Preservazione della fertilità: per parlarne con delicatezza. Intervista ad Alberto Revelli

Progetto preserviamo: medicina narrativa e preservazione della fertilitàFondazione ISTUD sta collaborando con il Centro di Fisiopatologia della Riproduzione e PMA dell’Azienda Ospedaliera Città della Salute e della Scienza, Presidio Ospedaliero S. Anna di Torino, in un progetto di Medicina Narrativa intitolato PRESERVIAMO. Il progetto si rivolge alle donne che seguono l’intervento di crioconservazione degli ovociti prima di sottoporsi a terapie potenzialmente lesive della loro capacità riproduttiva, quali la chemioterapia, la radioterapia o altre. A cinque mesi dall’avvio della raccolta delle narrazioni delle donne e dei loro curanti, vi presentiamo l’intervista al Professore Alberto Revelli, – responsabile del Servizio di Fisiopatologia della Riproduzione e della P.M.A. (Procreazione Medicalmente Assistita) dell’Ospedale Sant’Anna di Torino – che ha per primo promosso il progetto, con l’obiettivo di informare correttamente su tale possibilità di cura.

D. Perché il vostro centro esperto di cura per la preservazione della fertilità ha deciso di promuovere un progetto di Medicina Narrativa rivolto alle donne che effettuano questo intervento?

AR. Il nostro centro è da anni un riferimento per le donne che desiderano preservare la fertilità nei casi in cui gli eventi della vita la mettano in una condizione di rischio. Abbiamo deciso di realizzare questo progetto soprattutto per informare e sensibilizzare i possibili utenti e gli operatori sanitari sulla valorizzazione della fertilità. Nel nostro centro ci rivolgiamo a chi è in una condizione di particolare rischio di preservazione della fertilità, ma riteniamo che la fertilità sia un bene molto prezioso per tutti, anche quando si è nel pieno delle possibilità per esprimerla, non solo quando si sta per perderla. Inoltre, siccome spesso non abbiamo la possibilità di ottenere dei riscontri a distanza di tempo dalle persone che si sono rivolte a noi, abbiamo voluto creare un occasione per raccogliere dei feedback sul nostro operato. Si tratta di una scelta, se vogliamo, coraggiosa, perché in questo modo il nostro team si mette in discussione, ma riteniamo sia molto importante questo passaggio, per riflettere sulla qualità delle cure che offriamo ed individuare spunti di miglioramento e valorizzazione delle nostre attività.

D. Com’è nata l’idea di estendere la raccolta delle narrazioni anche ai curanti che accompagnano i percorsi di cura di queste donne?

AR. Il nostro scopo è di fare informazione e sensibilizzazione verso tutti, operatori compresi, in primis gli oncologi. L’attività di raccolta delle narrazioni è stata estesa ai curanti soprattutto con l’obiettivo di sensibilizzarne altri, attraverso le testimonianze di chi già opera quotidianamente per la valorizzazione della fertilità. L’auspicio è che leggendo quello che hanno fatto i loro colleghi, altri professionisti possano iniziare a sensibilizzarsi sul tema. Anche perché la migliore informazione per le pazienti deve essere filtrata attraverso i loro referenti medici, gli oncologi, i medici di famiglia, i ginecologi, che spesso le seguono da anni e possono guidarle meglio di internet. Sono queste le figure che possono fare da ponte e da riferimento per le donne che affrontano le cure per la preservazione della fertilità, e le accompagnano nelle loro scelte. Attualmente, invece, spesso succede che le pazienti si trovino a fare loro stesse da ponte tra i diversi specialisti medici, prendendo decisioni molto delicate da sole e, talvolta, strette tra pareri contrastanti.

D. Quali pensa che possano essere i valori di queste storie che si stanno raccogliendo?

AR. Il valore principale consiste nell’autenticità delle testimonianze ricevute, storie di situazioni realmente vissute e, come dice un vecchio detto, è sempre meglio dare degli esempi piuttosto che dei consigli. Le narrazioni sono il modo migliore per spronare altre persone a seguire degli esempi in futuro. In particolare, oltre al report della ricerca narrativa, intendiamo realizzare una pubblicazione contenente le narrazioni raccolte, per alzare l’asticella del livello di informazione. Abbiamo molte aspettative da questo progetto.

Q. In un momento corrente in cui il tema della preservazione della fertilità, da questione “tabù” è improvvisamente esplosa in maniera controversa, quale pensa che possa essere il modo corretto di informare e sensibilizzare su queste possibilità di cura?

AR. Intorno al Fertility Day si è creata confusione. Lo scopo era quello di valorizzare la maternità, più che preservarla, in un momento storico in cui le donne che decidono di dare la priorità alla maternità sono quasi viste di serie B, come se lavoro e maternità entrassero in conflitto. In realtà le donne dovrebbero poter usufruire di politiche che aiutino ad integrare i due aspetti, mentre quello che succede oggi è che  molte coppie rinunciano a fare figli, quando avrebbero l’età per farlo, perché non sono nelle condizioni sociali per loro favorevoli. In una società in cui le coppie di trentenni sono ancora obbligatoriamente fortemente dipendenti dalle loro famiglie di origine e non riescono a rendersi autonome, è difficile maturare la decisione di fare una nuova famiglia. Stiamo diventando uno dei Paesi più vecchi del mondo, molti giovani vanno all’estero e noi continuiamo a privilegiare altre politiche. Bisogna recuperare il senso della riproduzione. Questo era la sostanza ed il significato del Fertility Day, non sto discutendo della forma. Avendo fatto parte del tavolo tecnico dell’organizzazione della giornata, ricordo molto bene i contenuti di cui si era discusso, come occasione per fare informazione seria che aiutasse soprattutto i giovani. Quello che è “tabù” è il tema della valorizzazione della fertilità, più che della preservazione, perché il suo significato viene distorto. Il progetto di Medicina Narrativa che stiamo realizzando intende fornire un contributo per veicolare informazioni corrette e sensibilizzare attraverso le modalità più delicate possibili, ossia con le narrazioni.

 

Paola Chesi

Laurea in Scienze Naturali presso l’Università degli Studi di Torino. Project manager e docente dell’Area Sanità di ISTUD dal 2010. Esperta nella realizzazione di ricerche organizzative in ambito sanitario, in particolare attraverso l’approccio della Medicina Narrativa, applicata a progetti di respiro nazionale e internazionale per l’analisi dell’organizzazione e qualità dei percorsi di cura. Tra i temi di riferimento, l'inclusione delle persone con disabilità, e il benessere organizzativo. Coordina percorsi formativi accreditati ECM sulla Medicina Narrativa rivolti a professionisti sanitari, svolgendo attività di docenza applicata e tutoraggio. Coordina progetti europei finanziati nell’ambito dei Lifelong Learning Programme, con particolare riferimento alle metodologie formative basate sullo storytelling. Collabora con la Società Italiana di Medicina Narrativa e con referenti di università internazionali. Partecipa in qualità di relatrice a convegni promossi da società scientifiche e Aziende Sanitarie.

Questo articolo ha 2 commenti.

  1. Roberto

    Lessi qualcosa tempo fa`a riguardo, credo che oltre ad essere fuori luogo, questo tema della medicina narrativa sia, a mio parere, un modo d’apporccio totalmente inapporpriato nei confronti del paziente, in quanto la malattia deve essere trattata come tale.
    Spero che non si perda piu` inutilmente tempo nella medicina narrativa e che vengano concentrate tutte le energie e le risorse nella ricerca: la sola ed unica alternativa alla cura di una qualsiasi malattia al momento non curabile.
    I ricercatori sono la sola speranza che questo si avveri, tutto il resto sono solo argomenti sterili, come lo e`, a mio avviso, il progetto della medicina alternativa.
    Con l’augurio, che in un futuro piu` prossimo, si guardi di piu` alla sostanza e di meno all’apparenza, abbandonando definitivamente qualsiasi progetto concerne alla medicina narrativa.

  2. Maria Giulia Marini

    Gentilissimo dr. Moffa,
    la ringraziamo per aver sollevato il dibattito su dove deve essere indirizzata la ricerca e come devono essere investite le risorse.
    Sono la prima a comprendere e a denunciare il basso investimento in ricerca: purtroppo tra le sue righe non viene indicato a quale tipo di ricerca Lei si riferisce (biotecnologica? farmacologica? alimentare? tecnologica?…).
    Certo il suo desiderio, come il mio desiderio, è trovare delle possibili risposte per sconfiggere le malattie e anche per dare qualità di vita alla quantità di vita.
    La stessa denuncia sui pochi fondi per la ricerca, la faccio io, e mi riferisco alla ricerca sugli effetti della “qualità” delle relazioni e delle parole dette o non dette alle persone che si ammalano.
    Però finalmente le neuroscienze si stanno muovendo e stanno provando (oramai in modo basato sulle evidenze) che le “buone parole”- ovvero “l’arte del dialogo” hanno un effetto tanto benefico se non superiore a quello dei farmaci antidepressivi nel caso di pazienti depressi o ansiosi. E comunque se la relazione è buona, vi è possibilità di acquisire maggiore benessere e di affrontare il percorso di malattia anche per le malattie non mentali.

    Addirittura, al di là di ogni narrazione, la meditazione serve a rendere gli studenti più attenti e concentrati e i pazienti più sereni.
    Ma di fatto sono pochissimi i fondi economici che studiano questi effetti, eppure al King’s college, alla Wellcome Collection, a Harvard, all’Australian National University, nella University of Vermont e in tanti altri ambiti, spesso su base volontaristica perché sono poche le aziende che investono in questo settore, si stanno effettuando proprio questo tipo di ricerche.
    Della Medicina Narrativa di cui si parla sui Giornali, se ha osservato bene il nostro sito, ci interessa poco: narrazione per noi non è Fantasy o Letteratura, ma le cose ascoltate, dette e scritte dai pazienti, i loro familiari, i curanti e i ricercatori.

    La informo anche che la stessa World Health Organization ha scritto delle Politiche su come condurre la “ricerca narrativa in sanità” e la ha sentito il bisogno di investire in questo campo perché troppi sono i pazienti che potrebbero essere curati meglio ma che per seguire l’approccio riduzionistico della mera tecnologia scompaiono nei percorsi di cura.
    Le allego il link https://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK391066/

    e l’abstract scritto dall’autore Trish Greenhalgh, Univerity of Oxford:

    Narrative (storytelling) is an essential tool for reporting and illuminating the cultural contexts of health – that is, the practices and behaviour that groups of people share and which are defined by customs, language and geography. This report reviews the literature on narrative research, offers some quality criteria for appraising such research and gives three detailed worked case examples: diet and nutrition, well-being, and mental health in refugees and asylum seekers. Storytelling (and story interpretation) belongs to the humanistic disciplines and is not a pure science, although established techniques of social science can be applied to ensure rigour in sampling and data analysis. The case studies illustrate how narrative research can convey the individual experience of illness and well-being, thereby complementing (and sometimes challenging) epidemiological and public health evidence.

    Sono stata assieme a Brian Hurwitz del king’s college, revisore delle policies in questione, pubblicate a settembre del 2016.

    La saluto con molta cordialità e la ringrazio per avere aperto questo dialogo molto stimolante che spero possa andare avanti con altri partecipanti.

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