Le cartelle parallele nella pratica clinica: intervista a Maria D’Amato

Obiettivo del progetto “Le parole del respiro” è stata la raccolta di esperienze narrate dal medico nella cura dei pazienti attraverso lo strumento della cartella parallela. Il progetto ha permesso di far emergere il vissuto del paziente BPCO e dare voce, per la prima volta, a un diverso percorso di cura e di presa in carico del paziente nella sua accezione di persona. In secondo luogo, ha permesso di mettere a disposizione dei medici strumenti applicativi nuovi per supportarli nell’ascolto dei pazienti al fine di comprenderne i bisogni, le condizioni di vita, e l’esperienza di malattia attraverso una metodologia complementare a quella “clinica” per definizione. Ospitiamo qui l’intervista a Maria D’Amato, dirigente medico della clinica di Pneumo-Tisiologia dell’Università Federico II di Napoli presso l’Ospedale Monaldi.

D. Cosa pensa della Medicina Narrativa?

MD. È stato un modo completamente diverso e nuovo di approcciare il paziente, andando oltre la solita visita ambulatoriale. La Medicina Narrativa mi ha permesso di immedesimarmi nel paziente, e allo stesso tempo – anche sapendo di dover scrivere le cartelle parallele – di entrare all’interno della sua vita: ha umanizzato il mio rapporto con lui.

D. La scrittura delle cartelle parallele le è stata utile nel migliorare il suo rapporto con il paziente?

MD. Sì. Spesso nella stesura delle cartelle non ho seguito l’impostazione data, perché in alcuni momenti era più interessante e molto più diretto non rientrare in determinati schemi, ma immaginare che quella fosse una descrizione del paziente. Scrivere queste cartelle mi ha permesso di entrare nella vita del paziente. Nei convegni, di solito, il paziente è solo un mezzo per arrivare a parlare di una malattia o di un farmaco: al contrario, qui il paziente è al centro dell’attenzione.

D. Nella sua opinione, la scrittura della cartella parallela aiuta nel definire un migliore percorso terapeutico e una migliore cura globale?

MD. Non in senso stretto. Aiuta sicuramente il medico a capire il paziente in un senso più globale, anche perché una terapia non può prescindere dalla situazione ambientale, emotiva, o da difficoltà oggettive che il paziente può incontrare – anche nell’assunzione o nella non assunzione di una terapia. La scrittura della cartella parallela migliora la comunicazione: “costringe” il medico a diventare umano.

D. Dalle narrazioni raccolte, il paziente emerge come una persona attiva e piena di interessi. Crede che la raffigurazione comune del paziente anziano e non autosufficiente sia superabile?

MD. Deve essere superabile. Altrimenti, non avrebbero nessun senso le terapie che facciamo, non avrebbe senso provare ad aumentare le aspettative di vita di questi pazienti. I pazienti vogliono fare la terapia perché si sentono attivi, e vogliono essere attivi – anche se forse non nel modo che immaginiamo noi “più giovani”: vogliono uscire, andare al bar con gli amici, e anche prendersi cura del coniuge. E non vogliono essere di peso per i figli. Questi sono gli aspetti che dobbiamo avere come obiettivi, e a cui arrivare anche grazie ai farmaci.

Alessandra Fiorencis

Laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Specializzata nel campo dell’antropologia medica, ha condotto attività di formazione a docenti, ingegneri e medici operanti in contesti sia extra-europei che cosiddetti “multiculturali”. Ha partecipato a diversi seminari e conferenze, a livello nazionale e internazionale. Ha lavorato nel campo delle migrazioni e della child protection, focalizzandosi in particolare sulla documentazione delle torture e l’accesso alla protezione internazionale, svolgendo altresì attività di advocacy in ambito sanitario e di ricerca sull’accesso alle cure delle persone migranti irregolari affette da tubercolosi. Presso l’Area Sanità di Fondazione ISTUD si occupa di ricerca, scientific editing e medical writing.

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