma continuando a mettere in ordine alcuni campioni di sangue, gli disse: “Sa che tuo padre è deceduto?“. Il figlio ha chiesto di avere un dialogo formale con un medico, ma non è venuto nessuno. Alla fine gli effetti personali del padre sono stati consegnati al figlio in un sacco della spazzatura.

Questa è una narrazione che è stata scritta come una lettera del modulo reclami dell’ufficio relazione col pubblico dell’ospedale: l’abbiamo usata in modo anonimo durante la formazione di classe in un corso intitolato “prendersi cura del rapporto di cura”. Mostrare questo caso ha causato un terremoto in aula. La classe si è divisa in due: una parte che era felice che alla fine questi fatti legati alla comunicazione trascurata e agli errori organizzativi fossero emersi alla luce del sole, e un’altra parte, troppo spaventata per considerare questo caso come accaduto realmente. La seconda parte affermava che il figlio aveva inventato tutta una serie di fatti: era ancora in lutto per l’improvvisa e inaspettata morte di suo padre, e doveva trovare un capro espiatorio, che in questo caso era l’ospedale. Si tratta di una situazione molto complessa, senza una posizione da prendere su chi abbia ragione o torto. Tuttavia, in ogni caso, ha a che fare con la dignità della morte e tutte le linee guida del fine vita menzionano la possibilità di avere dei familiari al letto, possibilmente in un contesto migliore e più umano. Ciò ha a che fare con il fatto che forse dovrebbero esserci sacchi migliori (anche se le risorse scarseggiano) per raccogliere gli ultimi oggetti personali di un essere umano. Magari sacchetti colorati, con dei bei messaggi all’interno.

Tutto questo, la dignità della morte, era stata nascosta durante la discussione da un’ondata di rabbia e rifiuto su come questi pazienti e curanti possano mentire e recare danno all’ospedale.

La mia prima riflessione: medici e infermieri hanno reagito in modo esagerato, perché in qualche modo non contenti di quello che fanno, non sufficientemente riconosciuti dalle loro direzioni sanitarie e generali per la loro bravura, troppo spaventati di commettere errori, con troppa paura di essere perseguiti legalmente. Sappiamo che l’80% dei medici e degli infermieri in Italia applica la medicina difensiva e vive nel burn out. Non tutti, ma alcuni di loro. In sintesi, ne esce un quadro di sanità malata, con un forte disagio, conflittuale, forse oberata da carichi di lavoro eccessivi, continui tagli al personale, lotta per avere un minuto in più per parlarsi tra curanti e per parlare al paziente.

La mia seconda riflessione: se i curanti non sopportano la possibile verità delle parole usate da colleghi, pazienti e operatori sanitari, dobbiamo usare qualsiasi cosa funzioni per promuovere l’empatia e le capacità relazionali (ben vengano Ivan Il’ič, i “Sette piani” di Buzzati e “Patch Adams” con Robin Williams): utilizzare studi umanistici, film, letteratura, arte, teatro, musica, qualunque cosa sia in grado di “dire qualcosa di verosimile” all’interno delle linee di finzione e della manipolazione emotiva della performance. Usiamo pure strumenti artefatti.

Nella mia esperienza mi sono resa conto che a volte “negare” non è qualcosa che viene attuato solo dai pazienti quando ricevono una diagnosi infausta, ma è anche attuato dai loro curanti. Il mondo della finzione è preferito e in alcuni casi è impossibile mettere le cose in ordine, come Mary Kondo (Il superpotere del riordino) in un messaggio semplicistico sta cercando di insegnarci. Molto probabilmente, quando sentiamo che sta accadendo qualcosa di minaccioso, tendiamo a tornare in qualche modo all’infanzia e desideriamo ascoltare delle belle fiabe dove il cattivo è lontano e distante nel bosco.

Forse, per non rifugiarci nel mondo delle fiabe, possiamo imparare qualcosa da questo ideogramma cinese, che significa ASCOLTO:

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Osserviamo la figura:  nel quadrante a  sinistra in alto è raffigurato, in modo stilizzato, un orecchio, sempre in alto a destra un occhio. Scendendo a destra c’è una linea unica che significa UNITA’, oppure attenzione unitaria. Sotto questa linea è chiaramente ben visibile, se pur tratteggiato, un cuore. Finendo il ciclo, nel quadrante in basso a sinistra c’è la raffigurazione del RE, che in altri passi ho trovato tradotto come Mente. Preferisco pensare al RE. In sintesi, per una comprensione che sia degno di un RE (o di una Regina, e tutti  noi possiamo diventarlo), ci vuole l’osservazione, l’ascolto, l’attenzione totale a ciò che accade e il cuore che è la sede dello SHEN, lo spirito. Se lo Shen è forte, il cuore sarà forte, l’ascolto sarà migliore e rette saranno le azioni conseguenti.

Se rinforziamo quindi il nostro cuore e sappiamo usare occhi, orecchie, concentrazione sapremo ascoltare ogni cosa che ci verrà detta dalla più difficile da mandar giù alla più bella in modo regale.

Maria Giulia Marini

Epidemiologa e counselor - Direttore Scientifico e dell'Innovazione dell'Area Sanità e Salute di Fondazione Istud. 30 anni di esperienza professionale nel settore Health Care. Studi classici e Art Therapist Coach, specialità in Farmacologia, laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Ha sviluppato i primi anni della sua carriera presso aziende multinazionali in contesti internazionali, ha lavorato nella ricerca medica e successivamente si è occupata di consulenza organizzativa e sociale e formazione nell’Health Care. Fa parte del Board della Società Italiana di Medicina Narrativa, Insegna all'Università La Sapienza a Roma, Medicina narrativa e insegna Medical Humanities in diverse università nazionali e internazionali. Ha messo a punto una metodologia innovativa e scientifica per effettuare la medicina narrativa. Nel 2016 è Revisore per la World Health Organization per i metodi narrativi nella Sanità Pubblica. E’ autore del volume “Narrative medicine: Bridging the gap between Evidence Based care and Medical Humanities” per Springer, di "The languages of care in narrative medicine" nel 2018 e di pubblicazioni internazionali sulla Medicina Narrativa. Ha pubblicato nel 2020 la voce Medicina Narrativa per l'Enciclopedia Treccani e la voce Empatia nel capitolo Neuroscienze per la Treccani. E' presidente dal 2020 di EUNAMES- European Narrative Medicine Society. E’ conferenziere in diversi contesti nazionali e internazionali accademici e istituzionali.

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